domenica 24 settembre 2017

Il Sole 24.9.17
astrofisica / 1
I nuovi confini del cosmo
Da mezzo secolo a questa parte l’uomo ha riscoperto lo spirito dei primi esploratori e ha ricominciato a mappare lo spazio
di Vincenzo Barone

«Dove sei?» è diventata, con l’avvento dei cellulari, la domanda d’esordio di ogni conversazione telefonica. Possiamo d’altra parte rispondere alla curiosità dei nostri interlocutori con una precisione inimmaginabile fino a qualche anno fa, grazie a sistemi come il GPS, che incorporano tanta splendida fisica. E non solo il nostro posto sulla Terra, ma anche quello nell’universo è ormai molto ben individuato. Viviamo su un confortevole pianeta a 150 milioni di chilometri da una stella di media grandezza, il Sole, collocata a 27.000 anni luce dal centro di una galassia a spirale, la Via Lattea (centomila anni luce di diametro), che fa parte del Gruppo Locale (dieci milioni di anni luce di diametro), un insieme di galassie appartenente al Superammasso della Vergine (cento milioni di anni luce di diametro), una delle componenti del Complesso dei Pesci-Balena, che si estende per un miliardo di anni luce.
Riusciamo insomma a collocarci precisamente in un universo che è miliardi di miliardi di miliardi di volte più grande di noi. È una conquista mirabile, la cui storia (ben illustrata nel libro di Tommaso Maccacaro e Claudio Tartari, Storia del dove, Bollati Boringhieri, recensito da Patrizia Caraveo sulla Domenica del 20 agosto) coincide in definitiva con la storia del pensiero e della scienza. Le frontiere della conoscenza e quelle fisiche del mondo si sono ampliate di pari passo, e il cosmo ha infine assunto proporzioni enormi, che sappiamo quantificare, ma facciamo fatica a concepire e a esprimere in termini familiari.
«Un indice del progresso della civiltà umana – osserva il fisico teorico e scrittore Alan Lightman in un piccolo e godibile saggio, L’universo accidentale, che racconta l’universo attraverso sette suoi attributi – è la scala crescente delle nostre mappe». In effetti, tra la tavoletta di argilla babilonese conservata al British Museum, che identifica il mondo con la regione dell’Eufrate, e la mappa della radiazione cosmica di fondo della missione Planck, che fotografa l’intero universo nella sua infanzia, 380mila anni dopo il Big Bang, si dispiega tutta l’avventura del pensiero umano – un’avventura che ha subìto un’accelerazione decisiva nei quattro secoli della scienza moderna. Dal Cinquecento a oggi l’universo noto si è dilatato di sedici ordini di grandezza (cioè di dieci milioni di miliardi di volte): un numero impressionante, che dà l’idea dell’impresa compiuta dagli astronomi. Alla vigilia della Rivoluzione Scientifica le stime delle distanze celesti erano ancora quelle di Tolomeo (II secolo d.C.) e dei suoi predecessori (Eratostene, Aristarco, Ipparco). Tolomeo attribuiva alla distanza Terra-Sole il valore di 1.200 raggi terrestri (venti volte meno del dato reale) e riteneva che la sfera delle stelle fisse, adiacente a quella dell’ultimo pianeta noto, Saturno, avesse una dimensione di 20.000 raggi terrestri, più o meno dieci milioni di chilometri.
Non era mancato, a dire il vero, chi già in epoca precedente aveva sfidato le stime tolemaiche. Nel Trecento, per esempio, Il rabbino catalano Levi ben Gershon (Gersonide) aveva sostenuto l’estrema lontananza delle stelle, collocate da lui a milioni di miliardi di chilometri dalla Terra (decine o centinaia di anni luce, in unità moderne). Le sue idee non ebbero però alcun seguito. Con diffidenza furono anche accolte, tre secoli e mezzo dopo, stime simili dovute a Huygens e Newton. Solo nell’Ottocento, con la misura della parallasse di 61 Cygni da parte di Friedrich Wilhelm Bessel, le distanze stellari cominciarono a essere determinate in maniera diretta, e la frontiera degli anni luce venne definitivamente varcata.
Nel frattempo, William Herschel aveva prodotto nel 1785 il primo modello della Via Lattea: un disco appiattito largo dieci milioni di miliardi di chilometri (cento volte meno del reale). Modelli sostanzialmente dello stesso genere, più raffinati, vennero proposti fino all’inizio del Novecento. Si pensava ancora che l’universo coincidesse con la nostra galassia, e alcuni – in assenza di prove contrarie – collocavano il Sole in posizione centrale (ultimo residuo di antropocentrismo). A cambiare tutto arrivò dapprima un’astronoma di Harvard, Henrietta Leavitt, che con le cefeidi – stelle di luminosità assoluta nota – fornì finalmente un “metro” affidabile e universale per misurare gli spazi siderali, e poi un altro scienziato statunitense, Edwin Hubble, che rivoluzionò la cosmologia, mostrando che la Via Lattea è solo una delle tante galassie disseminate in uno spazio sterminato (con il Sole, peraltro, in posizione defilata), e soprattutto che l’intero quadro è dinamico: l’universo si espande e ha una storia. L’attualità è nota. Sappiamo di essere abitanti di un cosmo in espansione accelerata, globalmente piatto, vecchio di 13,8 miliardi di anni. Quanto più ci addentriamo nelle sue profondità, tanto più indietro andiamo nel tempo. Esiste quindi un orizzonte – alcune decine di miliardi di anni luce – che limita il nostro sguardo, giacché non possiamo ricevere segnali da un tempo anteriore all’inizio dell’universo.
Per il frontespizio dell’Instauratio Magna, del 1620, che conteneva il Novum Organum, manifesto metodologico della nuova filosofia naturale, Francesco Bacone scelse un’immagine emblematica: due navi a vele spiegate che oltrepassano le Colonne d’Ercole. Era al tempo stesso una raffigurazione di ciò che stava accadendo realmente, con le imprese dei grandi navigatori, e una metafora della scienza moderna, come conquista di nuovi territori del sapere. Il versetto biblico che accompagnava l’immagine – Multi pertransibunt et augebitur scientia («Molti passeranno e la scienza crescerà») – è una profezia ampiamente realizzatasi, al di là di quanto il Lord Cancelliere potesse immaginare. Dopo aver a lungo scrutato l’universo dalla finestra di casa, con strumenti sempre più raffinati (e ingombranti), da mezzo secolo a questa parte l’uomo ha riscoperto lo spirito dei primi esploratori e ha cominciato a mandare le proprie navi oltre le Colonne d’Ercole.
La sonda Voyager è laggiù: ha fotografato quel «puntino celeste» (definizione di Carl Sagan) che è la Terra vista dalla periferia del Sistema Solare e oggi, a 20 miliardi di chilometri di distanza da noi, è l’oggetto artificiale più lontano. E già qualcuno progetta di andare a vela – spaziale – verso Alpha Centauri, più di 4 anni luce da percorrere in una ventina d’anni (è l’idea del miliardario russo Yuri Milner, sostenuta da Stephen Hawking). Il bello delle frontiere dell’universo è che sono sempre in movimento.
Alan Lightman, L’universo accidentale. Sette riflessioni cosmologiche
sul mondo che credevi di conoscere , traduzione di Paola Borgonovo, Sironi, Milano, pagg. 142, € 16