internazionale 22.9.2017
Scienza
Anatomia del terrore
Per aiutare i governi a sconfiggere la minaccia
jihadista, sociologi, psicologi e politologi studiano
le motivazioni che spingono le persone a unirsi
ai gruppi terroristici
di Peter Byrne, New Scientist, Regno Unito
Vera Mironova viaggia a bordo di un Humvee per le strade devastate di Mosul. È la fine di gennaio del 2017. Il primo ministro iracheno Haider al Abadi ha appena annunciato la liberazione della parte est della città, che per tre anni è rimasta sotto il controllo del gruppo Stato islamico (Is). La maggior parte dei combattenti jihadisti sono morti, sono stati catturati o hanno attraversato il fiume Tigri. Gli unici rimasti sono cecchini e attentatori suicidi in attesa che arrivi il loro momento. Quasi tutti gli abitanti della città sono fuggiti nei campi profughi. Chi è rimasto appare perso e sconvolto. Si vedono poche donne in giro. Mironova indossa pantaloni militari, una felpa di Harvard e un berretto di lana blu da cui escono alcune ciocche bionde. Anche se viaggia a bordo di un mezzo blindato, è evidente che non fa parte delle forze armate. È una sociologa: non è a Mosul per combattere, ma per ascoltare, imparare e documentare. Pranziamo insieme al My fair lady, un ristorante sgangherato dove, secondo gli uomini delle forze speciali irachene, si mangia la migliore pacha della città, una zuppa a base di cervella e intestini di pecora ripieni di riso, servito con fette di lingua e arance bollite. Mironova ordina una pizza. Una settimana dopo il nostro incontro un attentatore suicida si fa saltare in aria all’ingresso del locale, uccidendo il proprietario e alcuni clienti. “Gli Stati Uniti non hanno una strategia antiterrorismo efficace”, afferma Martha Crenshaw. Di fronte agli attacchi terroristici di matrice jihadista, l’occidente sembra non sapere cosa fare. Crenshaw studia da cinquant’anni le radici del terrore. Ha un ufficio all’università di Stanford, negli Stati Uniti, non lontano da quello occupato da Condoleezza Rice, l’ex consigliera per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti che è stata tra gli architetti della “guerra globale al terrorismo” dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. “Nel sistema dell’antiterrorismo vengono investite grandi quantità di denaro ma non c’è nessuno a guidarlo”, afferma Crenshaw. “Non sappiamo nemmeno che risultati potremmo ottenere. Stiamo giocando una pericolosa partita di ‘acchiappa la talpa’: quando i terroristi fanno capolino, noi cerchiamo di colpirli, sperando che alla fine si arrendano”. Nel luglio del 2017 Al Abadi è di nuovo a Mosul per annunciare la liberazione definitiva della seconda città dell’Iraq. La riconquista ha avuto un costo altissimo: la città è un cumulo di macerie, decine di migliaia di persone sono morte o rimaste ferite. Quasi un milione di abitanti hanno lasciato le loro case. Non sono stati gli unici ad aver pagato un prezzo così alto. Nel mese di giugno del 2017 duecentosei civili sono rimasti uccisi negli attacchi condotti o ispirati dall’Is in Iraq, Afghanistan, Siria, Egitto, Iran, Australia, Pakistan e nel Regno Unito (il 17 agosto 18 persone sono morte negli attentati a Barcellona e Cambrils, in Spagna). Quali sono le ragioni degli attentatori? Fanatismo religioso? Odio infondato? Ideologie distorte? Per vincere la guerra al terrore bisogna sapere di preciso contro cosa e chi si combatte. Dopo il pranzo con Mironova, accompagniamo i commando iracheni impegnati a perquisire le case usate dai miliziani dell’Is. Alcune stanze sono state oscurate e dotate di sbarre di acciaio perché servivano da prigioni per le schiave sessuali e i kair (quelli che non credono in Dio), i musulmani in conflitto con l’Is. I soldati trovano foto, lasciapassare e appunti con nomi e numeri di telefono. Mironova