Il Sole 24.9.17
astrofisica / 2
Nell’oscurità dell’Universo
di Patrizia Caraveo
Uno
dei risultati più spettacolari dell’astrofisica del secolo scorso è
stata la scoperta dell’espansione dell’Universo. La conosciamo come
legge di Hubble ma è la somma del lavoro di molti, primo fra tutti
l’abate Lemaitre. Tuttavia fu Hubble a costruire il semplicissimo
grafico dove riportava su un asse le distanze delle galassie e
sull’altro le loro velocità. Era il 1929 e, con poche decine di galassie
osservate in modo approssimativo, Hubble seppe intuire una profonda
verità: le galassie sembravano allontanarsi con una velocità che è
proporzionale alla distanza. Quelle più lontane si muovono con velocità
sempre più grandi. In effetti, oggi sappiamo che è lo spazio che si
espande e le galassie non possono fare altro che seguire questo moto
universale. Ad Einstein non piacque per niente e ci mise del tempo ad
accettare questo fatto.
L’esistenza dell’espansione ha
implicazioni profondissime perché ci dice che l’Universo ha avuto un
inizio, quando lo spazio ha iniziato a crescere e il tempo ha cominciato
a scorrere. Stiamo parlando di uno dei pilastri della cosmologia
moderna: nessuno dubita della sua veridicità ma ci sono state dispute
infinite sull’entità dell’espansione. La proporzionalità tra velocità e
distanza è un aiuto fondamentale per gli astronomi che, data una
quantità, possono ricavare l’altra. Infatti, mentre la distanza di un
oggetto celeste è notoriamente difficile da misurare, la sua velocità
può essere stimata direttamente misurando lo spostamento delle righe
presenti nello spettro della luce che emette. La conoscenza precisa
della costante di proporzionalità, la famosa costante di Hubble, è
quindi di fondamentale importanza.
I cosmologi, scherzosamente
descritti come una genia di scienziati often in error, never in doubt
(spesso in errore, mai in dubbio) si sono insultati sanguinosamente per
decenni a proposito dell’esatto valore della costante che, legando
velocità e distanza, ha le dimensioni di una velocità (km al sec) diviso
una distanza (che gli astronomi misurano in Megaparsec).
Sbagliando
clamorosamente, Hubble stimò il suo valore in 500, cosa che implicava
che l’universo avesse poco più di 2 miliardi di anni, un’età inferiore a
quella delle stelle più vecchie che conosciamo. Quando entrò in
funzione il telescopio di Monte Palomar, la qualità dei dati migliorò
decisamente e il valore scese, ma non in modo univoco. La comunità
astronomica si divise tra coloro che sostenevano che la costante di
Hubble fosse 100 e quelli che preferivano il valore di 50. Ci sono
voluti lunghi programmi dedicati dello Hubble Space Telescope,
coordinati con tenacia da Wendy Freedman, per ridurre gli errori e
sedare gli animi, facendo convergere i valori al numero magico di 72,
recentemente aggiornato a 73,24.
La pace cosmologica ha avuto vita
breve perché, nel frattempo, era stato sviluppato un modo indipendente
di calcolare la costante di Hubble partendo dalle mappe del rumore
cosmico di fondo, quello che resta del primo vagito dell’Universo. E’
una mappa molto importante perché contiene informazioni preziose sulla
geometria dell’Universo che è direttamente legata alla massa totale. È
esaminando la mappa del fondo cosmico che abbiamo capito che siamo
azionisti di minoranza in un Universo dominato da componenti ignote,
quindi oscure. Le stelle, le galassie e tutto ciò che è fatto della
materia della quale siamo fatti noi arriva a malapena al 5% del totale
della materia che viene mappata dalla geometria. Il 25% è dovuto a
materia che pesa ma non sappiamo cosa sia, mentre il restante 70% è
oscuro di nome e di fatto.
Il satellite europeo Planck, forte
della mappa più precisa mai ottenuta del rumore di fondo del cielo, ha
assegnato alla costante di Hubble il valore di 67,8. Gli errori di
misura sono molto piccoli e la differenza tra 73,24 e 67,8 non può
essere ignorata. Visto che si tratta di valori ottenuti da due gruppi
indipendenti utilizzando dati completamente diversi, è legittimo
chiedersi se non ci sia qualche errore nascosto nell’analisi dei dati,
errore che deve essere sottile perché è sfuggito a innumerevoli
verifiche.
I planckiani sostengono che l’errore l’hanno fatto gli
ottici e dicono che riprenderanno in mano tutti i dati dello Space
Telescope per rifare l’analisi dall’inizio. Wendy Freedman, invece,
confessa che sperava di potersi occupare di qualche altro problema, ma
non si tira certo indietro. Così progredisce la scienza.
D’altro
canto, è possibile che entrambi i gruppi abbiano ragione e che sia
invece l’espansione e giocare qualche brutto scherzo, obbligandoci ad
esplorare nuovi orizzonti. Dopo tutto, lo Hubble Space Telescope misura
l’espansione in epoche “recenti” mentre Planck la misura quando
l’Universo aveva appena 380mila anni, un’inezia rispetto ai 13,7
miliardi di anni attuali. Se accettiamo questa visione, ci troveremmo a
vivere in un Universo che ha premuto sull’acceleratore. Dal momento che,
per accelerare qualcosa bisogna spingere, cosa potrebbe fornire
l’energia necessaria? Il pensiero va subito alla parte più misteriosa
del nostro Universo, che è anche la parte maggioritaria, quella che noi
chiamiamo energia oscura. Variando la quantità dell’energia oscura in
funzione dell’età dell’Universo si potrebbe spiegare la differenza nelle
misure ottenute in diverse epoche. Giusto quello che ci voleva per
ravvivare il fuoco che covava sotto le ceneri e fare ripartire le
dispute tra i cosmologi.
Se vi siete persi nell’oscurità di questa
affascinante storia, potreste trovare uno spiraglio di luce nel libro
l’Universo Oscuro di Andrea Cimatti che ha fatto prodigi di valore per
rendere comprensibile un argomento veramente difficile. Con un
linguaggio molto chiaro, di chi si è spesso trovato a spiegare queste
tematiche al grande pubblico, Andrea parte dalla contemplazione di una
notte stellata per arrivare a fare apprezzare al lettore la complessità
del sistema che noi ammiriamo e cerchiamo di capire. Ci sfugge il 95% di
ciò che lo compone, ma ci stiamo lavorando.
Andrea Cimatti, L’universo oscuro , Carocci, Roma, pagg.172,€ 14