Il Fatto 29.8.17
Il subcomandante Berty, nato leninista e finito ciellino
di Andrea Scanzi
La cosa più bella della biografia di Fausto Bertinotti si incontra giusto alla fine della prima riga della sua pagina Wikipedia: “Ex politico”. In quella prima parolina, “ex”, è racchiusa tutta la gioia liberatoria provata quando ripensi a qualcosa che prima purtroppo c’era e ora per fortuna non più. Certo, si potrebbe asserire non senza fondamento che quelli dopo di lui son quasi riusciti a farlo rimpiangere, ma si sa: essere di sinistra in Italia è dolore, è golgota, è martirio. Di fatto la sinistra italiana, salvo meritorie eccezioni, esiste per darti ogni giorno più voglia di diventare di destra. Ogni tanto di Fausto Bertinotti si torna a parlare, quasi sempre a fine agosto, quasi sempre durante l’avvincente meeting di Comunione e Liberazione. È qui che, ogni anno, l’ex compagno Fausto ci guida e – con ciò – ci detta la linea. Nato 77 anni fa a Milano, il subcomandante Berty ebbe l’anno scorso a dirci: “Il movimento operaio è morto, in Cl ho ritrovato un popolo”. Parole forti, e soprattutto a caso. Come quasi sempre. La ricetta bertinottica, che faceva impazzire tanti barricaderi assai presunti e ben poco veri, è sempre stata così: un po’ di questo, un po’ di quello. E una spolveratina di niente. La tecnica oratoria era consolidata: parlar tanto per non dir nulla, abusando di immagini il più possibile auliche affinché tutti capissero che lui era comunista. Molto comunista. Sì. Però colto. Colto e figo. Tanto figo, come testimoniavano i completini di cachemire, il sigaro pendulo per sentirsi quasi Che Guevara, i portaocchiali al collo che in tutta la storia dell’umanità si è potuto permettere giusto Ivan Graziani. E poi quella “erre”, che il Lìder Fausto soleva arrotare su se stessa con fare sommamente compiaciuto, prima di dispensare l’agognato Verbo lenin-marxista-bertinottista.
Di lui forniva un’imitazione magistrale Corrado Guzzanti, più vera del vero come lo è quella di Maurizio Crozza quando dà vita al sempre più improponibile Renzi. Emblema della sinistra salottiera e velleitaria, massimalista al punto giusto da non contare nulla e per questo stimatissimo dalla destra, Bertinotti – lo si scrive ai più giovani o a chi, senza neanche troppa fatica, ne ha già dimenticato le gesta politiche – è stato uno dei tanti ad alimentare speranze per poi spazzarle via. Bombardando pure, ove possibile, le fondamenta di quelle stesse speranze così bellamente disattese. Uomo del “tutto o niente”, come lo erano un tempo i Chicco Testa, gli Staino Sergio e i Genny Migliore, ha presto finito con l’accontentarsi civettuolamente della maglietta di presidente della Camera dei deputati. L’ha indossata, con orgoglio e medio cipiglio, dal 2006 al 2008. Dieci anni prima, come non smette di rinfacciargli Nanni Moretti (e mica solo lui), disarcionò Prodi permettendo così che la sinistra perisse definitivamente – o giù di lì – grazie alla brodaglia del governo D’Alema. Bei momenti. Sindacalista mai domo, o così pareva, il subcomandante Berty ha sempre detto di sentirsi a cavallo tra “socialismo lombardiano” e “comunismo ingraiano”. Qualsiasi cosa volesse dire. Pochi giorni fa, dal pulpito notoriamente bolscevico di Cl, Egli ci ha parlato ancora. Ascoltiamolo: “La sinistra si è disfatta della storia, Cl no”; “Dobbiamo porci il problema della fede”; “Il futuro senza tradizione rende succubi”. E giù applausi, e poi ovazioni, e quindi supercazzole. Così parlò il subcomandante Berty, l’uomo nato leninista e finito ciellino. Lasciando, nel mezzo del suo e nostro cammino, macerie politiche inaudite. Di cui, probabilmente, neanche si è accorto.
Il Fatto 29.8.17
Frontiere chiuse, cosa faranno dopo?
di Furio Colombo
“Frontiera! Frontiera! Cosa importa se si muore. Basta un grido di valore che il nemico arresterà!”. Queste erano le prime parole di un inno fascista fatto ripetere senza fine dai bambini, nelle scuole di regime degli anni Trenta, quando era essenziale inculcare nella testa dei piccoli due concetti che rendono facile, anzi naturale, accettare la guerra.
Uno è che la frontiera esiste non per definire un territorio, ma per essere chiusa e ben guardata, in modo che non passi nessuno. L’altro è che fuori dalla frontiera (che dunque diventa “sacra e inviolabile” e vuole il sangue ) c’è sempre, per definizione, il nemico. Che cosa fa di mestiere il nemico? Invade. E infatti l’inno ti spiega che “il grido di valore il nemico arresterà”. Ovvero, prima che invada lui, invadiamo noi. Il nemico, come dice la parola stessa (e l’inno, in un altro punto ) è “codardo”. E allora (altro inno) “Nizza, Savoia, Corsica fatal, Malta baluardo di romanità. Tunisi è nostra, nostro il nostro mar, tuona la libertà” (intesa come espansione e dominio).
Segue “In armi, Camicie Nere! In piedi, fratelli Corsi!” e la lezione dell’indottrinamento (con buona pace di molti leghisti, che si schierano accanto a CasaPound, ma vorrebbero solo sbarazzarsi dei ”neger” e il diritto di sparare in casa), è completa: sbarrare le frontiere non vuol dire niente se non segue la proclamazione della guerra (“Siamo in guerra!” ti ripetono i loro giornali, che chiamano già adesso “bastardi” quelli che sono fuori e che pretendono di entrare, pur professando la religione sbagliata e ignorando le tradizioni delle nostre valli).
L’Italia, Paese co-fondatore dell’Europa, non è solo l’autore della chiusura ai bastardi, in attesa che la Libia ci aiuti a fare di meglio. L’Italia è stata chiusa fuori a sua volta, da Austria, Francia, Polonia e Balcani. La nostra educata protesta si è sentita appena. Siamo fascisti solo a metà.
Il Fatto 29.8.17
La linea sottile tra legge e giustizia
di Roberta de Monticelli
Ci sono momenti in cui si può arrivare a disperare che attenzione, conoscenza dei problemi, onestà e logica siano d’aiuto nelle discussioni sui fatti della vita politica e civile. Questi momenti sono molto bui, perché queste discussioni sono la microstruttura delle democrazie, il loro tessuto cellulare. Se le cellule impazziscono, sappiamo cosa accade all’organismo. Cito due esempi, come due icone in cui si contemplano tutti insieme i grandi problemi attuali della convivenza civile: entrambi hanno a che vedere con la grande questione delle migrazioni. La discussione intorno a queste icone sembra in questi giorni impazzita.
Un momento iconico recente è stata una frase di apparenza paradossale, come “reato umanitario”, con cui un magistrato inquirente si riferì al presunto comportamento dei responsabili di una nave Ong nei pressi della costa libica. Aveva ben chiarito il senso delle sue parole: una certa azione costituisce effettivamente una violazione di leggi o normative di rilievo penale e perciò si chiama “reato”. Ma può essere compiuta per motivi del tutto estranei al vantaggio personale, per motivi nobili e altruistici, come una causa umanitaria. Ebbene: dov’è lo scandalo? Mettiamo fra parentesi la questione se così sia avvenuto. Ma è lecito negare che sia una possibilità logica? È lecito, voglio dire, se si fa attenzione al senso delle parole, si ha una conoscenza anche minima del diritto, della morale e della storia – e rispetto per la logica? Come avrebbero potuto esistere gli obiettori di coscienza? E Socrate, per cosa sarebbe vissuto e morto? E sottolineo: morto. Accettando le conclusioni della legge che era accusato di violare.
E allora perché quasi all’unisono alcuni fra gli scrittori, oratori, commentatori che hanno più presenza, e spesso nobile, nel dibattito pubblico, hanno profuso sarcasmo e sdegno sull’idea stessa? Come se non fosse una verità possibile, ma un vituperio lanciato contro avversari politici. Una visione anti-umanitaria del mondo. La vedi così perché sei di destra. Io invece sono di sinistra. Ma questo è terribile: perché che si possano commettere reati anche per ragioni nobili è vero, e crederlo non dipende dalle fedi politiche. Se non fosse vero, allora delle due l’una: o nessuna legge sarebbe mai sbagliata, ingiusta, da correggere. Misura della giustizia sarebbe solo il diritto positivo esistente. Oppure la nobiltà dell’intenzione dispenserebbe dall’osservanza di qualunque legge ostacoli l’intenzione. Anzi renderebbe superflua qualunque regolamentazione (tanto per riferirsi concretamente a quella tentata dal Codice Minniti). Entrambi i corni dell’alternativa segnano l’impazzimento del codice genetico stesso di una democrazia: la distinzione fra etica e diritto. Proprio perché questa distinzione c’è, è possibile che alcune leggi esistenti siano ingiuste, e quindi vadano cambiate. Ma, di nuovo per questa distinzione, vanno cambiate nel rispetto delle leggi, cioè per vie politiche. Non basta fregarsene. Oppure è tutto il concetto e il valore della legalità che si rigetta. Però la legge del cuore e la rivoluzione non stridono un po’ con l’accettare tutte le altre regole che tutelano i nostri diritti, anche quello di discuterle e cambiarle?
Un’altra icona di questi giorni è una piazza di Roma sgomberata dai migranti che vi dormivano. Sta in mezzo alla coscienza di chi ne ha una, come anche il palazzo sgomberato prima, esempio di cento altri edifici abusivamente occupati, come la tendopoli pietosamente organizzata accolta dai frati minori sotto i portici quattrocenteschi della basilica dei Santi Apostoli. Degnissimo esercizio di pietà cristiana anche questo. Ma, di nuovo: non è anche suolo pubblico, quello? E se lo è, sarebbe lecito occuparlo con delle tendopoli? Ora, naturalmente, la sommessa domanda è in chi scrive subito tacitata dalla gratitudine per i frati minori: ma la struttura logica della riflessione, salva l’empatia verso le ragioni cristiane, è la stessa. Si possono commettere infrazioni per nobili motivi. Magari anche violenze, come le occupazioni abusive di edifici? Certo che si può. Ma non si dovrebbe.
E dunque la cosa più urgente è accertare le responsabilità e le inadempienze di ciascuno. Se siamo per l’accoglienza, dobbiamo in primo luogo chiedere che siano approntati i mezzi legali per farvi fronte: alloggi non rifiutabili e rigorosi percorsi di integrazione. Se invece punti il dito su Nessuno o lo Spirito del Mondo, e lo accusi di farci credere che “la povertà è una colpa” (editoriale di Repubblica, 26.07), e poi come ai tempi dei Borboni te la prendi con “gli sbirri”, nasce allora il dubbio che anche tu, caro amico, di logica, etica e legalità te ne freghi. Basta la politica. Ti basta sottintendere: io sono di sinistra, tu di destra (e giù insulti, sui social). Solo che non c’è società più marcia di quelle dove la politica si riduce a questo.
Repubblica 29.8.17
“La rotta per la Libia è diventata pericolosa”: passaparola nell’Africa occidentale. Il corridoio è sempre più stretto e si muore nel deserto
Niger, l’esodo sta rallentando la strategia di Roma funziona ma la strage ora è nel deserto
di Gianluca Di Feo
LE VOCI CORRONO veloci lungo le carovaniere del deserto, con un passaparola che trasmette lo stesso messaggio in tutta l’Africa occidentale: «La rotta per la Libia è diventata pericolosa ». Sì, costi e rischi sono sempre più alti, la speranza di arrivare in Europa sempre più bassa. E la gente smette di partire. Lo testimoniano i numeri dell’esodo monitorati in Niger, il grande crocevia dei percorsi che portano al Mediterraneo e snodo della strategia annunciata ieri a Parigi. Nel 2016 gli osservatori dello Iom, l’Organizzazione per le migrazioni, avevano censito 333 mila persone in viaggio verso Nord, quest’anno invece fino a luglio ne sono state contate 38 mila mentre dagli stessi valichi quasi il doppio ha fatto il percorso inverso, cercando di tornare a casa. «C’è un calo drastico calo dei flussi verso la Libia. Non vediamo più quei convogli di 50-60 veicoli che l’anno scorso erano frequenti», conferma Alberto Preato, uno dei dirigenti Iom in Niger: «I migranti che accogliamo parlano molto tra loro e dai loro discorsi emerge con chiarezza come quella rotta sia diventata difficile».