raccoglie opuscoli religiosi scritti in arabo e in russo. Molti combattenti stranieri dell’Is in Iraq e in Siria sono ceceni e tagichi. Qualcuno mostra a Mironova un diario scritto in russo. Lei legge ad alta voce, traducendo una lettera scritta da una donna al suo amante jihadista: “Siamo fatti l’uno per l’altra, il nostro matrimonio è suggellato in paradiso, staremo insieme in questa vita e nell’aldilà, a Dio piacendo. Quando partivi, contavo i giorni prima del tuo ritorno, mio amato. Ora vai di nuovo in guerra. Potresti non tornare più. Conterò i giorni fino a quando non ci incontreremo di nuovo, mio amato Zachary”. Sotto la lettera la donna aveva scritto la ricetta di una torta al miele. Anche i jihadisti sognano i piaceri del cibo. Tratto della personalità Negli anni ottanta Marc Sageman lavorava per la Cia e gestiva gruppi di resistenza contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Oggi è uno psichiatra forense specializzato in criminalità e terrorismo. Nel libro Understanding terror networks (University of Pennsylvania Press 2004), Sageman prende in esame le motivazioni di 172 terroristi jihadisti risultate dalle carte processuali. Le sue conclusioni concordano con quanto è emerso da decenni di interviste condotte in carcere e da ricerche di psicologi, che dimostrano come il terrorismo non possa essere ridotto solo alle motivazioni ideologiche o religiose né a disturbi della personalità. “Il terrorismo non è un tratto della personalità”, osserva Sageman. “Non esiste qualcosa che possiamo chiamare ‘terrorista’, indipendente dalla persona che compie l’azione terroristica”. Questo è un problema per chi cerca di tracciare un profilo, identificare e neutralizzare gli individui che rischiano di diventare terroristi, come nei programmi antiradicalizzazione simili alla strategia Prevent (prevenire) adottata nel Regno Unito. Le società democratiche non possono tenere d’occhio tutti, e spesso le persone che si vorrebbero fermare non danno segni evidenti della loro esistenza.
Normali e banali
In un importante saggio del 1981 intitolato The causes of terrorism (le cause del terrorismo) Crenshaw riassume decenni di studi sui terroristi e sulle loro organizzazioni, dagli anarchici russi dell’ottocento ai nazionalisti irlandesi, israeliani, baschi e algerini. L’unica cosa che avevano in comune tutti i terroristi, sostiene Crenshaw, è la normalità.
Nel libro La banalità del male.
Eichmann a Gerusalemme Hannah Arendt aveva scritto lo stesso di Adolf Eichmann, definendolo un “banale” burocrate nazista dei campi di concentramento. Le persone che compiono atti terroristici di solito sono all’interno di una rete di legami familiari e amicali, ed esprimono lealtà a un gruppo chiuso, tribale, culturale, nazionale, religioso o politico. Da un punto di vista storico, le condizioni che rendono possibile l’uccisione di innocenti attraverso atti di terrorismo o genocidio si sono verificate quando un gruppo ha temuto di poter essere portato all’estinzione da un altro. Le persone comuni vengono spinte a “uccidere altri individui in base alla loro appartenenza a una categoria” facendo leva sull’identità di gruppo. Dall’interno del gruppo questo sembra perfettamente razionale: i terroristi si considerano persone altruiste e coraggiose che proteggono il gruppo dal male inflitto da estranei potenti. Gli atti di terrorismo sono avvertimenti al gruppo esterno, lanciati per chiedere che siano intraprese delle azioni, come la fine di un’occupazione militare o delle violazioni dei diritti umani e civili. Il terrorismo è una strategia di pubbliche relazioni militarizzata per favorire il raggiungimento di un obiettivo superiore: da questo punto di vista è una tattica politica, non una professione né un’ideologia onnicomprensiva. Tuttavia la maggioranza delle persone che possono