Il Sole Domenica 3.9.17
Colonialismo
Africa italiana vista dai civili
di David Bidussa
A
proposito dell’impero coloniale e in particolare della storia della
presenza italiana in Etiopia, si è scritto molto sulla vicenda militare,
come pure in anni recenti sulle brutalità o sulle violenze. Qualcosa,
ma molto marginalmente è stato raccontato dell’immaginario coloniale. Il
volume di Ertola dà conto della storia sociale, dell’emigrazione
maschile e soprattutto quella femminile. Un aspetto, quest’ultimo che
Emanuele Ertola tratta, giustamente con molta attenzione.
Il
bilancio di questa vicenda peraltro breve - in tutto poco meno di sei
anni (dal maggio 1936 al marzo 1942) conclude Ertola - non è
sostanzialmente contrassegnato da successo, ma nemmeno da una
particolare nostalgia da chi scelse di andare a tentare la fortuna in
Etiopia. Difficile contraddirlo per i dati che presenta. È una
condizione, quella che documenta Ertola in questo suo libro che in molti
casi riflette una convinzione che non è conseguente alla parabola
dell’Impero italiano in Africa Orientale, ma che emerge velocemente già
nei primi mesi della presenza italiana.
«Finalmente sono nella
capitale – scrive Giuseppe Rondoni, nel maggio 1937 - Vedessi che
magnificenza! Capanne molto peggiori di quelle dei nostri contadini,
tucul che sono come i nostri pagliai (sono le abitazioni di questa
gente) nauseanti, neri, sporchi,.. vie sconnesse e pressoché
impraticabili, il tutto nella completa oscurità, fatta eccezione di
qualche lampada a gas in quello che si chiama il centro: ho preferito
tornare nel mio camion a dormire».
L’impero all’indomani della
vittoria del 5 maggio 1936 si presenta come un investimento per molti
che provano a cambiare la loro vita, salvo andare incontro molto
velocemente alla delusione. Quella di Giuseppe Rondoni è solo una delle
tante storie di quei petis blancs, degli uomini e delle donne comuni che
decisero di trasferirsi in Etiopia per tentare di iniziare lì una nuova
vita e che spesso, e ben presto, si trovarono a giungere alla medesima
conclusione. È significativo, per esempio, il caso di operai coinvolti
nella costruzione d’infrastrutture – più spesso ristrutturazione di
centri urbani, o di strade. La loro presenza è significativa nel primo
periodo, quello immediatamente successivo alla conquista, ma è un
fenomeno destinato presto a scemare perché il loro costo era troppo alto
rispetto al possibile utilizzo di manodopera locale.
Altrettanto
significativo è il caso dei coloni-agricoltori, stimolati a emigrare da
un regime che pensava di ripercorrere la stessa strada già sperimentata
con le bonifiche nella prima metà degli anni ’30. In realtà anche questa
emigrazione non risulta riuscita: gli insediamenti agricoli si
avviarono con lentezza, anche per la carenza o l’insufficienza delle
infrastrutture.
Ma particolarmente significativo è il dato
relativo all’emigrazione delle donne. Diecimila sono le donne che
emigrano verso l’Etiopia. È un’emigrazione che risponde a varie esigenze
tra cui quella relativa alla politica famigliare. In conformità con la
politica natalista e costruita sulla forza della famiglia che Benito
Mussolini ha enunciato nel maggio 1927 alla Camera (è il cosiddetto
Discorso dell’Ascensione, il testo traccia la fisionomia culturale e
ideologica della politica del regime sul rapporto tra demografia,
benessere e sviluppo), la prima preoccupazione del regime è fare in modo
che le famiglie dei funzionari (militari, di partito, dell’apparato
pubblico), si ricongiungano, per limitare e stroncare un fenomeno già
diffuso nei primi mesi dell’occupazione italiana dell’Etiopia, ovvero il
concubinaggio, con le giovani etiopi. Il tema è il rischio del
meticciato. Lo stesso tipo di politica corrisponde anche all’obiettivo
di non lasciare soli gli emigranti senza famiglia ancora insistendo
sulla funzione procreativa della donna. Un processo migratorio che
dunque rispondeva alla visione fascista della donna italiana che prima
di tutto doveva essere “madre”. Un profilo che, sottolinea Ertola,
assegna alle donne, più che agli uomini, la difesa e il controllo della
rispettabilità, per cui la presenza della donna era volta «a sorvegliare
i costumi e i comportamenti dell’uomo».
Ma anche una
preoccupazione che contemporaneamente ha una funzione di regolamento dei
comportamenti che cresce con la costruzione della legislazione razziale
che inizia a prendere forma tra 1937 e 1938 e che nasce anche in
seguito alle violenze dei coloni dei confronti degli indigeni nel
febbraio 1937 dopo il fallito attentato al viceré Rodolfo Graziani. In
breve, l’incapacità di promuovere una qualche forma di coabitazione
nella società coloniale, fenomeno che è testimoniato sia dalle violenze
dei coloni italiani rispetto agli indigeni, ma anche dalla rapida fine
dell’impero, intravisto da molti come un errore, tanto da far dire
«maledetta Africa ed il giorno che ci sono venuto».
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Emanuele Ertola, In terra d'Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero , Laterza, Roma-Bari, pagg. XVI-246, € 20