Le pressioni e le sovvenzioni europee hanno spinto il governo nigerino a cambiare linea. C’è una nuova legge che punisce i trafficanti con l’arresto e il sequestro dei camion. Ci sono gendarmi meglio addestrati ed equipaggiati. Anche i francesi, presenti nell’ex colonia da quattro anni con una missione militare, adesso sono più attivi: l’onda lunga delle stragi terroristiche e il timore che in qualche modo l’Isis tragga vantaggio da questi movimenti, li ha convinti ad aprire gli occhi sulla situazione. E i primi progetti umanitari, finanziati dai singoli paesi o dalla Ue, stanno facendo nascere prospettive alternative all’emigrazione. C’è però chi va avanti. Le organizzazioni dei trafficanti non sono scomparse: evitano i posti di polizia e sfuggono ai censimenti, muovendosi direttamente nel deserto. Una traversata micidiale, con persone che per guasti o cinismo vengono abbandonate nel nulla. «Molti rischiano la vita», spiega Preato: «Ora mandiamo quasi tutti i giorni delle missioni per soccorrere questi dispersi. Le autorità locali e l’esercito nigerino collaborano con noi in queste ricerche: più di mille persone sono state salvate negli ultimi mesi». Patrick, un giovane nigeriano, ha raccontato il calvario del suo gruppo: «Abbiamo vagato senz’acqua per dieci giorni. Ho visto due bambini morire e subito dopo la loro madre. Prima che arrivassero gli aiuti ho scavato 24 fosse nella sabbia».
Questo è l’altro volto della politica di dissuasione messa in atto dall’Unione europea, con una regia italiana e un contributo francese, in passato parallelo e infine convergente. Chi vuole o deve attraversare il Mediterraneo, perché in fuga dalla persecuzione o perché intrappolato nel caos libico, oggi affronta un viaggio infernale. I controlli delle istituzioni nigerine si trasformano in repressione armata in Libia, dove la caccia ai migranti è diventata più remunerativa – grazie ai fondi ufficiali e alle elargizioni dell’intelligence – del loro sfruttamento.
La strategia dei piccoli passi avviata dal ministro Marco Minniti sta funzionando: di fatto chi si dirige verso le nostre coste ha davanti un triplice sbarramento. Nel Fezzan, la prima tappa libica, la pace siglata a Roma tra tebù e tuareg ha concluso tre anni di guerra, finanziata soprattutto con il traffico di uomini. Le nostre sovvenzioni inoltre stanno spingendo alla sorveglianza dei confini e delle arterie principali. Più a nord sono scese in campo le milizie municipali, spesso guidate dagli stessi personaggi che fino a pochi mesi fa gestivano il mercato dei barconi come lo “Zio” che comanda la brigata 48 di Zuwara. Sono loro che dominano il territorio, espressione di quei consigli cittadini che costituiscono l’unica autorità: l’accordo con i loro leader è stato appena rinnovato a Roma e benedetto dall’Ue. A Tripoli c’è poi un’altra forza, legata al governo Serraj, chiamata Rada, che la scorsa settimana fa ha catturato “il re dei trafficanti”: tal Musa Bin Khalifa indicato come il signore delle spiagge degli scafisti. Infine c’è la Guardia costiera, equipaggiata e assistita dalla nostra Marina, a cui adesso spettano tutti gli interventi nelle acque territoriali, tenendo alla larga le navi delle ong.
Tre giorni fa la Corte Suprema di Tripoli ha dato un riconoscimento giuridico ai patti per il contrasto dell’immigrazione. Quindi la forma è salva: le operazioni delle milizie municipali e delle strutture nazionali hanno un timbro di legalità. Ma la verità in Libia è sempre scritta sulla sabbia e nessuno può dare garanzie sulla sorte di chi finisce nelle mani dei potentati. Che si dividono ogni aiuto: pochi giorni fa abbiamo consegnato diecimila kit di prima assistenza per i migranti, subito spartiti tra guardia costiera e municipalità di Zuwara. Ma tutti sanno – e lo stesso Minniti ha posto la questione – che in Tripolitania è difficile se non impossibile ottenere il rispetto dei diritti umani: l’Onu ha ribadito ieri la denuncia sulle condizioni dei centri di dentenzione.
La soluzione che arriva da Parigi è quella di spostare il problema in Niger. Si annuncia la creazione lì degli hotspot dove vagliare le domande di asilo, valutando la possibilità di trasferirvi le persone fermate in Libia, sotto la vigilanza di un contingente militare. Un altro esodo, forzato e in senso inverso. Il segno delle difficoltà dell’Europa, che seguendo la pista aperta dall’Italia sta riuscendo a frenare gli sbarchi, ma ora deve trovare il modo di tutelare quei diritti che sono l’essenza della nostra civiltà.
Repubblica 29.8.17
Il muro nell’acqua
In Libia è caccia aperta al migrante sulla costa. Perché è diventato più facile fermare le partenze che gestirle
Cinque giorni di ricerche inutili All’alba del sesto, l’annuncio: “Gommone all’orizzonte”
A bordo della Aquarius nell’agosto senza sbarchi “Il blocco c’è, da qui si vede”
di Corrado Zunino
A BORDO DELLA NAVE AQUARIUS.
Guarda il cielo, Ibrahim. Non è più quello del Niger. E al nuovo cielo lancia un bacio. Ha i piedi — nudi — sopra una nave, dopo undici ore trascorse accovacciato su un canotto spesso quattro millimetri, per metà colmo d’acqua. I suoi piedi, sul gommone grigio importato dalla Cina, alla deriva al largo della Libia, stavano dentro un impasto di sale e nafta: il carburante lasciato dagli scafisti usciva dal cilindro a ogni onda e si addensava sul fondo dell’imbarcazione. Ibrahim è salvo, come fosse già Europa la nave Aquarius: la sua seconda vita inizia adesso, di domenica. La sua e di centoquindici. Tutti africani. «Grazie a Dio», guarda il cielo. Le undici e cinquantadue è l’ora sul ponte di comando.
In un agosto con gli sbarchi sospesi, gli ultimi due giorni — ieri e domenica appunto — sono di rinnovati salvataggi. Il summit di Parigi offre denaro alle comunità libiche per fermare i gommoni in mare, ai suoi quattordici sindaci sulle rotte dei migranti, ma dalla costa di Sabrata e Misurata — rispettivamente ovest ed est di Tripoli — si ricomincia a partire. «La Libia è tanto instabile», dice Nicola Stalla, ufficiale di coperta di Alassio, responsabile della nuova missione di Sos Mediterranée, una delle cinque organizzazioni non governative che hanno accettato di far parte di un sistema di governo, quello italiano, che salva i migranti in mare solo quando non ci riescono i libici.
“RAPITI IN NIGER E VENDUTI AI LIBICI”
C’è un altro Ibrahim ora in nave e ha ventott’anni. Viene dal Sudan. Quando è sul ponte fa il segno del gol, e piange. «Rete», e piange. Ha la barba a ciuffi. Dalla scaletta di ferro sale, ancora, un ragazzino magrissimo, la maglietta di Cavani indosso, il nove del Paris Saint Germain. Il bracciale giallo che gli hanno messo al polso alla prima registrazione conferma: meno di 18 anni. L’ultimo shuttle — l’imbarcazione che fa la spola tra il canotto grigio e la tolda della nave Aquarius di Sos, ora ferma venti miglia a Nord di Homs — ha portato in salvo Ashraft da Hurgada, 43 anni. È scappato dall’Egitto, sì. La pistola puntata alla testa, anche lui ha pagato le milizie libiche: «Per il viaggio dal porto di Alessandria alle coste di Misurata ho sborsato 70 dinari l’ora », dice, «poi in Libia mi hanno portato via tutto quello che mi era rimasto». Saleh, camerunense, racconta che l’hanno rapito in Niger e venduto: «I miei familiari hanno dovuto spedire 1.500 euro per farmi liberare». Mostra la ferita, profonda, sulla testa. I lividi sulle braccia, alle caviglie. Chiede dov’è l’Italia, ma ha un fratello in Germania da raggiungere.
Il sorprendente agosto degli sbarchi soppressi — fino a venerdì scorso erano stati 2.932, il 14 per cento rispetto allo stesso mese del 2016 — fin qui è stato spiegato così. A terra e a bordo. La Brigata 48, la milizia libica più forte, feroce e corrotta, uno squadrone di banditi e agenti di polizia che ruota attorno alla città di Sabrata, ha imposto il fermo estivo ai suoi traffickers. Perché? Perché ora? Per soldi. E perché oggi in Libia è diventato più conveniente fermare gli sbarchi che organizzarli. Il Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarray è pronto a pagare la Brigata 48. Secondo il sito Middle East Eye, anche il governo italiano (che non ha voluto commentare). Di certo, sulle spiagge di città e di provincia si è aperta la caccia ai migranti, già picchiati e derubati nel viaggio a salire. Li prendono, facilmente, e li ricacciano indietro, nei centri di detenzione. «Il migrante è vulnerabile », dicono a bordo. Le ultime stime parlano di una cifra enorme di stranieri in territorio libico: tra seicentomila e un milione. Un sesto della popolazione. Sono compresi e compressi tra la costa, le dieci prigioni per clandestini, il deserto del Fezzan. Solo la guardia costiera libica negli ultimi tre mesi ha riportato a terra 14.500 migranti, erano già al largo dei porti di Sabrata, Zawiya, Zuara. «Nei centri di raccolta in Libia si può stare anche sei mesi, e settimane senza luce», dice l’ufficiale Stalla. «Diversi intorno a me sono morti», dice Saleh.
TRIPOLI: “INTERVENITE VOI”
La rete delle milizie e delle capitanerie sbrecciate con le loro motovedette donate dall’Italia resta larga, le fazioni sono diverse e in conflitto. L’arma delle partenze è sempre imbracciata mentre a Parigi si deve decidere del Sud del Mediterraneo. Infatti, alle 7 e 35 di domenica arriva la prima segnalazione, dopo cinque giorni di navigazione lenta e zero avvistamenti: «Gommone senza una direzione precisa con 116 naufraghi». È la guardia costiera di Roma, tecnicamente Mrcc. Il guardapesca Aquarius passa dai quattro nodi del pattugliamento con i binocoli puntati a nove nodi e mezzo. Cinquanta minuti, la squadra di Sos, ostetriche e mediatori di Médecins sans frontières, sono sul ponte. Il canotto grigio lì davanti. Dodici metri, motore spento, davvero senza direzione. Contrordine da Roma: non intervenite. «Vuole farlo la guardia costiera libica». L’ufficiale di coperta abbassa il telefono, l’Aquarius è a cento metri dall’obiettivo: nessuna discussione. I nuovi, sommari protocolli e il codice di condotta firmato da Sos hanno cambiato il quadro delle operazioni umanitarie: interviene la Libia, fino a 35 miglia da terra, fino a 40. Anche se stanno un’ora e mezza lontani e il sole cuoce le teste sul canotto.
Già. I migranti sono in mezzo a un Mediterraneo quasi piatto. Vedono una nave ferma, bianca e arancione, che non cala gommoni per la salvezza. «È un momento pericoloso», dice Ferry Schippers, coordinatore olandese di Msf, «quei cento potrebbero essere presi dal panico, lanciarsi in mare». L’ipotesi è di mandare solo un medico, la paura è quella dei mitragliatori libici. I sei giorni di viaggio dentro l’Aquarius, partita martedì mattina dal porto di Catania, sono trascorsi osservando la scorta delle navi militari italiane: la fregata missilistica Alpino, poi la Guardia civil. Già, ma la Libia non è pronta. «Abbiamo i motori rotti», rimbalza l’avviso al centro Mrcc. Eppure da inizio agosto nel porto di Tripoli c’è una nave-officina italiana. «Intervenite voi», si ascolta dalla ricetrasmittente dell’ufficiale di Alassio. Roma intende: voi, l’Aquarius. Ed è una liberazione per i rescuers dopo tante esercitazioni, dopo aver portato a bordo le barelle con il fantoccio inzuppato, dopo i pomeriggi alle cinque con il fitness club a poppa. Ora c’è l’azione vera, bisogna salvare. Max,Nic, l’ex pescatore Tanguy, Ludò. Calano i due Rib, scialuppe della modernità. Trasportano subito le bottiglie d’acqua, poi la spola di uomini. Andiamo con loro fin sotto al canotto fragile e quando Ludovic Dugueperoux, francese di Le Havre che vive in barca, mette al sicuro l’ultimo bambino e taglia il gommone, sul ponte dell’Aquarius si applaude. Il raft s’affloscia, scompare insieme alla nafta degli scafisti. I centosedici sono salvi e non torneranno in prigione in Libia.