condividere lo stesso malcontento o gli stessi obiettivi politici non sente la spinta di uccidere e ferire degli innocenti. Il criminologo Andrew Silke della University of East London ha intervistato molti jihadisti in carcere. “Quando gli chiedo perché si sono fatti coinvolgere, la prima risposta è ideologica”, osserva. “Quando però parliamo di come è successo, mi raccontano di divisioni familiari, episodi accaduti a scuola e nella loro vita privata, discriminazioni sul posto di lavoro, o del desiderio di vendicare la morte di altri musulmani”. Eppure, precisa Silke, questo punto non viene preso in considerazione dalle agenzie che si occupano di antiterrorismo. “Al governo non piace sentirsi dire che un individuo è diventato jihadista perché i suoi fratelli sono stati picchiati dalla polizia o perché un raid aereo ha colpito un gruppo di civili a Mosul. L’idea più diffusa è che se ci concentriamo sulla sconfitta dell’ideologia estremista islamica, possiamo lasciar perdere tutti i discorsi complessi e disordinati legati ai comportamenti individuali”. Vera Mironova ha studiato matematica, teoria dei giochi ed economia comportamentale. Ricercatrice della Harvard kennedy school, è una delle poche studiose a essere andata sul campo in una zona di conflitto per esaminare le radici del terrorismo jihadista. Negli ultimi cinque anni, durante alcuni soggiorni in Siria, Iraq e Yemen, Mironova ha costruito rapporti di fiducia all’interno di un ampio spettro politicamente variegato di ribelli, tra cui jihadisti “radicali” e “moderati”, miliziani e disertori dell’Is. Osservando le cose dal punto di vista di chi combatte, Mironova vuole elaborare un modello delle loro motivazioni individuali e di come queste influenzino i comportamenti del gruppo e viceversa. Legge l’arabo ma sul campo usa interpreti. Intervista combattenti e civili negli ospedali, nei campi profughi e al fronte, di persona, al telefono o su Skype. L’Iraq è un paese a maggioranza sciita, ma Mosul è a maggioranza sunnita; l’Is pratica una forma apocalittica della fede sunnita in una regione devastata dalla crisi sociale ed economica. Molti civili nelle aree che erano sotto il controllo dell’Is collaboravano più o meno volontariamente con i jihadisti. Alcuni accoglievano i combattenti nelle loro case. Altri lavoravano nelle fabbriche dell’Is, costruendo missili artigianali, sbarre per le prigioni e piastre corazzate per i carri armati. Alcuni scappavano nei campi profughi. Altre sposavano un combattente. Altri ancora entravano nelle cellule dormienti. In The causes of terrorism, Crenshaw scrive che spesso i primi a unirsi ai gruppi terroristici sono i figli delle élite, che vorrebbero ispirare le masse affinché queste approvino un cambiamento radicale dell’ordine sociale. Molte organizzazioni jihadiste sono guidate da intellettuali di classe medio-alta, che spesso sono ingegneri. Il leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri è un medico; si dice che Abu Bakr al Baghdadi abbia conseguito un dottorato in studi islamici. Il lavoro di Mironova e di altri dimostra che invece i ranghi locali dell’Is sono formati da persone d’origine più modesta, gente senza privilegi che fatica a mantenere la famiglia in un contesto di guerra. I combattenti stranieri tendono a essere più influenzati dall’ideologia e più motivati da fattori che vanno oltre l’identità di gruppo per compiere l’estremo sacrificio. Alcuni militanti desiderano vendicare amici e parenti morti in attacchi con i droni statunitensi, per mano delle milizie sciite, della polizia irachena o durante operazioni delle forze speciali britanniche o statunitensi. Tuttavia, come suggerito dalla presenza delle schiave sessuali e dalle bottiglie di scotch, i combattenti non pensano solo alle ricompense in paradiso, né all’odio o alla vendetta. Non