Il Sole Domenica 3.9.17
Gaetano Salvemini (1873 – 1957)
Un classico contro le «filofesserie»
di Gaetano Pecora
Cos’è
un «classico»? Un classico – ha spiegato Norberto Bobbio – è un autore
«sempre attuale, onde ogni età, addirittura ogni generazione, sente il
bisogno di rileggerlo». Queste parole tornano alla mente ora che siamo
profondati in un cafarnao di confusioni da cui, forse, la lezione di
Gaetano Salvemini, pur a sessant’anni dalla morte, può ancora tirarci
fuori. Non per caso, Bertrand Russell una volta disse di lui: «Quando
parlano gli italiani colti mi capita spesso di non capire. Salvemini non
deve essere colto, perché quello che dice lo capisco, e quello che
pensa lo penserei anch’io». È una considerazione molto bella perché,
veramente, pochissimi altri furono convinti che «chiarezza
nell’espressione è probità nel pensiero e nell’azione». E però nella
scrittura viva di Salvemini c’è qualcosa di più. C’è che la solida
quadratura della parola gli veniva per la diritta via del suo credo
democratico. «Io – confidò in uno scritto – mi mettevo dal punto di
vista di un operaio, magari di un contadino analfabeta, convinto che
essi avevano il diritto di capire, se volevamo essere democratici per
davvero e non sacerdoti di riti arcani».
Il suo stesso socialismo
non si fregiò mai del blasone di un qualche sistema filosofico compiuto,
perfezionato (e doviziosamente astruso). Era invece il socialismo che
si prodigava per un «po’ di bene per tutti», che denunciava il sopruso e
avversava i privilegi, tutti i privilegi, anche quelli che gli operai
del Nord difendevano pervicacemente a danno dei cafoni del Sud. «Il mio –
puntualizzò – era il socialismo degli ultimi, non dei penultimi». Il
suo ansito di giustizia, dunque, muoveva da un’esigenza schiettamente
morale, e mai Salvemini tollerò che questa limpida sorgente di umanità
venisse inquinata dal diluvio delle «filosofesserie» con le quali i
socialisti erano usi infarcire i loro programmi politici.
«Ormai –
annotò nel suo diario – credo solo nel Critone e nel Discorso della
Montagna. Questo è il mio socialismo». Vero è che negli ultimi tempi
Salvemini arrotondò le punte delle sue censure coi vecchi compagni di
partito e al momento del riepilogo, così volle riassumersi: «Sono un
socialista democratico all’antica... Questo vuol dire che non sono
comunista per le stesse ragioni per cui non fui mai fascista, e non sono
mai stato né sono oggi, né sarò mai clericale». Sono parole del 1954,
quando già da qualche tempo era ospite a Sorrento di donna Titina
Ruffini che lo volle con sé nella villa «La Rufola».
Quando la
strada della sua vita andava ormai declinando, Sorrento – nelle
intenzioni di Salvemini - avrebbe dovuto essere un’oasi di pace dove
raccogliere le forze superstiti per perfezionare quelle opere in cui,
tanto tempo prima, il talento dello storico aveva profuso i tesori più
preziosi della sua intelligenza. Solo che Salvemini non era uomo da
restarsene segregato negli studi; la scintilla della passione divampò
ancora una volta. Ed eccolo allora, precisamente come nel 1913,
«buttarsi allo sbaraglio, anche senza speranza alcuna». Non vi fu
birbonata che sfuggisse alle sue requisitorie; non evento di costume che
mancasse di segnalare su «Il Ponte» di Calamandrei e «Il Mondo» di
Pannunzio.
Ne venne fuori qualcosa di più che un libro di storia.
Fu una lezione morale dove troviamo tutte le ragioni, espresse come solo
lui sapeva esprimerle, con sfavillio di arguzie e la felicità dello
sberleffo, tutte le ragioni troviamo che militano a favore dello Stato
liberale contro la clerocrazia nera e il totalitarismo rosso. Ma
soprattutto risaliamo alla tempera da cui escono riscaldate le virtù di
un pensiero autenticamente democratico. E che per Salvemini si
riassumevano tutte nel rispetto per l’umanità dei propri simili; una
umanità non più fatta da «pecore cieche … bisognose di cani mastini e
pastori infallibili», ma vivificata da uomini diritti che ricusano di
consegnare a terzi l’esito dei loro giorni.
Certo: le moltitudini
sono sono quelle che sono, balorde e squilibrate; non per questo però il
democratico sincero eleva ad ideale l’arte di governo che sfrutta la
brutalità umana anziché sviluppare più che sia possibile le forze
dell’intelligenza e della moralità. «Noi – spiegava Salvemini - pur
sapendo quanta parte di pecora, e di cane, e di lupo, e di suino, c’è
nell’uomo riteniamo che l’uomo sia capace di diventare meno brutto,
grazie alla educazione di quella intelligenza che lo distingue dal
bruto. E il solo metodo disponibile per educare quella intelligenza è la
discussione».
Già: la discussione. Su tutto, e con tutti. Purché
condotta con la certezza che anche nella melma delle idee più confuse,
anche lì, si può sempre setacciare una pagliuzza d’oro. Precisamente
come avveniva a Sorrento. E fu per questo, che ai vecchi nuovi amici si
aggiunsero, anche i più diversi e lontani dai suoi convincimenti. Non
ultimo don Rosario Scarpari, il buon prete che quasi ogni giorno era lì,
a casa di donna Titina e col quale Salvemini, già sfibrato e prossimo
alla morte, intrattenne un dialogo le cui battute finali prendono colore
di attualità per molti dibattiti dei giorni nostri. «Ma perché – chiese
Salvemini - la gente ha tanto paura della morte che costringe ad
aspettare chi vorrebbe morire?» Don Rosario rispose: «Per la semplice
ragione che nessuno si ritiene padrone della vita di un altro; è una
forma di rispetto e di affetto». «Rispetto ed affetti ingiusti, caro don
Rosario. Se potessi anticiperei il mio ultimo sonno, perché la morte è
forse come un sonno, un riposo che non finisce mai. Lei non può far
nulla per accelerare la sua venuta? Non può darmi una pastiglia? Preghi
il Padreterno che mi faccia morire presto, veramente mi farebbe un gran
favore».
Salvemini fu esaudito tre giorni più tardi. Era il 6
settembre del 1957. Don Rosario ne ricorderà per sempre il sorriso che –
disse – era sorriso «da bambino e da contadino insieme, gratuito come
l’innocenza e la spontaneità».