QUATTRO INTERVENTI, IN500 IN ITALIA
È l’inizio. Ibrahim, Ashraft, Saleh hanno raccontato di altre barche uscite con loro dalle spiagge a Sud, cinque ore prima. Chi dice un canotto, chi due. Un aereo dell’Aviazione sorvola il cielo, più volte. L’Italia mostra le uniche istituzioni riconoscibili in queste acque internazionali. Ci sono quattro ong nelle due aree di ricerca, Est e Ovest. Di nuovo il centro di Roma, ormai pomeriggio: la nave “Open arms” ha avvistato un nuovo gommone. Escono solo gommoni in mare, ormai. Gli scafisti non vogliono più perdere imbarcazioni di legno. L’ufficiale Stalla mostra il campionario di plastiche: due centimetri di spessore, un centimetro, quattro millimetri. Open Arms è la ong spagnola accusata di essersi organizzata con i trafficanti per salvare più vite. Ora è qui: ha firmato. Ma la sua “Golfo azzurro” è piccola, bisogna trasferire i 135 del secondo salvataggio sui settantasette metri dell’Aquarius. E fanno 251.
I ragazzi della Costa d’Avorio, trentanove in tutto, salgono e ballano. Gli eritrei del trasbordo precedente sono infastiditi. Vogliono vomitare in pace. Maglietta bianca per tutti, pantaloni blu. E barrette ricostituenti. Ci sono ventisei donne, quaranta minori. La maggior parte non ha nessuno vicino per la nuova vita. Ibrahim, ancora un Ibrahim, un nome che ci rincorre, ha poco più di un anno. La famiglia c’è, tutta intera: papà del Mali, mamma nigeriana. Venti nazioni e metà Africa a bordo. Nessuno è grave, tutti dicono che in giro ci sono altre imbarcazioni: «Una, due». Le troverà il giorno dopo un peschereccio mercantile, poi Save the Children. Cinquecento persone da riportare in Italia, subito.
IL VIMINALE
Caso sgomberi seicento immobili per l’emergenza
ROMA.
Gli immobili confiscati alle mafie disponibili nelle grandi città alle prese con l’emergenza abitativa sono circa 600, non edifici ma appartamenti o ville, spesso non facilmente utilizzabili.
«Alcuni sono abusivi, alcuni hanno problemi strutturali.
Alcuni sono pronti all’uso, altri invece necessitano di adeguamenti. È evidente che c’è un problema di fondi per le ristrutturazioni», dice il direttore dell’Agenzia dei beni confiscati Ennio Maria Sodano, sottolineando come la scelta di utilizzarli per tamponare l’emergenza casa sia una prassi già acquisita.
Ed è questa la strada che il tavolo tecnico aperto dal Viminale con Anci, prefetti, questori e sindaci intende esplorare per dare un tetto agli occupanti abusivi in caso di sgomberi.
«È un sacrosanto principio cristiano dare un ricovero dignitoso, sia che si tratti di cittadini italiani che di migranti», il commento del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei.
Corriere 29.8.17
Poi la donna diventa calma
di Massimo Gramellini
«Lo stupro è un atto peggio, ma solo all’inizio, poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale». Ad avere scritto queste parole allucinanti che fanno violenza anzitutto alla lingua italiana è stato un mediatore culturale. Si chiama Abid Jee e vive a Bologna, dove studia Giurisprudenza a dispetto della medesima, ma percepisce regolare stipendio da una cooperativa per svolgere la nobile professione che, secondo la Treccani, consiste nel «mediare tra due o più culture, talora molto distanti l’una dall’altra, al fine di favorire l’inserimento di persone immigrate». Il problema è che per mediare tra due culture bisognerebbe possederne almeno mezza. Mentre nel linguaggio da entomologo del sesso con cui Abid Jee ha vivisezionato su Facebook lo scempio compiuto a Rimini da una banda di fallocrati si avverte soltanto la presenza di un pregiudizio cavernicolo nei confronti delle donne. In Europa avevamo cominciato a liberarcene (del pregiudizio, non ancora dei cavernicoli), prima che da oltremare giungessero rinforzi.
Sarebbe interessante conoscere i criteri in base ai quali vengono selezionati certi mediatori. Devono esprimersi in un italiano decongiuntivizzato per non demoralizzare gli ospiti circa le difficoltà della nostra lingua? E devono ignorare secoli di Illuminismo, di Romanticismo e finanche di Boldrinismo per non fare sentire a disagio chi a casa propria era abituato a considerare le donne una protesi silente del proprio ego? Ci spiegheranno che Abid Jee è un caso isolato. Ecco, nel caso ce ne fossero altri, isolateli.
Corriere 29.8.17
I flussi migratori
Una svolta e alcuni ostacoli
di Franco Venturini
Buone notizie dall’Europa. Da quanto tempo le aspettavamo, sul tema scottante dei flussi migratori che dalla Libia attraversano il Mediterraneo per raggiungere le nostre coste? Da molto, troppo tempo. Ma così come siamo stati puntuali e severi nel denunciare le indifferenze europee quando si sono manifestate, oggi è doveroso constatare con un cauto compiacimento che dal vertice di Parigi sono venute all’Italia e al suo governo impegnative espressioni di appoggio. Le regole per le Ong, gli accordi raggiunti dal ministro Minniti con autorità locali libiche, l’appoggio operativo dato alla guardia costiera di Tripoli, sono stati recepiti come altrettanti punti di partenza di una strategia complessiva che offre proprio in Italia l’incoraggiante riscontro di un netto calo degli arrivi.
Certo, attorno al tavolo di Parigi e sotto il patrocinio di Emmanuel Macron sono state scambiate parole, ancora parole. E a pronunciarle, malgrado la presenza dell’Alto rappresentante per la politica estera della Ue Federica Mogherini, era una minoranza dell’Europa, non tutta l’Europa. E tuttavia il cambiamento di approccio nei confronti della «linea italiana» è stato politicamente rilevante. Per almeno due motivi. Perché i Quattro di Parigi (Francia, Germania, Italia, Spagna) sono gli stessi Quattro che dopo le elezioni tedesche di fine settembre dovrebbero guidare il rilancio dell’Europa secondo il metodo delle «diverse velocità».
S oprattutto perché la più influente di queste avanguardie, quella signora Merkel che è ormai certa di essere rieletta alla Cancelleria, ha affermato alla vigilia dell’incontro di Parigi che «tutti in Europa devono riconoscere come il vecchio sistema di Dublino non sia più sostenibile».
L’idea di una rottamazione del metodo di Dublino (il profugo resta nel Paese dove viene identificato per la prima volta) non è nuova, e non è la prima volta che Angela Merkel la evoca. Ma riaffermarla mentre è in atto la volata finale della sua campagna elettorale e portarla volutamente sul tavolo di Parigi sono elementi che fanno pensare a una volontà politica precisa destinata a manifestarsi con maggior forza dopo il responso delle urne. Ed è evidente che ripensare radicalmente Dublino resta per l’Italia il più importante dei traguardi da raggiungere.
Un passo avanti è stato dunque compiuto, forse uno di quei passi che annunciano svolte profonde. L’Italia ha tutto il diritto di aspettarselo. Ma il compiacimento di oggi, per non rischiare di trasformarsi in delusione cocente, deve essere temperato dalla consapevolezza degli ostacoli che sussistono sulla via di una corretta e realistica gestione delle spinte migratorie.
Il tempo delle vite da salvare in mare non è tramontato, e verosimilmente non tramonterà. L’opera delle Ong che hanno preferito ritirarsi pur di non accettare le nuove regole imposte dall’Italia andrà compensata, perché non è pensabile, e nessuno vuole pensare, che un aumento delle morti in mare faccia parte della soluzione.
L’opera della guardia costiera libica, anche grazie all’appoggio e all’assistenza italiana, si sta rivelando positiva. Ma ha ragione la Merkel quando, dopo gli elogi, ricorda che essa deve attenersi alle leggi internazionali sia nella gestione dei migranti sia con le Ong.
Non si può e non si deve trasformare la Libia in un enorme campo profughi privo di garanzie umanitarie minime. Alla massa crescente dei migranti in attesa di imbarcarsi si aggiunge ora quella più piccola di coloro che sono stati intercettati e riportati a terra. E per i primi come per i secondi non esistono garanzie sulle procedure che vengono seguite, mentre esistono invece certezze sulle atrocità che le milizie dei trafficanti infliggono ai loro ostaggi. Senza un effettivo intervento in Libia dell’apposita agenzia Onu e della Organizzazione mondiale delle migrazioni, la realtà libica può soltanto alimentare preoccupazioni assai gravi. Anche in quella Tripolitania che dovrebbe essere governata dal nostro alleato Fayez al Serraj. Quando gli standard umanitari minimi saranno garantiti, ma soltanto allora, si potrà passare alla creazione di hot spots in Libia e al rimpatrio dei migranti nei loro Paesi di origine partendo, traguardo questo di fondamentale importanza, dal territorio africano anziché da quello europeo.
Questa strategia richiede una serie di politiche preliminari. Vanno conclusi accordi con i Paesi africani interessati e con quelli che possono frenare i migranti che attraversano il Sahel per entrare poi in Libia (i presidenti di Ciad e Niger erano a Parigi), occorre offrire alternative economiche alle popolazioni che oggi si trovano sulla rotta dei migranti e ne traggono benefici, occorre investire nei Paesi di origine per contenere la spinta all’emigrazione. Ma gli investimenti economici necessitano di tempo per dare frutti, e la pressione migratoria ha fretta.
Sullo sfondo rimangono tutte le divisioni e tutta l’insicurezza della Libia attuale. A Parigi c’era Al Serraj (anche questo è un riconoscimento per la linea italiana), ma senza una reale collaborazione con Haftar e la Cirenaica, rivelatasi finora impossibile, i progressi in Tripolitania restano vulnerabili. Oppure indicano la via di una «cantonizzazione» della Libia.
Sul versante europeo, poi, la questione migratoria rischia di spaccare la Ue. Mentre tutti guardano alla Brexit, è il gruppo di Visegrad che rappresenta per l’Europa la più seria minaccia di secessione. Una minaccia che viene già attuata quando si tratta, come dice risolutamente la Merkel, di «distribuire i profughi in modo solidale». La grande partita sta per cominciare, e si giocherà in Europa non meno che in Africa.
Il Fatto 29.8.17
La svolta in tre mesi: l’Ue a Parigi benedice la linea di Minniti
Il 21 maggio primo incontro coi governi di Ciad, Niger e Mali; a luglio quello con le tribù libiche: ora servono i soldi europei
di Marco Palombi
Ieri al vertice di Parigi tra Italia, Francia, Germania e Spagna è stata sancita non tanto la vittoria del ministro dell’Interno Marco Minniti sull’immigrazione, quanto l’inazione dei governi italiani finora. I numeri sono di plastica chiarezza: al 25 agosto il Viminale registra 3 mila sbarchi contro i 22.500 di un anno fa (a fine mese il calo sarà dell’80% e più); a luglio la stessa fonte certifica 11.500 arrivi dal mare contro i 23.500 di un anno prima; fino al 30 di giugno invece il trend era in aumento rispetto al 2016 (83.360 sbarcati in sei mesi, +18,7%).
Cos’è successo? Questo: l’Italia è tornata a fare politica autonoma in Africa e nel Mediterraneo dopo essere stata lasciata sola dall’Ue. Da quando infatti – era il febbraio 2016 – la Germania aveva chiuso la rotta balcanica convincendo l’Unione europea a dare 6 miliardi alla Turchia perché sigillasse la frontiera con la Grecia, Berlino e Bruxelles consideravano chiusa la questione: peccato che il blocco convogliasse la maggior parte dei migranti verso il Nord Africa e, quindi, l’Italia.
Perché il governo italiano, quello di Renzi, accettò questa situazione? L’ex ministro Emma Bonino ha rivelato: fu uno scambio tra sbarchi e maggiore flessibilità sul deficit. Evidentemente ora l’esecutivo, sempre a guida Pd, ha cambiato idea, forse complici i sondaggi: l’Italia è tornata a fare politica estera e non solo in Libia, anche in Niger, Ciad e Mali, tre ex colonie francesi che stanno a sud di Tripoli.