tutti vogliono morire. Le brigate jihadiste in Iraq rubavano petrolio e veicoli, e li portavano in Siria dove la domanda era altissima, per massimizzare i loro profitti. Spesso distribuivano alla comunità i proventi dei saccheggi e delle altre attività economiche. Molti militanti sono reclutati con l’offerta di salari competitivi, assistenza sanitaria e altri benefici corrisposti alle loro famiglie in caso di morte in battaglia. Mironova ha incontrato un gruppo di donne irachene che avevano incoraggiato mariti e figli a unirsi all’Is per avere una casa migliore. Alcuni avevano semplicemente bisogno di lavorare. Tra Iraq e Siria ci sono più di un migliaio di milizie islamiche radicali, moderate o senza base confessionale, in cerca di reclute. Secondo i modelli elaborati da Mironova, il loro comportamento è determinato dalla scarsità di risorse, e prosperano e muoiono proprio come fanno le imprese capitalistiche. I gruppi armati si contendono i combattenti migliori. Quelli con meno risorse a disposizione scelgono una linea religiosa radicale per attirare fanatici dall’estero, che non sono combattenti professionali come quelli che lo fanno per denaro, ma sono disposti a lavorare in cambio di vitto e alloggio. Modelli di questo tipo fanno capire che alle radici del jihadismo violento, dietro la patina del fervore religioso, spesso ci sono motivazioni più banali e utilitaristiche. Valutazioni strategiche “Quando i politici demonizzano l’Is dipingendolo come il male assoluto, i nostri ormoni inondano il cervello di segnali di pericolo”, afferma Hriar Cabayan. “Ci scordiamo di pensare in modo scientifico. Dobbiamo entrare nelle teste dei combattenti dell’Is e guardare a noi stessi con i loro occhi”. Cabayan gestisce il programma Strategic multilayer assessment (Sma, valutazione strategica multilivello) del Pentagono. La sua unità di antiterrorismo si avvale delle competenze di un gruppo volontario di trecento scienziati provenienti dall’università, dall’industria, dalle agenzie d’intelligence e dalle accademie militari. S’incontrano virtualmente e fisicamente per rispondere a quesiti, classificati o non classificati, posti da soldati, compresi i membri delle forze speciali che combattono l’Is in Siria e Iraq. Il risultato è un grande numero di rapporti ufficiali che in larga misura convergono sul fatto che la strategia dell’antiterrorismo statunitense, basata sull’eliminazione dei leader e sul bombardamento delle roccaforti terroriste, è controproducente. È difficile trovare informazioni affidabili sugli attacchi terroristici e sull’efficacia delle azioni per contrastarle. Il database globale sul terrorismo di Start, un consorzio statunitense presso l’università del Maryland, raccoglie i dettagli degli episodi di terrorismo riportati dai mezzi d’informazione in lingua inglese. Non registra le azioni dell’antiterrorismo. Da un’analisi dei dati basata sugli eventi provenienti dalle fonti giornalistiche di Start è possibile ricavare dei modelli statistici: si può per esempio stabilire quanto frequenti siano gli attacchi di un determinato gruppo, il numero di morti che provocano, il tipo di bersaglio e il tipo di armi usate. Il database per la mappatura delle organizzazioni militanti, presso l’Università di Stanford, comprende dati rilevanti sugli ambienti politici che alimentano il terrorismo, ma anche questo strumento si basa su notizie riportate dai mezzi d’informazione in inglese e da alcune riviste accademiche selezionate. Nessuno dei due database tiene conto degli atti di terrorismo commessi dagli stati. Dal punto di vista delle definizioni, i confini tra insurrezione, terrorismo e repressione di stato sono vaghi. Azioni militanti dirette contro soldati possono essere considerate terrorismo, mentre azioni letali della polizia o attacchi lanciati da un