Il Sole Domenica 3.9.17
Genetica delle popolazioni
La radici micenee dei greci
Il Dna indica una continuità anche tra i minoici e gli abitanti attuali. Davvero già lo sapevamo?
di Guido Barbujani
Misteri
scientifici da indagare ce ne sono tanti, ma non si può certo dire che
la Grecia è misteriosa. Dai tempi di Heinrich Schliemann e Arthur Evans
riconosciamo nella civiltà minoica dell’isola di Creta (fra il 2000 e il
1450 a.C.) e in quella micenea della Grecia continentale (fra il 1600 e
il 1000 a.C.) i fondamenti della nostra civiltà. È da lì, da Creta, che
provengono i primi testi scritti europei, e sulla Grecia storici e
archeologi hanno lavorato tanto, e spesso benissimo. Omero; Atene,
Sparta e Tebe; Platone e Aristotele; Maratona, le Termopili, Salamina e
Mantinea; Eschilo, Sofocle, Euripide, Tucidide, Erodoto e Senofonte:
cos’altro ci sarebbe, da sapere? Be’, parecchio, in realtà. Per esempio:
chi erano i greci antichi? Da dove venivano? E siamo sicuri che siano
loro gli antenati dei greci di adesso? Hanno cercato risposte nel DNA,
con seguito di polemiche su cui torneremo, Johannes Krause del Marx
Planck di Jena e un genetista di Seattle, George Stamatoyannopoulos, il
cui cognome basta a spiegare perché si sia tanto appassionato alla
faccenda
(http://www.nature.com/nature/journal/vaop/ncurrent/full/nature23310.html).
Nel
2015 un gruppo di Harvard aveva dimostrato che Luca Cavalli-Sforza,
tanto per cambiare, aveva visto giusto: il DNA dei greci neolitici
assomiglia a quello dei primi agricoltori anatolici, gli iniziatori
della rivoluzione neolitica. Dunque, l’agricoltura è arrivata in Europa
da sudest (questo ce lo dicono i reperti archeologici), e in Grecia ci è
arrivata per migrazione (e questo ce lo dice il DNA). Poi, con le
civiltà minoica e micenea, si passa dall’età della pietra a quella del
bronzo, e dunque ci sono due possibilità: o le novità tecnologiche le ha
portate un’altra migrazione (e allora minoici e micenei non
assomiglieranno ai greci neolitici), oppure si sono sviluppate
localmente (e allora troveremo molto DNA in comune fra minoici, micenei e
neolitici). Naturalmente questi sono due estremi, fra cui si possono
immaginare tante sfumature. Ma formulare le ipotesi in questa forma
aiuta a capirsi.
Krause e i suoi hanno confrontato i DNA di greci
neolitici, cretesi minoici e postminoici, e micenei. Hanno trovato che
non sono identici, ma si assomigliano molto: hanno in comune tre quarti
delle varianti del loro DNA (cioè tre quarti di quell’uno per mille del
DNA in cui ci sono differenze fra noi umani). Questo fa pensare che il
passaggio dall’età della pietra a quella del bronzo non sia stato
accompagnato, in Grecia, da profondi cambiamenti demografici, e quindi
da grandi movimenti migratori. È interessante il confronto fra minoici e
micenei, questi ultimi subentrati a Creta con il declino della civiltà
minoica. Quel quarto di varianti del DNA che i due gruppi non
condividono assomiglia, a Creta, a quello di popolazioni asiatiche, del
Caucaso e dell’Iran; viceversa, a Micene si trova una componente tipica
del nordest europeo. Dunque, sembra che minoici e micenei abbiano avuto
gli stessi antenati nel neolitico, ma poi abbiano ricevuto migranti di
origini diverse, diventando così a loro volta un po’ diversi.
Altro
dato interessante: i greci attuali sono più vicini ai micenei, di cui
quindi sembrano discendenti più o meno diretti. Non è un risultato
banale: nell’Ottocento uno storico austriaco (e un po’ nostro
compatriota, di Bressanone), Jakob Phillip Fallmerayer, sosteneva che i
discendenti degli antichi greci non ci sono più, si sono estinti nel
medioevo: Krause, quindi, ha provato che si sbagliava. Insomma, lo
studio del DNA dimostra come da millenni in Grecia si conservi la
traccia di una continuità genealogica, ma anche come poi sia arrivata
tanta gente diversa, e non la stessa in tutti i posti.
C’è motivo
di credere che lo stesso valga per tante altre popolazioni. Anche chi ha
vissuto per generazioni in condizioni di relativo isolamento, per
esempio perché stava su un’isola, non è rimasto immune da fenomeni di
immigrazione, magari minuscoli, ma frequenti. In questo modo, di regola
le popolazioni umane sono diventate un mosaico genetico: con un po’ di
fortuna, possiamo ancora riconoscere le tessere portate da tanti
antenati differenti.
Dicevamo che il lavoro di Krause e
collaboratori ha suscitato polemiche. Solo in Italia, a dire il vero; ma
parliamone. «I risultati confermano quel che si sapeva già», dichiara
ai giornali un filologo classico, Lorenzo Perilli. E come faceva? Cosa
ne sapeva delle somiglianze e delle differenze fra minoici e micenei,
prima di leggere lo studio di Krause? Mistero. Ma i suoi pregiudizi sono
condivisi da altri colleghi. «Nel Mediterraneo, in epoca paleolitica,
ci sono stati spostamenti enormi di popolazioni. È successo di tutto, e
penso che le informazioni che ci arrivano dalla genetica siano
irrilevanti» sentenzia bellicosamente un etruscologo famoso, Mario
Torelli. Boh. Proprio perché può essere successo di tutto, proprio
perché la gente migra, ma le fonti storiche non ci dicono (e non possono
dirci) in quanti si sono spostati e se hanno lasciato qualche
discendente, sembrerebbe utile servirsi anche (anche!) dei metodi e dei
dati della genetica. No?
Senza dubbio, anche dopo questa bella
analisi genetica, restano tante domande inevase sull’origine della
civiltà minoica. Non c’è da preoccuparsi: nessuno in possesso delle
proprie facoltà mentali proporrebbe mai di rimpiazzare lo studio della
storia con quello del DNA. Tantissime questioni fondamentali, dalle
origini della lingua e della scrittura di questi popoli, alle cause del
loro successo e del loro declino, possono essere affrontate solo con i
metodi dell’archeologia e della ricerca storica. C’è, insomma, lavoro
per tutti. Detto questo, se gli anestesisti avessero avuto la stessa
apertura mentale di questi accademici nostrani, saremmo ancora al sorso
di whisky e al laccio di cuoio da stringere fra i denti, come nei film
di cowboy. Gli studiosi del mondo antico avranno maggiori soddisfazioni
quando, anche in Italia, capiranno che il progresso tecnologico non è un
babau da esorcizzare.