La cronologia degli eventi, per una volta, non è senza rapporti coi dati: il 21 maggio c’è la prima riunione tra il ministro dell’Interno Minniti e i colleghi di Libia, Niger e Ciad. L’accordo di cooperazione prevedeva di “sostenere la costruzione e la gestione dei centri di accoglienza in Niger e Ciad per migranti irregolari conformemente agli standard umanitari internazionali” e di “promuovere lo sviluppo di una economia legale alternativa a quella collegata ai traffici illeciti”. In sostanza, era il tentativo di bloccare l’immigrazione illegale lontano dal Mediterraneo. Come? Pagando.
Poi c’è la Libia. Il 13 luglio a Tripoli Minniti ha coinvolto nell’operazione 14 sindaci del Paese nordafricano, il governo di Fayez al Serraj (che controlla Tripoli) e, informalmente, pure quello del generale Haftar (che sta a Tobruk, a est). Anche i libici, insomma, sono parte della nuova strategia italiana. Come sono stati convinti? Sempre pagando. Come si legge nella dichiarazione che ha concluso il secondo incontro, sabato 26 agosto, al Viminale: “La Libia guarda con aspettativa al tempestivo sostegno dell’Italia e dell’Ue ai progetti già proposti e che saranno proposti in futuro, finalizzati al miglioramento delle condizioni di chi vive nelle aree colpite dai traffici”.
Il tour de force di Minniti si è chiuso ieri mattina, sempre a Roma, con la riunione della “Cabina di regia” dei ministri dell’Interno di Ciad, Italia, Libia, Mali e Niger. La dichiarazione congiunta è la solita sequela di impegni a una maggiore cooperazione contro il traffico di esseri umani sempre nel rispetto dei diritti di rifugiati e migranti. A patto, però, che arrivino “progetti di sviluppo” e i “relativi canali di finanziamento, attraverso un organico piano di investimenti che possa avvalersi anche dei fondi del Trust Fund Ue per l’Africa”. Tradotto: gli africani – dicono i numeri – hanno fatto la loro parte bloccando le partenze, ora sta a Italia e Ue rispettare i patti e pagare. Come saranno spesi quei soldi dimostrerà se la preoccupazione per i diritti umani (e cioè il coinvolgimento dell’Onu) erano chiacchiere o no.
La ciliegina sulla torta è stato il vertice di ieri a Parigi. Che la linea italiana fosse accettata dal resto dei grandi Paesi europei non era scontato: al vertice di Tallin, a inizio luglio, l’Italia era stata presa a pesci in faccia, mentre Emmanuel Macron portava avanti una diplomazia “francese” in Nord Africa. Aperture non erano arrivate neanche in seguito, tanto che a ferragosto lo stesso Minniti aveva dovuto spiegare che la “solidarietà europea” fino ad allora s’era espressa nell’offerta di pagare l’Italia perché aprisse più hotspot sul suo territorio: un grande campo profughi a forma di stivale.
È stata Angela Merkel, alla fine, a spostare l’equilibrio a favore dell’Italia: il fatto compiuto dell’attivismo italiano in Africa ha potuto più delle perplessità francesi. Il documento finale del vertice di Parigi è, infatti, “Minnitì” allo stato puro: vi si parla di cooperazione con Niger, Ciad e Mali e degli accordi coi 14 sindaci libici come della politica ufficiale Ue. “Germania, Spagna e Francia sono pronte a sostenere questo approccio”. Lo stesso Macron è stato costretto a benedire: “La cooperazione italo-libica è l’esempio di ciò che vogliamo fare” come pure il coinvolgimento delle ex colonie francesi. Merkel, pragmatica: “La distinzione tra migranti economici e rifugiati” deve avvenire in campi Onu in Africa e “il sistema Dublino va rivisto perché sfavorisce i Paesi d’arrivo”. Paolo Gentiloni, lì accanto, annuiva: “Serve un impegno europeo”. Un augurio, più che altro: adesso, dopo le parole, l’Europa deve aprire portafogli e frontiere.
Il Fatto 29.8.17
Macron da record: nessuno più impopolare in tre mesi
Addio tempo delle mele - Ormai piace solo a 4 francesi su 10
di Leonardo Coen
“Ho la convinzione feroce che noi possiamo osare l’avvenire”, ha scritto Emmanuel Macron nel suo saggio intitolato Rèvolution (pubblicato lo scorso novembre): l’avvenire, l’ha ripetuto in ogni comizio, è al centro del suo programma, “dobbiamo averne il gusto”, insomma, è una professione di fede, un incantesimo politico che potrebbe trasformarsi in realtà e in vantaggio per tutti. Messaggio che ha sedotto i francesi: un miraggio diventato miracolo elettorale. Il neocentrista Macron si proponeva come “terza via” rispetto alla destra e alla sinistra tradizionali, evocando una “rivoluzione democratica per riconciliare in Francia la libertà e il progresso”. Bei paroloni. Quanto all’Europa, Macron si è subito proposto come il Talleyrand di una rinnovata Unione, e come tale si è presentato ieri, una volta di più, al summit sui profughi con Angela Merkel e Paolo Gentiloni.
Ma il tempo delle mele è finito da un pezzo. Il legame che univa Macron ai francesi si basava più sulla ragione che sulla passione. E la ragione, oggi, dice che le riforme promesse da Macron su licenziamenti, contratti di lavoro, sindacati, pensioni, cioè il Jobs Act in salsa Eliseo, dipingono un avvenire opaco, e ingrato soprattutto per i ceti più bassi. Risultato: nel giro di 48 ore due sondaggi hanno scattato un’istantanea politicamente drammatica. La popolarità di Macron, già in picchiata a luglio (-10%), è precipitata ancor di più ad agosto. Un tracollo. Ormai, solo 4 francesi su 10 sono soddisfatti del suo operato, lo certifica l’inchiesta Ifop per il Journal du Dimanche: Macron ha perso altri 14 punti in 30 giorni. I paragoni con i suoi predecessori sono impietosi: nel 2012, allo stesso momento, François Hollande godeva di una popolarità nettamente più alta (54%), mentre quella di Nicolas Sarkozy era ancora più forte nel 2007 (67%). E ieri, nuova conferma dall’agenzia Odoxa per il network RTL: due francesi su tre bocciano la riforma del Codice del Lavoro, il 63 per cento dei francesi la considera una cattiva idea e quindi “sfiduciano” Macron e il governo. Per i lettori online del quotidiano Le Figaro, Macron paga tre gravi errori: 1) ha scontentato i pensionati: “Confonde il principio della gestione di un’impresa con la presidenza della Francia”, inoltre l’estate macroniana ha dato l’impressione di una politica “dolce” per i ricchi e dura per i poveri; 2) è uno che vuole dare lezioni, “un presidente vanitoso”, tratta gli altri Paesi “con una punta d’arroganza”, vedi il recentissimo caso della Polonia, dove ha innescato una lite diplomatica accusando Varsavia di “dumping sociale”; 3) la sua “comunicazione” lascia molto a desiderare, parere condiviso da tutti i media francesi.
In realtà, Macron paga il suo pragmatismo economico: imporre meno sprechi, darsi regole più rigide quindi più impopolari. Nel mirino, oltre al lavoro, protezione sociale e collettività locali: da qui intende risparmiare 80 miliardi di Euro entro il 2022. Una stangata che Jean-Luc Mélénchon ha già battezzato “colpo di Stato sociale”, contro il quale ha chiamato a raccolta “il popolo francese” per una grande manifestazione a Parigi il 23 settembre, accusando il governo di organizzare la misère et la pagaille, la miseria e il casino. Né aiuta il fatto – oggettivo – che invece Brigitte la Première Dame sia sempre più popolare: l’intervista concessa a Elle una settimana fa ha fruttato 500 mila copie, mai così tante negli ultimi 10 anni. È la carta nemmeno tanto segreta di Emmanuel. Il quale, con abilità, ha anticipato la sua difficile “rentrée” cominciando dall’Europa, per rimandare l’impatto casalingo: tre giorni in Austria, Romania, Polonia, i summit di ieri. Ma anche in Europa, qualcosa ha perso, rispetto all’eccellente immagine determinata dalle sue prime mosse. Con grande scorno di chi – Renzi in primis – l’aveva osannato, portandolo a esempio e modello politico.
La Stampa 29.8.17
Ora la sfida degli impegni concreti
di Stefano Stefanini
Qualche dato e cifra in più non avrebbe guastato, ma il risultato diplomatico è notevole. Ieri sera, in conferenza stampa, quattro leader europei, i presidenti libico, nigeriano, ciadiano e l’Alto Rappresentante Ue, hanno recitato dallo spartito italiano: il problema immigrazione va affrontato alla radice africana. La chiave sta nello sviluppo dell’Africa e nel sostegno alle capacità libiche. Il filtro e l’accoglienza ai migranti si spostano nei Paesi di transito tramite un piano Unhcr, finanziato dall’Ue. Musica per le orecchie romane (e libiche, e africane). Se (un grosso se) seguiranno i fatti, la strada imboccata è finalmente quella giusta.
Spesso il segreto della politica estera è la capacità di trasformare una crisi in un’opportunità. Questo il merito che va riconosciuto oggi al governo Gentiloni, e in particolare al ministro Minniti. Solo due mesi fa tutto faceva pensare a un’estate del 2017 dominata da una doppia crisi immigrazione: di sbarchi incontrollati in Italia e di conseguenti tensioni fra Roma e il resto dell’Europa. Non è stato così. La riunione di ieri a Parigi segna ora un primo passo per gestire la pressione immigratoria dall’Africa attraverso la collaborazione fra i diretti interessati, europei e africani. Cioè nell’unico modo possibile.
L’approccio scaturito dalla riunione di Parigi riconosce la centralità del ruolo di Tripoli nel contrasto al traffico, in entrata come in uscita. Anziché aspettare i tempi lunghi, di un processo politico di superamento delle divisioni e di amalgama nazionale, i partecipanti hanno affrontato pragmaticamente il problema di assicurarsi la collaborazione di chi effettivamente controlla il territorio: a monte, Niger e Ciad da dove entrano i convogli clandestini; le municipalità libiche dove i migranti passano o stazionano in attesa d’imbarco; i porti e la guardia costiera libica che possono fermarli.
Il vertice di Parigi fa propria l’azione che Roma sta svolgendo dallo scorso gennaio. L’Italia sa benissimo che la crisi libica passa attraverso un complesso negoziato fra le principali forze in campo, specie fra Tripoli e Tobruk. Sa che il coinvolgimento dell’Egitto e degli altri Paesi nordafricani e arabi, confinanti e non, è indispensabile. Appoggia pertanto in pieno l’unica iniziativa negoziale delle Nazioni Unite (l’unica in corso), affidata all’inviato speciale Ghassan Salameh, libanese. Essendo gli unici ad avere un’ambasciata aperta e funzionante a Tripoli l’ambasciatore Giuseppe Perrone diventa automaticamente un interlocutore privilegiato di Salameh e del Palazzo di Vetro.
Parallelamente il governo Gentiloni ha affrontato il problema immigrazione e traffici con una politica dei piedi per terra, facendo leva anche sull’interesse libico a riprendere il controllo di quello che passa attraverso i confini, come riconosceva ieri su queste colonne il ministro dell’Interno di Tripoli, Aref Khoja. I risultati non sono mancati: gli arrivi sono drasticamente calati. Tutto questo era però affidato al canale bilaterale, sia fra Italia e Libia che fra Italia e Paesi africani di transito e provenienza. Il salto di qualità fatto ieri a Parigi sta nel responsabilizzare i partner chiave in Europa e in Africa.
In attesa di seguiti tangibili - sul terreno, in Libia, in Africa - le dichiarazioni di ieri vanno prese con beneficio d’inventario. Non siamo ancora all’impegno «europeo», auspicato dal presidente del Consiglio. Federica Mogherini non è in grado di prenderlo tanto meno nell’ammontare finanziario necessario. Ma una (vera) intesa fra Macron, Rajoy, Merkel e Gentiloni, conta più di qualsiasi dichiarazione di Bruxelles.
Il rischio di una nostalgica gara d’influenza in Nord Africa fra Francia e Italia sembra accantonato per far posto a uno sforzo congiunto dove ciascuno porta i propri punti di forza. Il ruolo di Parigi a Sud e Ovest della frontiera libica è fondamentale e presiedendo la riunione di ieri Macron ha ribadito la propria centralità. È importante avere a bordo la Spagna che ha peso nella regione e affronta simili pressioni. E soprattutto non si può decidere fra europei di cosa fare in Africa senza avere gli africani al tavolo.