governo contro i civili sono considerati atti di guerra, o danni collaterali, e dunque ignorati. Anche i dati secretati sono poco esaurienti: circa l’80 per cento delle informazioni top secret deriva da fonti aperte, tra cui le notizie dei mezzi d’informazione. I dati grezzi che contraddicono la politica o mettono in cattiva luce l’operato dell’esercito sono minimizzati o ignorati dagli ufficiali sul campo. E poi c’è la censura: una recente inchiesta del Military Times ha rilevato come dopo l’11 settembre il Pentagono non abbia reso pubblico circa un terzo dei suoi attacchi aerei in Iraq, Siria e Afghanistan, sorvolando su circa seimila operazioni del genere dal 2014. Facendo affidamento su fonti così imperfette è difficile far emergere le vere motivazioni e le ragioni profonde degli attentati. “Il problema è che di solito i mezzi d’informazione descrivono i carnefici in modo sbagliato, che viene corretto solo durante i processi”, afferma Sageman. I documenti dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) lasciati trapelare da Edward Snowden svelano come l’Nsa abbia difficoltà a reclutare analisti di intelligence che parlino arabo o pashtun. Le agenzie di intelligence militare si concentrano più sulla localizzazione e l’uccisione dei sospettati di terrorismo che sulla comprensione delle motivazioni sociologiche. Cabayan apprezza Mironova per il coraggio che dimostra nelle sue ricerche e nella raccolta di dati sul campo. Alla conferenza di marzo dell’Sma ci si è chiesti se la sconfitta fisica dell’Is a Mosul avrebbe eliminato anche la minaccia che rappresenta. Sessanta scienziati, tra cui Mironova, hanno esaminato il problema da diversi punti di vista. La loro risposta inequivocabile è stata no. Non esiste una soluzione facile al problema del terrorismo, afferma Cabayan, perché né i terroristi né gli agenti dell’antiterrorismo operano in modo del tutto razionale. “Le parole ‘razionale’ e ‘irrazionale’ non hanno senso”, dice. “Le persone si comportano in modo emotivo, illogico. Le società umane sono complessi sistemi adattativi dalle caratteristiche imprevedibili”. Una traiettoria lessibile Molti filoni di prove suggeriscono che i sistemi di terrorismo e antiterrorismo sono in realtà un unico sistema governato da cicli di retroazione: le tattiche messe in campo da una parte sono in continua evoluzione in relazione a quelle degli avversari. Da questo punto di vista, la traiettoria dell’Is può essere calcolata solo retrospettivamente, in reazione agli eventi. È una traiettoria flessibile. Dai modelli statistici costruiti su ciò che si sa della frequenza e del numero di vittime di episodi che hanno coinvolto ribelli e terroristi in Siria e Iraq, i jihadisti appaiono come tanti David e gli eserciti convenzionali come pesanti Golia. I gruppi estremisti possono frammentarsi e fondersi con relativa facilità: sono “antifragili”, cioè si rafforzano se attaccati. Non sono legati a leader carismatici, sono piuttosto delle reti autorganizzate che possono operare indipendentemente e dispongono di una fonte di nuove reclute. La natura complessa e in continua evoluzione di questi gruppi suggerisce che la strategia statunitense di aumentare il numero di soldati dispiegati in Iraq, Siria e Afghanistan non servirà contro il jihadismo. Questa conclusione è confermata dagli studi sugli effetti dell’invio di nuove truppe in Iraq nel 2007 e in Afghanistan nel 2012. In entrambi i casi, l’effetto sembra essere stato l’aumento degli episodi di terrorismo. “I sistemi complessi reali non si presentano come strutture statiche da far crollare; sono flessibili, sono ragnatele che si riformano”, si legge in uno studio del 2013 dell’Sma. Anche gli attacchi con i droni lanciati per uccidere i leader delle cellule terroristiche sono destinati a fallire. Uno studio del 2017 condotto