L’Italia può essere ragionevolmente soddisfatta del vertice di ieri. I nostri partner europei hanno detto le cose giuste; dobbiamo adesso rimboccarci le maniche e farle, insieme.
Corriere 29.8.17
Scuole, ospedali e centri sportivi Minniti: così aiuteremo i libici
di Fiorenza Sarzanini
Il ministro: già a disposizione 170 milioni, garantito il rispetto dei diritti umani
ROMA Scuole, ospedali, reti elettriche e idriche, centri sportivi per i giovani, telecamere per la sorveglianza dei quartieri, ristrutturazione dei commissariati: l’elenco trasmesso dai sindaci delle città libiche punta agli aiuti alla popolazione. L’accordo siglato dal ministro dell’Interno Marco Minniti per fermare le partenze da spiagge e porti «prevede la costruzione di un circuito economico positivo che impieghi i giovani e li sottragga a quel circuito criminale che specula sui disperati». Dopo aver incassato il sostegno dell’Europa al vertice di Parigi, il titolare del Viminale rivendica «di aver imboccato una strada che sembrava impossibile e ottenuto un successo impensabile fino a qualche mese fa. Sappiamo bene che il percorso è ancora lungo, ma siamo già riusciti a dimostrare come il traffico di esseri umani non è più pagante, ci sono altre soluzioni e noi siamo in prima linea affinché si realizzino. Naturalmente con la garanzia del rispetto dei diritti e per questo coinvolgeremo anche le associazioni umanitarie locali».
La lista dei progetti
Sono 14 le municipalità coinvolte nell’intesa, dodici hanno già trasmesso la lista delle proprie necessità: sono Al Maya, Al Shueref, Bani Walid, Qatrun, Janzur, Khoms, Kufra, Sabratha, Zwara, Surman, Zawia e Misurata. «Il vero risultato — chiarisce Minniti — è stato quello di coinvolgere nei negoziati autorità locali come quelle di Sabratha che fino a ora avevano sempre mostrato un atteggiamento di netta chiusura nei confronti di una cooperazione internazionale. Credo che proprio questo sia stato un elemento determinante per far leva sui governi europei e sui rappresentanti dell’Ue».
La strategia è quella di individuare una priorità per ogni città e realizzare subito il primo progetto. Sabratha ha indicato tra le urgenze la «depurazione delle acque reflue, le forniture per l’ospedale e la creazione di un laboratorio per le analisi cliniche»; Zwara chiede «la rete elettrica e un ospedale»; Al Shueref vorrebbe avere «un asilo, un centro medico, un complesso sportivo per i ragazzi; a Kufra servono «le pompe idriche e l’ospedale»; a Katrum si dovrebbe «ristrutturare il commissariato e creare un sistema di sorveglianza della città».
100 milioni al mese
L’Ue si è impegnata a finanziare il progetto con un piano triennale, l’Italia metterà la propria parte e questo potrebbe aprire la strada anche all’impegno di imprese specializzate proprio nella costruzione delle infrastrutture. Anche tenendo conto che attualmente il sistema di accoglienza nel nostro Paese costa oltre 100 milioni al mese per un totale di circa un miliardo e mezzo di euro l’anno e «una parte di quei soldi può essere impiegata negli Stati africani». È quel «sistema virtuoso» di cui parla Minniti che mira a coinvolgere «il maggior numero di soggetti perché soltanto in questo modo potremmo davvero rivendicare di aver contribuito a gestire i flussi migratori, anziché subirli».
Non a caso nell’incontro che si è svolto ieri mattina al Viminale con i ministri dell’Interno di Ciad, Niger e Mali si è deciso di «coinvolgere anche loro nel dialogo con le autorità municipali, in modo da sviluppare economie alternative». Il motivo lo spiega proprio Minniti: «Per fare un esempio, ci sono ragazzi che in Niger gestiscono posti di ristoro dove i migranti si fermano nel corso dei loro viaggi. Vogliamo far capire che la loro attività sarà sostenuta anche se i viaggi della speranza finiranno, proprio perché l’economia locale avrà nuove capacità di sviluppo».
I centri di accoglienza
Rimane il problema dei centri di accoglienza. Libia, Niger, Ciad e Mali hanno sottoscritto l’impegno a «coinvolgere Unhcr e Oim per realizzare o migliorare le strutture per migranti irregolari, coerentemente con il proprio impianto legislativo, con l’obiettivo di uniformarli agli standard umanitari internazionali e di implementare con il sostegno finanziario e tecnico dell’Ue le politiche di rimpatrio volontario assistito con azioni concrete tese a convincere i Paesi di origine a collaborare a questo sforzo». Secondo Minniti «per questo ci sono già a disposizione 170 milioni dell’Ue da impiegare subito e certamente lo faremo».
La Stampa 29.8.17
Orfini: “Bene il governo sui migranti basta critiche dalla sinistra salottiera”
Il presidente Pd: “Ma servono garanzie per chi non arriva. In Sicilia Mdp come Tafazzi”
di Carlo Bertini
«Io condivido tutte le scelte del governo, ma ci sono alcune cose da registrare: va messo al centro il tema delle garanzie per chi non arriva più in Libia e dalla Libia. E per chi sente l’obbligo di salvare vite umane è normale considerare le Ong alleati e non nemici». Matteo Orfini, presidente del Pd, è convinto che si debba «combattere una battaglia culturale contro il clima razzista che cresce nel paese. Una persona che fugge dalla fame e dalla guerra non è un colpevole», quindi «anche i fatti come quelli di Roma non si devono ripetere». Orfini trova «inquietanti le frasi di chi definisce quelle agghiaccianti scene operazioni di cleaning». Per questo lancia uno strale contro «la doppia insufficienza dell’amministrazione capitolina e della prefettura».
Ma la soddisfa l’azione del governo sul tema più spinoso su cui si giocheranno le prossime elezioni?
«Quanto fatto dal Viminale per ridurre i flussi è positivo, ma bisogna avere delle garanzie, come chiesto dal nostro governo: evitare che i campi di accoglienza in Libia siano campi di concentramento e rafforzare una seria funzione di verifica e di controllo internazionale, affinché chi oggi scappa possa vivere una vita dignitosa. Insomma, bene che arrivino meno migranti, ma non perché muoiano prima di salire sui barconi. Garantiamo standard di rispetto dei diritti umani. E va fatta una battaglia per non cedere al razzismo: spaventa che anche sindaci del Pd usino parole inaccettabili. I problemi vanno gestiti, ma dobbiamo ricordarci che si tratta di persone senza colpa, se non quella di cercare di scappare dalla morte certa».
L’Europa ci darà una mano?
«Cercare di coinvolgere l’Europa nella gestione dei flussi è stato difficilissimo, ma qualche risultato lo stiamo cominciando a ottenere, come dimostra l’esito del vertice di Parigi. Fin qui l’Italia è stata lasciata sola. Il tentativo di coinvolgere la Libia e gli altri paesi africani è importante se si ricorda che chi ha diritto ad essere accolto, deve essere accolto con decoro e dignità. Se a Roma quei rifugiati occupavano un palazzo abusivo era colpa di un sistema di accoglienza che non aveva funzionato al meglio».
Il Pd è bersaglio di strali da sinistra sul tema dei diritti. Rischiate di pagare uno scotto col vostro mondo di riferimento?
«C’è una sinistra salottiera che trova ragione di esistere solo nell’attaccare noi. Siamo l’unica forza politica in Europa che si sta facendo carico di gestire una questione così complessa. Anche noi avremmo commesso errori o possiamo aver trasmesso un atteggiamento sbagliato, ma i fatti parlano a dispetto delle accusa di chi vuole lucrare lo zero virgola in termini elettorali, in modo del tutto speculare a Salvini».
A proposito di elezioni, sul voto per la Sicilia si consuma un altro strappo a sinistra. Un regalo agli avversari?
«Ecco, questo è un atteggiamento esplicito di tafazzismo; è stata proprio la sinistra a chiedere la costruzione di un fronte largo a Palermo, del quale facevano parte anche i moderati. Abbiamo vinto il Comune e siamo andati avanti con la stessa coalizione che volevamo riproporre sul fronte regionale. Ma ciò che andava bene ieri, non va bene oggi. Un altro prodotto del campionario di coerenza di certi compagni...».
Una scelta strategica per distanziarsi da chi occhieggia a Berlusconi?
«No, Mdp è un soggetto politico nato con la sola ragione di tentare di far perdere il Pd. Non di far vincere la sinistra. Volevano fare il nuovo Ulivo e invece rifanno Rifondazione comunista».
Sta dicendo che vogliono far perdere Renzi per indebolirlo alle politiche?
«Mi pare che la strategia sia quella di favorire le nuove destre, 5Stelle compresi. Di fronte a queste scelte del resto festeggiano Grillo e Salvini, non il proletariato».
La legislatura andrebbe chiusa dopo il voto sulla manovra?
«Mi pare un dato oggettivo: dobbiamo chiudere le leggi urgenti e approvare quella di bilancio. Visto che poi nutro poca speranza che si riesca ad omogeneizzare le due leggi elettorali, bisogna valutare se dopo il varo della manovra questo Parlamento sia in grado di fare altre cose buone per il paese».
Repubblica 29.8.17
L’intervista.
L’ex leader dei Disobbedienti ora è segretario regionale di Sinistra italiana: “Con Alfano non si volta davvero pagina”
Casarini rispunta in Sicilia “Il mio amico Pisapia sbaglia”
di Concetto Vecchio
ROMA. «Voglio bene a Giuliano Pisapia. È stato il mio avvocato in molti processi, ma sulla Sicilia non lo capisco. Venga con noi, costruiamo un campo largo, che comprenda la sinistra, la società civile, i cattolici di base. Questa alleanza con Alfano invece è solo un modo per cambiare affinché tutto resti come prima ». Luca Casarini, 50 anni, da maggio segretario di Sinistra italiana sull’isola, appare molto diverso da quando da capo dei Disobbedienti al G8 di Genova arringava i no global col megafono. Il suo nuovo idolo ora è il vescovo di Palermo, Corrado Lorefice.
Cosa l’affascina nel presule?
«Sono andato a sentirlo durante il festino di Santa Rosalia. Sono rimasto stregato dalla sua omelia sui due esodi: quello dei giovani siciliani che vanno via, e quello dei migranti che approdano qui per salvarsi. Il gioco del potere consiste nel contrapporre queste due migrazioni».
È diventato cattolico?
«Li guardo con rispetto. Ma lo sa che la Sicilia è piena di preti di frontiera, come don Enzo Santachiara? Fanno un lavoro straordinario».
Lei è anche amico di Leoluca Orlando.
«Un grande sindaco. Una figura rara».
Ora Orlando ha proposto il rettore Micari, che ieri ha ufficializzato la sua candidatura, su cui convergono Pd e Alfano. Perché non dovrebbe andare bene?
«A me Micari va benissimo, ma non posso sedermi allo stesso tavolo del senatore Castiglione, quello del Cara di Mineo: capofila di un mondo che non vuole una vera rottura».
Orlando non garantisce sulla bontà dell’operazione?
«Ho parlato con lui: non l’ho convinto. Rischia di essere la foglia di fico di un patto di potere nazionale Renzi-Alfano, che non ha nulla a che fare con il futuro della Sicilia».
Voterete Fava?
«Lo stimo. Lo ha proposto Mdp. Ma deciderà la nostra assemblea a Caltanissetta il 3 settembre: tutti gli iscritti avranno diritto di voto».
Ma che senso ha proporre una candidatura che probabilmente si rivelerà minoritaria?
«Le rovescio la domanda: che senso ha fare un’alleanza che non cambierà il sistema di potere? Bisognava dare la palla a Orlando e lui avrebbe fatto da regista per una vera alternativa. La gente ci avrebbe premiato».
Così vincerà la destra?
«Rifiuto il ricatto. Però questa destra mi angustia. Vi includo anche i Cinquestelle, che sono una forma di destra pericolosissima. Anche incompetente. Guardi i disastri della Raggi a Roma».
Perché Pisapia non la pensa come lei?
«Invece del campo largo dell’alternativa, si rischia l’ammucchiata. Ma questo non è il cambiamento. Giuliano, ripensaci!».
Perché è finito in Sicilia?
«Per amore. Da sei anni vivo alla Kalsa a Palermo, ho un’attività di coworking, ho sposato una siciliana, ho due figli di sei e dieci anni. Prima mi sono innamorato di mia moglie, poi dell’isola».
È una realtà difficile.
«È un posto in continuo movimento, qui è ancora tutto da fare. E io ho sempre inseguito il sud del mondo».
Si è appena messo la fascia tricolore per sposare la figlia di Toni Negri a Pantelleria.
«Sono amici carissimi. Mi hanno spiegato che anche un privato cittadino può sposare una coppia. Finora la fascia tricolore l’avevo vista solo ai poliziotti nei tre squilli di tromba che precedono le cariche. Tra un mese non avrei potuto più farlo perché dovrò scontare un residuo di pena».
Cioè?
«Per le mie lotte sociali sono stato condannato a 4 anni di reclusione, il 12 settembre il tribunale di sorveglianza di Venezia deciderà su un residuo di pena di 2 mesi e mezzo per avere occupato delle case, un’azione politica che risale a 13 anni fa: un’altra vita».
Cosa rischia?
«L’affidamento ai servizi sociali. Chiederò di andare su una nave Ong, per salvare i migranti».
Il Fatto 29.8.17
Renzi si sposa Angelino. E Pisapia resta col cerino
Giochi fatti. Pd e Ap candidano Micari per una “coalizione di centrosinistra”, Bersani e compagni invece scelgono Fava. L’ex sindaco ora medita di sfilarsi
di Lorenzo Vendemiale
Fabrizio Micari è l’uomo di Matteo Renzi. E pure di Angelino Alfano. Da ieri l’alleanza in Sicilia tra Pd e Ap, sotto la copertura del civismo del rettore di Palermo, è praticamente cosa fatta: “Sono qui per annunciare la mia disponibilità alla candidatura alla presidenza della Regione, nell’ambito di una coalizione di centrosinistra”, ha detto il professore universitario. In realtà, l’alleanza che lo sosterrà di sinistra rischia di avere ben poco: Articolo 1-Mdp, Sinistra Italiana e Possibile (Pippo Civati) sono pronti a convergere sul vicepresidente della commissione Antimafia, Claudio Fava, per una candidatura autonoma che farà naufragare il progetto del “campo largo”.
In mezzo al mare resterebbero i progressisti di Giuliano Pisapia, che a questo punto tra l’incudine di un Pd alleato con Alfano e il martello di una sinistra minoritaria, potrebbero anche decidere di sfilarsi, abbandonando l’isola senza entrare nella contesa elettorale.
Il nome del rettore di Palermo era in ballo da tempo, da ieri la sua scelta è ufficiale, appoggiata all’unanimità dal Pd (“anche se la scelta definitiva sarà affidata alla direzione regionale in programma nei prossimi giorni”, precisa la nota della segreteria siciliana”): “Il mio ruolo è di candidato civico nell’ambito di un campo largo, con la presenza di tutte le componenti”, ha spiegato Micari.
Fra queste, però, c’è anche Alternativa popolare, e l’annuncio rischia di essere lo strappo decisivo a sinistra: la parola fine arriverà a giorni, quando bersaniani e SI ufficializzeranno a loro volta il sostegno a Claudio Fava, che quattro anni fa fu costretto a rinunciare alla corsa per colpa di un vizio formale nella candidatura e ora ha dato la sua disponibilità a ripresentarsi. “Più che un appello a noi, il rettore Micari dovrebbe fare un appello alla coalizione a fare a meno di Alfano”, il commento del deputato oggi in Art. 1, che ha ribadito l’indisponibilità dei suoi a far parte di un’alleanza col ministro degli Esteri: “La coerenza non è una parola che si spolvera nei giorni festivi e si tiene in fondo ai cassetti nei giorni feriali”.
Formalmente l’appoggio di Ap non c’è ancora, ma gli alfaniani parlano già da parte integrante della coalizione. “Una frangia della sinistra si è sfilata da questa operazione con la scusa di Alfano, ma Alfano non c’entra nulla: vogliono solo far perdere Renzi”, ha detto l’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini.
E questo, oltre ad allontanare definitivamente bersaniani e Sinistra Italiana, ha messo spalle al muro anche Giuliano Pisapia. L’ex sindaco di Milano sognava un “campo largo” e adesso si ritrova di fronte “al peggior scenario possibile”: “Non solo si è spaccata la sinistra, ma si è creato uno schema in cui Alfano ha un peso specifico importante e che potrebbe essere replicato in scala nazionale”, ragionano i suoi.
Quelli di Campo Progressista proveranno fino all’ultimo a ricucire, ma i margini di manovra sono quasi nulli: la mossa della disperazione potrebbe essere chiedere a Pd e Alfano di rinunciare al simbolo, come alle comunali a Palermo. Ma anche questa idea è stata già stoppata dalle parole di Micari: “La squadra è fatta dai partiti, coi loro simboli, che si riconoscono nel progetto”.
Pisapia è ancora in vacanza, quando tornerà dovrà scegliere tra abbandonare il Pd (e Leoluca Orlando, con cui ha stretto un patto di ferro) o mollare i bersaniani, coi quali lavora alla costituzione di un nuovo soggetto politico. Un bel rebus, forse irrisolvibile: non è escluso nemmeno che l’ex sindaco di Milano decida di tirarsi fuori dalla contesa, senza schierarsi con nessuno.
A poco più di due mesi dal voto, gli schieramenti sembrano così quasi delineati. Il M5S il suo uomo ce l’ha da tempo: Giancarlo Cancelleri. Il centrodestra, dopo il ballottaggio tra Nello Musumeci e Gaetano Armao, si sta orientando ad appoggiare il primo (sostenuto da Giorgia Meloni e Matteo Salvini), vista la forte volontà di Silvio Berlusconi di non rompere l’alleanza con Lega e Fratelli d’Italia (“le alchimie non mi interessano”, glissa per ora Armao, che ieri ha presentato il suo manifesto).
Anche dall’altra parte i giochi paiono fatti. Alla candidatura di Micari dovrebbe seguire quella di Fava. A non tener conto dell’altro rettore (Roberto Lagalla, ex assessore di Totò Cuffaro), considerando che in campo c’è sempre il governatore uscente Rosario Crocetta (il Pd non ha ancora abbandonato l’idea di provare a coinvolgerlo in un ticket), e che l’editore Ottavio Navarra (sostenuto da Rifondazione e Pci) non sembra intenzionato a fare un passo indietro, la sinistra rischia di avere più candidati che voti.
Corriere 29.8.17
A Roma scatta l’emergenza siccità «Meno acqua nelle case di notte»
L’annuncio di Acea. A rischio i piani alti. Lorenzin: verificare l’impatto sugli ospedali
«Un fatto senza precedenti È come la caduta dell’Impero ma i barbari sono già tra noi»
di Paolo Conti
Carandini: non riconosco più la città che ho conosciuto
«Mi sembra un’orgia di degrado percepibile in ogni aspetto di Roma. Sono ormai un vecchio romano, a novembre compirò 80 anni ma non ho mai visto la Capitale ridotta così. La mancanza d’acqua la notte mi sembra un atto epocale. A mia memoria, non è mai accaduto nulla di simile».
Professor Andrea Carandini, archeologo, storico della città, come vede, da vecchio romano, le recenti notizie su Roma a partire dall’imminente razionamento dell’acqua?
«La vicenda mi riguarderà personalmente. Io abito in un palazzo sul Quirinale, quindi in alto. Presto dovremo affrontare lavori per realizzare serbatoi in basso con un sistema di pompe che poi dirigeranno l’acqua verso i vecchi contenitori in alto, che sono sempre stati pieni. Una cosa del genere non è mai avvenuta. È pazzesca. Come dice Pindaro, l’acqua è l’elemento principale, il più prezioso per la vita».
Sembra sempre più difficile essere romani, vivere in una Capitale dove, come si dice tra i cittadini nati all’ombra del Campidoglio, ogni giorno ce n’è una…
«Basta girare per il centro storico per constatare un abbandono completo… Per esempio l’invasione dei negozietti che vendono tutto, dai souvenir ai panini. Spesso fotografo per il desiderio di documentare. Proprio il Corriere ha pubblicato alcuni miei scatti. E poi vedo le sterminate file davanti al Colosseo, come non avviene davanti a nessun altro monumento del mondo, segno dell’assenza di una decente politica del turismo. E i bivacchi a Fontana di Trevi, un miracolo architettonico…».
In una battuta, come sintetizzerebbe tutto?
«Un’atmosfera degna della caduta dell’Impero romano. Per molto tempo abbiamo assistito a un lento decadere della città. Ma da pochi anni c’è stato un drammatico salto di qualità verso il basso. Con la caduta dell’Impero romano arrivarono i barbari. Oggi possono anche venire... tanto la maggior parte, quella che contribuisce allo sfacelo, è già tra noi. Vive con noi. Purtroppo vengono immediati i paragoni. Io sono in vacanza a Maiorca, nel piccolo villaggio di Deià. Qui veniva il poeta e romanziere britannico Robert Graves. Pur essendo un centro così piccolo, ogni giorno è presidiato da una segretaria, un infermiere e un medico. E soprattutto, qui a Maiorca l’acqua c’è e non ci sono problemi. La siccità c’è anche qui, come in Italia. Ripeto: i paragoni sono odiosi, ma inevitabili».
Ha mai nostalgia di Roma, in questo periodo di vacanza? Ha voglia di tornare?
«Lo dico con amarezza, perché sono sempre stato fiero di essere romano. Purtroppo rispondo di no, non ho alcuna nostalgia e non ho gran desiderio di rientrare. In questi anni il volto di Roma ha perso continuamente un pezzetto di naso, poi un occhio, un po’ di mento… alla fine mi ritrovo a girare per le strade della mia città e non sono più capace di riconoscerla. È impossibile rintracciare ciò che ho conosciuto da giovane. Mi sembra quasi che la crisi di Roma sintetizzi quella dell’intero Occidente, che sta registrando un tramonto…».
Davvero nessuno spazio alla speranza, alla positività?
«Sono ottimista di natura. Forse, visto che ci siamo quasi, quando a Roma toccheremo definitivamente il fondo, l’unica strada sarà una rinascita».
Un suggerimento alla sindaca Virginia Raggi?
«Dichiarare il proprio fallimento. Ammettere di non avercela fatta, chiedendo scusa ai romani. Inutile andare avanti cincischiando. Inutile e dannoso per Roma».
Repubblica 29.8.17
L’intervista.
Paolo Saccani, al timone di Acea “Siccità mai vista, non so quanto potremo reggere”
“Noi tappiamo le falle nella rete i romani inizino a ridurre i consumi”
ROMA. «Abbiamo il dovere di informare i romani. Nessuna interruzione o riduzione del servizio, ma servono precauzioni. La pressione dell’acqua diminuirà nella fascia notturna soltanto se si continuerà a verificare la concatenazione di variabili a cui stiamo assistendo da mesi: una siccità anormale e la mancanza di precipitazioni ». Paolo Saccani è il presidente di Acea Ato 2, la principale società idrica dell’azienda partecipata dal Campidoglio. La rete di cui è responsabile rifornisce Roma e il litorale, fino a Fiumicino. Ed è ai residenti capitolini che si rivolge: «Molto dipenderà da loro, da come sapranno consumare l’acqua. Dovranno essere buoni padri di famiglia».
Parla agli abitanti di una città che ha già vissuto un incubo a fine luglio, con l’ipotesi razionamenti, e ora rischia altri disservizi. Neanche si trovasse nel deserto del Sahara.
«Dati alla mano, Roma non è il Sahara. Ma la capitale, così come tutta l’Italia centrale, è in chiara difficoltà sotto il profilo climatico. Rispetto a quanto accaduto negli ultimi tre anni, è caduto il 70 per cento in meno di pioggia. Uno stato d’emergenza come questo non si era mai registrato. Il lago di Bracciano, tra caldo e allacci abusivi, perde quota anche in assenza di prelievi, come abbiamo sempre sostenuto».
Dopo un mese di ricorsi e controricorsi, tutto d’un tratto Bracciano non serve più alla capitale?
«Da lì non stiamo più captando nemmeno un litro dal 12 agosto, anche se il tribunale superiore delle Acque pubbliche ha dato il via libera a un prelievo di 400 litri al secondo. Ma ora i problemi sono altri. Non piove da troppo tempo e l’acqua non si fabbrica da sola. Gli acquedotti delle Capore e del Marcio si stanno sempre più assottigliando. Mentre quello del Peschiera ha limiti strutturali. È vecchio di 80 anni e da lì non si possono prelevare più di 9.100 litri al secondo» .
Mettendo i dati da parte, pensiamo ai romani. Ai piani alti, durante la notte, l’acqua potrebbe non arrivare.