da Jennifer Varriale Carson, della University of Central Missouri, ha messo in luce che l’uccisione di jihadisti di alto profilo è “controproducente se il suo obiettivo è far calare gli atti di terrorismo compiuti dal movimento jihadista globale”. Nel luglio del 2016 la Georgetown Public Policy Review scriveva che c’era stato un “aumento statisticamente significativo del numero di atti di terrorismo [in Pakistan] avvenuti dopo che il programma statunitense degli attacchi con i droni aveva cominciato a colpire una determinata provincia”. Secondo Craig Whiteside della Naval postgraduate school di Monterey, in California, gli attacchi con i droni hanno conseguenze indesiderate. “L’uccisione di un leader carismatico può aumentarne il fascino postumo, o creare una frammentazione della gerarchia che permette l’ascesa di fazioni estremiste in precedenza represse”. Nel suo libro più recente, Countering terrorism (Brookings Institution Press 2017) Crenshaw scrive: “L’impegno militare occidentale ha rafforzato la convinzione jihadista che i musulmani siano sotto attacco ovunque. Potrebbe aver spinto l’Is a ispirare invece che a compiere direttamente atti di terrorismo. L’azione militare inoltre non ha impedito alle organizzazioni jihadiste di formare nuovi gruppi, rigenerarsi ed espandersi”. La natura in continua evoluzione del messaggio fa sì che sia dificile contrastarlo. Grazie ai social network la propaganda arriva rapidamente ai simpatizzanti marginalizzati dall’occidente. Gli analisti di dati nella Naval postgraduate school di Monterey hanno studiato i feed di Twitter localizzati nelle roccaforti dell’Is prima e dopo l’inizio dei raid degli Stati Uniti alla fine del 2014. Prima della campagna di bombardamenti gli utenti di Twitter concentravano la loro rabbia sui nemici locali: sindaci, imam, poliziotti e soldati. Quando hanno cominciato a cadere le bombe, i messaggi su Twitter sono diventati internazionali e invocavano la distruzione dei governi e dei civili occidentali. Nei tre anni successivi, i combattenti dell’Is o i lupi solitari che si sono ispirati all’Is hanno colpito persone innocenti a Bruxelles, Parigi, Orlando, San Bernardino, Nizza, Manchester, Londra e Barcellona. I cambiamenti nell’umore generale espressi sui social network riflettono i cambiamenti nelle politiche di base dell’insurrezione, e in particolare la volontà di esportare il terrorismo all’estero. Come ha dichiarato la sorella, Salman Abedi, l’autore dell’attentato del 22 maggio 2017 a Manchester, nel Regno Unito, “aveva visto gli esplosivi che l’America lanciava sui bambini in Siria e aveva voluto vendicarsi”. Raramente l’intervento militare sconfigge i gruppi terroristici: di solito raggiungono una soluzione politica o si dissolvono perché le rivendicazioni vengono risolte. Oppure si disperdono o fanno allontanare i loro sostenitori con gli eccessi di brutalità. Al contrario, i bombardamenti statunitensi di civili a Falluja e a Mosul in Iraq, e a Raqqa in Siria, e le atrocità commesse dai soldati iracheni contro le persone sospettate di far parte dell’Is e i loro familiari rischiano di creare un nuovo ciclo di rivendicazioni tra i sunniti. Come l’acqua Secondo uno studio finanziato dal Pentagono sui sondaggi d’opinione condotti nel 2015 e nel 2016, la “grande maggioranza” dei musulmani in Iraq e Siria non sostiene l’Is. Chi lo fa, però, cita molto meno la religione e l’ideologia rispetto alle rivendicazioni sociali, economiche e politiche. A Mosul, secondo lo studio, il 46 per cento della popolazione riteneva che i bombardamenti aerei della coalizione rappresentassero la minaccia più grave per le loro famiglie, mentre il 38 per cento giudicava l’Is come la minaccia più grave. Le infrastrutture economiche e sociali in Iraq continuano a deteriorarsi, la guerra globale al terrore