«Dalle 23-23.30 alle 5-6 del mattino. Non prima e non oltre. E solo se l’emergenza non conoscerà una fine. Se si tornerà al consueto regime di piovosità, non avremo benefici immediati sulle fonti di approvvigionamento. L’acqua impiega giorni per filtrare in profondità. Ma avremmo comunque benefici: nei periodi più piovosi abbiamo storicamente una diminuzione dei consumi. La pioggia, insomma, incide».
La ministra della Salute Beatrice Lorenzin ha lanciato l’allarme per gli ospedali.
«Abbiamo contattato le strutture più importanti della capitale e stiamo portando a Roma quante più autobotti possibili in caso di emergenza da tutto il resto del Lazio e d’Italia. Non ci dovrebbero essere disservizi».
Nelle case, invece, come si possono evitare problemi?
«La nostra campagna informativa sembra aver fatto presa. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, abbiamo registrato consumi meno importanti. Ora attendiamo il completo rientro dalle vacanze. Dal prossimo lunedì dovremo monitorare con attenzione la situazione. Ma nel fine settimana potrebbe piovere. Sarebbe importante».
Così come la riduzione delle falle nella rete.
«Negli ultimi mesi siamo intervenuti 1.300 volte per tappare le falle di 4.700 chilometri di tubi. Non possiamo fare di più, abbiamo già recuperato tra i 500 e i 600 litri al secondo. Per rendere Roma autosufficiente, abbandonare definitivamente Bracciano ed evitare il rischio di altri disservizi servirebbe il raddoppio del Peschiera. Abbiamo già trasmesso la nostra richiesta al commissario all’emergenza idrica. Sarà interpellata la Protezione Civile e chiederemo alla Regione di favorire le autorizzazioni del caso. Si tratterebbe di un’operazione da mezzo miliardo. A quel punto la capitale sarebbe finalmente in sicurezza».
(l. d’a.)
Repbblica 29.8.17
Il faro dell’Anticorruzione sulla nomina del vertice Atac
ROMA. L‘Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, ha chiesto all’Atac un’informativa sulla nomina di Paolo Simioni come presidente, amministratore delegato e direttore generale dell’azienda di trasporto pubblico di Roma, avviando così un’istruttoria sui possibili profili di incompatibilità del triplo incarico. Atac ha 20 giorni per rispondere. Il 31 luglio, su indicazione della sindaca Virginia Raggi, Simioni ha assunto l’incarico di presidente e amministratore delegato dell’Atac.
L’11 agosto, Simioni è anche diventato direttore generale.
Proprio sulla somma di queste tre cariche sono stati sollevati dubbi, ipotizzando conflitto per incompatibilità e violazione norme sugli incarichi nella pubblica amministrazione.
Corriere 29.8.17
Sciopero dei prof, esami universitari a rischio
I docenti chiedono gli scatti di stipendio degli ultimi cinque anni. Il gelo del ministero: «Un errore»
di Melania Di Giacomo
ROMA «Abbiamo avuto un danno economico, esistenziale e di immagine», sbotta il professor Carlo Ferraro, decano al Politecnico di Torino, che con il «Movimento per la dignità della docenza universitaria» ha ingaggiato la lotta per il riconoscimento degli scatti dello stipendio ai docenti universitari, bloccati dal 2011 al 2015. E «dopo tre anni di battaglie pazienti e pacate non potevamo fare altro che scioperare. Dobbiamo creare disagio sì, ma — precisa — non danni ai nostri studenti». Così fino al 31 ottobre almeno 5.444 professori e ricercatori di 79 Università e enti di ricerca italiani salteranno un appello d’esame. Anche se verrà garantita una data straordinaria nel caso ci sia una sola possibilità nella sessione autunnale.
Gli oltre cinquemila, circa un decimo dei docenti dei ricercatori italiani, sono quelli che hanno firmato a giungo l’appello per indire lo sciopero ma Ferraro dà per scontato che l’adesione sarà più ampia: «Ne avremo certezza nei prossimi giorni, quando i colleghi manderanno al ministro, al rettore e a noi la comunicazione della giornata di sciopero, ma saremo molti di più».
Una protesta clamorosa che non si vedeva da 40 anni nelle università italiane: all’epoca chiedevano una riforma, che poi è arrivata nel 1980; oggi scioperano per vedersi riconoscere lo stesso trattamento degli altri dipendenti pubblici. «Il primo gennaio 2016, dopo cinque anni, ci è stato tolto il blocco dello stipendio — spiega il professore —, ma senza effetti pregressi: è come se per tutta la carriera, pensione e liquidazione compresi, quei cinque anni non ci fossero mai stati. Invece agli altri 3 milioni di dipendenti pubblici è stato riconosciuto il quadriennio pregresso. Perché penalizzarci a vita? Quello che pongo è un problema di dignità. Io sono a fine carriera, non ne risento molto, ma ai più giovani, che con sacrifici e responsabilità enormi a 40 anni sono diventati ricercatori con 1.500 euro netti al mese, si toglie qualche centinaio d’euro per tutta la carriera. Soldi sui quali avevano contato».
Ma ora lo Stato dovrà trovare le risorse per portare gli stipendi in pari. «Se c’è la volontà politica — secondo Ferraro — i soldi si trovano e noi abbiamo fatto anche delle proposte intermedie, riconoscercene almeno una parte. Inoltre gli Atenei hanno già una parte delle risorse in cassa, hanno accumulato un tesoretto».
Sullo sciopero è calato il gelo del Miur, che l’ha già definito «un errore che si scarica sugli studenti», una protesta «impropria e impopolare». Nelle scorse settimana la ministra Valeria Fedeli aveva assicurato di lavorare in prima persona a una soluzione, che sarebbe già stata individuata d’intesa con Palazzo Chigi, con una cifra che viene definita «a disposizione», ma occorrerà aspettare la legge di Bilancio.
All’inizio di agosto Fedeli aveva scritto anche al garante degli scioperi per informarlo sulla possibilità di sbloccare la situazione. La ministra è anche pronta a incontrare l’esecutivo della Crui, la conferenza dei rettori, che aveva già visto il 25 luglio, per affrontare il problema con una rappresentanza qualificata del corpo docente.
La Stampa 29.8.17
Statali, la beffa del nuovo contratto
Arrivano 85 euro, ma se ne perdono 80
di R. Gio.
Si profila un ostacolo imprevisto sulla strada dei (più volte cancellati e attesi da ormai otto anni) rinnovi contrattuali dei pubblici dipendenti. Come noto, il governo ha stanziato nelle leggi di Stabilità risorse sufficienti per concedere aumenti complessivi a regime per 85 euro medi a lavoratore. E in più Matteo Renzi, proprio alla vigilia del disastroso referendum costituzionale, aveva stipulato con i sindacati un accordo che garantiva un aumento «non inferiore a 85 euro medi» scritto nell’accordo del 30 novembre. Solo che il pagamento degli aumenti in busta paga avrebbe una spiacevole e imprevista conseguenza: farebbe scattare per molti dei dipendenti del pubblico impiego - ben 363 mila di loro, quelli che guadagnano tra i 23 mila e i 26 mila euro annui, concentrati soprattutto nella sanità e negli enti locali - la cancellazione automatica del bonus degli 80 euro concesso a suo tempo dal governo. Una bella presa in giro, si direbbe: anzi, una beffa, visto che essendo gli aumenti contrattuali lordi, e il bonus 80 euro netto, alla fine dei rinnovi contrattuali, dopo tanta attesa e tanti scioperi pagati salatamente, 363 mila travet addirittura finirebbero per rimetterci. Per evitare danno e beffa, secondo i calcoli dell’Aran, l’Agenzia contrattuale del governo per il pubblico impiego, che sta svolgendo il negoziato con i sindacati di categoria per il contratto, servirebbero 125 milioni di euro. Ovvero, 3,7 euro a testa.
Della questione - e più in generale dello stato dell’arte della trattativa - hanno parlato appunto ieri i sindacati di categoria di Cgil-Cisl-Uil con l’Aran. Secondo il presidente dell’Agenzia governativa, Sergio Gasparrini, la questione in realtà non è così grave: «Oggi ci siamo concentrati sulle risorse - ha detto - per chiarire in modo abbastanza preciso qual è la dimensione del fenomeno 80 euro, che comunque costituisce una percentuale non particolarmente significativa rispetto al totale delle risorse complessive». Se tutti sono d’accordo sul fatto che c’è un problema per 363 mila pubblici dipendenti, è chiaro che si tratta di trovare una soluzione per restituire a questi lavoratori il bonus perduto.
Sul modo, però non c’è ancora né chiarezza né accordo. E i sindacati ieri hanno chiarito di non essere disponibili a detrarre la restituzione del bonus dallo stanziamento pattuito per l’aumento di stipendio, che dev’essere «non inferiore» a 85 euro medi mensili, come stabilito nell’accordo di novembre. Per Franco Martini della segreteria Cgil al momento le risorse «non consentono di affrontare positivamente il rinnovo». La numero uno della Fp Cgil, Serena Sorrentino, mette in guardia: «Non ci possono essere comparti penalizzati» per via degli 80 euro. Sulla stessa linea la Uil, che con Antonio Foccillo, raccomanda di «non confondere il bonus con l’incremento salariale». Ancora più esplicito Maurizio Petriccioli della Cisl: le risorse vanno stanziate «nella legge di Bilancio».
La faccenda sarà più chiara quando si conoscerà l’ammontare preciso inserito in manovra per i rinnovi. Sono attesi 1,2-1,3 miliardi per la pubblica amministrazione centrale, ma le pressioni per salire non mancano, a partire dalle richieste di aumenti per i professori e per il welfare.
il manifesto 29.8.17
Pubblico impiego, la «beffa» dell’aumento: a rischio gli 80 euro
Contratto. Primo incontro all'Aran dopo la pausa estiva. I sindacati: «Più risorse per evitare perdite in busta». Domani incontro sulle pensioni
L'ex premier Matteo Renzi e la ministra della Pubblica amministrazione, Marianna Madia
di Antonio Sciotto
ROMA Con la chiusura della pausa estiva si riaprono le porte del dialogo con i sindacati, ma per il momento sono arrivate solo brutte notizie: al tavolo sul pubblico impiego, ieri, si è scoperto che sì, il governo è pure disposto (finalmente, sono già passati otto anni dall’ultimo aumento) a rinnovare il contratto del pubblico impiego, ma con il piccolo particolare che si rischia di perdere gli 80 euro del «bonus Renzi».
Superata una certa soglia di reddito annuale, infatti – pari a 26 mila euro lordi – si perde diritto al bonus: si è calcolato che il problema potrebbe porsi per almeno 360 mila dipendenti pubblici. Il paradosso è che questi lavoratori, una volta acquisiti gli 85 euro lordi medi promessi dal governo nel protocollo siglato il 30 novembre scorso (pochi giorni prima del referendum costituzionale), perderebbero subito il diritto agli 80 euro netti. Entrano 85 euro lordi – pari a 60 netti – e escono 80 euro netti: un affarone, la busta paga potrebbe risultare addirittura in perdita.
I sindacati confederali ieri, dopo l’incontro con l’Aran, hanno chiarito subito che il problema va risolto: la Cgil, con il segretario confederale Franco Martini, chiede il «rispetto rigoroso dell’accordo del 30 novembre che ha previsto un incremento per tutti dipendenti pubblici non inferiore a 85 euro medi. Questo obiettivo – sottolinea la Cgil – non può essere intaccato dalla questione degli 80 euro, soprattutto non si può pensare di risolvere il tutto attraverso altre vie come, ad esempio, il welfare contrattuale».
Insomma, servono risorse fresche per coprire il mantenimento degli 80 euro, non bastano alchimie che rimandino al welfare contrattuale (tema sempre attuale nei rinnovi dopo lo spazio dato nell’ultimo accordo dei metalmeccanici). Vale la pena ricordare che quando – ai tempi «d’oro» di Renzi – vennero fuori gli 80 euro, la stessa ministra della Pubblica amministrazione Marianna Madia ipotizzò che il bonus potesse essere in qualche modo sostitutivo del rinnovo contrattuale, allora impossibile perché nel pieno del congelamento iniziato nel 2010 e via via rinnovato fino alla sentenza della Corte costituzionale (del 2015) che ha dichiarato illegittimo quel blocco. Ora che arriva l’aumento, dunque, possiamo cassare il bonus?