che fino a oggi è costata quattromila miliardi di dollari continuerà, e molti altri civili moriranno in attacchi jihadisti nei paesi coinvolti e in occidente. “I sunniti iracheni provano un rancore sincero”, afferma Cabayan. “Sono stati lasciati fuori dal governo dominato dagli sciiti che abbiamo istituito; sono sotto attacco, nessuno li protegge. Possiamo e dovremmo fornire vie d’uscita ai combattenti dell’Is sconfitti, dargli la sicurezza, un lavoro, i diritti civili. Se non lo faremo, ci troveremo a dover affrontare l’Is 2.0”. Anche la strategia dei terroristi può essere controproducente. Spesso la presenza di civili tra le vittime degli attentati mette alla prova la capacità della popolazione attaccata di percepire come legittime le rivendicazioni del gruppo terroristico, e rafforza il desiderio dei politici di reagire con un attacco militare. Il capitano in pensione della marina militare statunitense Wayne Porter è stato a capo dell’intelligence della marina per il Medio Oriente dal 2008 al 2011. È convinto che per risolvere il problema del terrorismo si debba combatterlo alle radici. “L’unica minaccia esistenziale, reale o immaginata, posta dagli attentati terroristici è quella di spingerci a perseguire la stessa strategia controproducente, che è anarchica e dipende dalla disponibilità di finanziamenti”, afferma Porter. “La strategia antiterrorismo statunitense, che non è una strategia, distruggerà i nostri valori democratici”. Quando l’Is è stato cacciato anche dalla zona ovest di Mosul nel mese di luglio, Mironova è tornata sul campo di battaglia per raccogliere altri dati sul destino delle famiglie accusate di aver collaborato con i jihadisti. La punizione extragiudiziale dei sunniti compiuta dagli sciiti e dai curdi sta causando paura e risentimento, e sta alimentando l’Is, che non è stato completamente sconfitto. “L’Is è come la molecola H2O. Può presentarsi in diversi stati: ghiaccio, acqua e vapore”, sostiene Mironova. “A Mosul era ghiaccio. Ora è acqua, scorre nelle campagne, conquista villaggi. Può evaporare, e un giorno tornare in vita e riprendere la lotta”.
l’autore Peter Byrne è un giornalista investigativo che vive negli Stati Uniti. Sta scrivendo il libro The science of Isis, che uscirà nel 2018.
Da sapere
Devoti alla causa
Cosa spinge una persona a morire in nome di una causa? Per l’antropologo Scott Atran, consulente sul terrorismo dei governi di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, la risposta è duplice. Secondo le sue ricerche, i jihadisti fondono la loro identità individuale con quella del gruppo e aderiscono a “valori sacri”, convinzioni che non possono essere abbandonate o scambiate con una ricompensa materiale. Questi valori tendono a suscitare emozioni forti e spesso sono di natura religiosa, anche se pure le convinzioni dei nazionalisti e dei laicisti più ferventi possono essere etichettate come “valori sacri”. Atran ha scoperto che il gruppo attribuisce una grande forza spirituale, che va oltre quella fisica, ai combattenti animati da valori sacri. Questi valori inoltre sono più potenti di un’altra caratteristica, che è la forte identità di gruppo. A seconda delle necessità, i combattenti sono pronti ad abbandonare i loro compagni in nome di questi ideali. Secondo l’antropologo, i politici sbagliano a considerare i terroristi come dei pazzi nichilisti che hanno subìto il lavaggio del cervello. I combattenti jihadisti non vanno visti come attori razionali, ma come attori “devoti”. “Con gli attori devoti non funziona nessuna delle classiche forme di condizionamento”, spiega Atran. Se da un lato i “valori sacri” non possono essere abbandonati, possono comunque essere reinterpretati. E quando le interpretazioni alternative arrivano dall’interno del gruppo possono essere molto persuasive. New Scientist, Science