Sarebbe una vera beffa. Anche la Cisl, ieri, ha chiesto al tavolo che «la sterilizzazione dell’impatto degli aumenti sulla fruizione del bonus di 80 euro per i lavoratori del pubblico impiego debba essere assicurata con risorse aggiuntive stanziate nella legge di bilancio». Si parla di circa 125 milioni necessari a garantire il bonus.
La Uil, che per fugare tutti i dubbi chiede un incontro con la ministra Madia, afferma che «l’aumento economico deve essere di 85 euro e che il bonus degli 80 euro non può essere confuso con l’incremento salariale. Devono invece essere trovate soluzioni diverse, compresa la defiscalizzazione del salario di produttività».
E se il contratto del pubblico impiego sembra ancora in alto mare, non appare più roseo il panorama della previdenza: domani un nuovo incontro con i sindacati, proprio nei giorni in cui si moltiplicano le proposte sul tema. Il governo pare stia studiando un micro bonus (sui 40 euro) da concedere agli assegni più basse, si continua a lavorare sulla «pensione di garanzia» per i giovani, ma i sindacati chiedono di evitare l’adeguamento al rialzo dell’età di uscita. Punto su cui l’esecutivo fa muro.
Confermata l’idea di tagliare in manovra i contributi per i neo assunti under 29 (o 32), ma Carmelo Barbagallo (Uil) la boccia: «Non bastano misure a tempo, siano strutturali».
Repubblica 29.8.17
Psicoanalisi.
Dante ci aiuta a ritrovare noi stessi. Ne sono convinti gli junghiani. Che portano i pazienti a percorrere un viaggio dentro di loro. Sulle orme del poeta. Uno specialista spiega di Paolo e Francesca, Cunizza da Romano ... E del Paradiso
Nel mezzo del cammin mi trovo sul lettino
Il canto V ci racconta della incapacità di controllare noi stessi I golosi ci parlano dei disturbi alimentari. Gli avidi della compulsività
di Elisa Manacorda
QUANDO RIPASSIAMO mentalmente quei versi che tante volte abbiamo incontrato sui libri di scuola (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”, “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, “Fatti non foste a viver come bruti”...) non stiamo solo facendo un esercizio di memoria. Stiamo, in parte, costruendo noi stessi. Stiamo cercando di dare un senso alla nostra imperfezione di esseri umani, stiamo cercando di contenere in un unico individuo le mille contraddizioni che lo compongono. Leggendo e ricordando la Divina Commedia stiamo, in ultima analisi, facendo pace con quello che siamo. È una straordinaria e affascinante lettura laica della più famosa opera di Dante quella che ne fa la psicologia junghiana. E Claudio Widmann - analista junghiano e membro del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa) - l’ha riproposta nel corso del seminario promosso dalla Scuola di specializzazione in psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva dell’Istituto di ortofonologia (Ido) di Roma. «È una lettura certamente poco istituzionale e classica, che tuttavia può aiutare non soltanto noi analisti, ma gli stessi pazienti, a compiere una sorta di percorso dantesco dentro le nostre vite, per affrontare e risolvere lo smarrimento che a volte ci coglie: momenti di sofferenza, di crisi, di insoddisfazione profonda, di infelicità nei quali non ritroviamo più la “diritta via”», dice Widmann. In questo senso i dannati che animano i gironi infernali, con una interpretazione non letterale dei loro peccati, aiutano a riconoscere le tante debolezze che punteggiano le nostre vite. «Tutti noi siamo stati, in un certo momento della nostra esistenza, avidi, ingordi, violenti», continua Widmann. I golosi ci parlano non soltanto dei disturbi alimentari così diffusi oggi, ma anche, in un senso meno letterale, dell’avidità di affetti, di denari, di oggetti: basta aprire uno dei nostri armadi per capire quanto ci siamo lasciati andare all’ingordigia dell’acquisto. E il celebrato Canto V dedicato ai lussuriosi, nel quale i due amanti chini sul libro sono condannati per l’idea di un bacio clandestino, ci racconta anche della nostra incapacità di controllare gli impulsi. «Non a caso Paolo e Francesca sono trasportati dal vento, trascinati dalle folate, incapaci di fermarsi: e questo – continua l’analista – ci ricorda di tutte quelle volte in cui non abbiamo saputo prendere una decisione autonoma, lasciandoci in balia delle convenienze, delle mode del momento o di un amore sbagliato».
Nella psicologia junghiana, dunque, la Divina Commedia assume le sembianze di un percorso maturativo, di evoluzione dell’individuo. Inizialmente si procede in discesa, nelle viscere della terra, a significare l’introspezione psicologica. Ma è proprio quando ci sentiamo sprofondati nei gironi infernali, avverte Widmann, che sappiamo di poter risalire la china. Possiamo uscire dal regno della sofferenza per entrare in quello della fatica. Salire insomma sulla montagna del Purgatorio, il luogo dove innanzitutto si ristabiliscono le regole: il ritmo del giorno e della notte, che nell’Inferno era cancellato, qui è ben delineato. Anche il tempo riacquista un suo valore, dunque non va sprecato. «Quando, nel Canto II, Dante incontra il suo amico compositore Casella, gli chiede di suonare per lui. Ma Catone li richiama presto all’ordine: non bisogna attardarsi nel percorso di ricostruzione del sé. Le cose vanno fatte bene, fino in fondo, se si vuole imparare a camminare sulle proprie gambe. Come quando i pazienti ci chiedono di interrompere la terapia perché si sentono già meglio, e non capiscono che si tratta di un benessere illusorio», aggiunge Widmann.
Nella psicologia junghiana, continua l’analista, questo percorso maturativo è detto di “individuazione”, perché parla di ciò che fa di noi degli individui a tutto tondo. Così come è tondo – meglio, sferico – il Paradiso. «Regno della complessità, dove ciascuno di noi riesce a tenere insieme le sue parti contrastanti, le sue contraddizioni », sottolinea l’analista. Qui i francescani e i domenicani, avversari in seno alla Chiesa, possono riconoscersi vicendevolmente i pregi. Qui, ancora, uno “spirito amante” come Cunizza da Romano, donna dalla vita amorosa movimentata, con tre mariti morti in circostanze misteriose e numerosi amanti passeggeri, può autoassolversi senza rimpianti (“lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte”), perché, dice Widmann : Tutto quello che ha fatto in vita è andato a comporre la sua esperienza amorosa, e in questo modo ha affinato la sua capacità di amare. Ha, insomma, fatto pace con i suoi difetti e le sue imperfezioni».
Così alla fine del suo percorso di individuazione, nell’ultimo canto, Dante può raccontare la sua visione della trinità, tre cerchi concentrici che si riflettono l’un l’altro. Al centro dei quali emerge una figura umana: il riflesso di se stesso.
Repubblica 29.9.17
E il piombo dei tubi riscrive la storia di Roma
Lo studio. analizzati i terreni vicino ostia. il metallo pesante era usato per realizzare le condutture degli acquedotti
di Elena Dusi
ROMA. L’inquinamento aiuta a ricostruire la storia. Se è vero che le sorti dell’antica Roma sono scritte anche nei suoi acquedotti e che le tubazioni erano spesso realizzate in piombo, la presenza di questo elemento nel terreno diventa un indicatore utile per gli storici: più alto il tasso di contaminazione, maggiore il livello di urbanizzazione e quindi di prosperità. L’idea guida alcuni studiosi inglesi e francesi, che su Pnas pubblicano una ricerca su “La storia urbana di Roma dedotta dall’inquinamento da piombo”.
Gli esperti del Cnrs francese, delle università di Lione, Southampton e Glasgow sono andati a Ostia e hanno effettuato due carotaggi all’altezza di Isola Sacra e del Porto di Traiano. Hanno estratto cioè dal sottosuolo una colonna di terra e roccia alta 12 metri che risale, nella sezione più profonda, al mille a.C. e arriva, nella sezione più superficiale, al Tardo Impero.
Il primo acquedotto (l’Aqua Appia) viene realizzato nel IV secolo a.C. Ma è solo nel II-I secolo a.C. che si iniziano a usare le fistulae, le tubature realizzate spesso in piombo. Alcuni isotopi di questo materiale venivano rilasciati nell’acqua per poi essere depositati dal Tevere a valle, vicino al porto. Alla salute degli antichi romani quel piombo non faceva certo bene. Ma ai chimici-archeologi di oggi fa sapere che nel II-I secolo a.C. l’acqua potabile smette di raggiungere solo le fontane principali della città e si diffonde anche in centinaia di bagni e ville private. L’aumento dell’inquinamento di piombo, e in particolare di quello importato da Germania, Spagna, Inghilterra e Francia (un’altra informazione che si può dedurre dall’analisi dei diversi isotopi) indica un aumento della ricchezza e dell’urbanizzazione di Roma. Almeno fino alla crisi della Repubblica.
La portata della rete idrica romana, e quindi anche la contaminazione del terreno di Ostia, da quel momento si dimezzano fino all’arrivo di Agrippa che, da edile, a partire dal 33 a.C. costruisce nuovi acquedotti e ripara le tubature deteriorate, facendo aumentare di nuovo l’inquinamento.
Intorno all’anno zero la contaminazione raggiunge il massimo. Tre metri cubi di acqua al secondo correvano in quell’epoca nelle tubature della città (la portata del Tevere oggi è di 230 metri cubi al secondo). Poi il piombo inizia a calare. I carotaggi del Porto di Traiano e del Canale Romano, che arrivano a epoche più recenti, registrano le diminuzioni delle importazioni di piombo durante le guerre gotiche e l’incursione dei saraceni.
Repubblica 29.8.17
In Cina è guerra ai ricchi voci di arresto per Mr.Wanda
di Angelo Aquaro
IL CASO/ WANG JANLIN PAGA L’ECCESSO DI ACQUISIZIONI ALL’ESTERO
Purché se ne parli, dice la regola dello show business rubata a Oscar Wilde: peccato che non valga per l’uomo che dello show ha fatto un business. Da quando hanno messo in giro la voce che sia finito in galera, le azioni di Wang Janlin sono crollate dell’11%: nella fattispecie quelle della sua Wanda, la compagnia che possiede mezza Hollywood, i cinema americani Amc, quelli europei Odeon/Uci e il gigante dello sport Infront. Puntuale la smentita: è una calunnia, accuse saltate fuori anche a metà agosto finché «si sono dimostrate infondate quando Mr. Wang è andato a Lanzhou in un viaggio di lavoro». Peccato che l’uomo che con Jack Ma, cioè Mister Alibaba, combatte da anni per il titolo di più ricco di Cina sia stato fermato il 25 agosto all’aeroporto di Tianjin, mezz’ora di treno da Pechino, pronto a involarsi per Londra. Quando dici le coincidenze. Proprio in quelle ore Wanda rinunciava all’acquisto nella capitale inglese di Nine Elms Square: ultima resa di fronte al pressing del governo che ha costretto la società a vendere 77 hotel e il 91% di quei 13 parchi a tema concepiti come la risposta del Dragone a Disneyland. Che succede?
La Cina di Xi Jinping ha mostrato al mondo le magnifiche sorti e progressive grazie ai Quattro Cavalieri delle Acquisizioni: Anbang, Fosun, HNA e Wanda. Wu Xiaohui, il presidente di quell’Anbang che conquistò il Waldorf Astoria, la “casa” a New York dei presidenti, è in galera. Chen Feng, il boss di quell’HNA ha comprato la bibbia del capitalismo Forbes, resiste perché dietro ci sarebbe il potentissimo Wang Qishan, zar anticorruzione. Fosun è stata la prima gemma finita nello scandalo, con il fondatore Guo Guangchang scomparso (leggi: arrestato) prima di rispuntare al suo posto. In questo simpatico contesto è chiaro ciò che sta succedendo. Gli investimenti cinesi all’estero nel 2016 hanno raggiunto la cifra record di 94.2 miliardi di dollari, malgrado la cancellazione di una trentina di deal da 74 miliardi. Lo stop è dovuto tanto ai timori dell’Occidente che alle preoccupazioni dell’Oriente. L’Occidente: non cediamo mica i nostri asset tecnologici e di sicurezza. L’Oriente: non cediamo mica tanto potere a questi arricchiti. In più, a Pechino, c’è il sospetto che i Quattro Cavalieri abbiano agito in modo assai poco cavalleresco: approfittando delle acquisizioni per portare denaro fuori dall’Impero, facendo crollare le riserve di valuta estera e il valore dello yuan. Insomma altro che purché se parli: qui se ne parla solo quando lo dico io. «I cigni », ha detto X Jinping a Davos, «possono volare lontano perché si muovono in stormo». E tu, Wang Jianlin, volevi involarti per Londra da solo?