mercoledì 13 settembre 2017

il manifesto13.9.17
La guerra all’istruzione produce laureati precari e docenti sottopagati
Resistenze possibili. I risultati della guerra all’istruzione, all’università e alla ricerca nel rapporto Ocse 2017. Nove miliardi di euro sono stati tagliati a scuola e università tra il 2008 e il 2011. Da allora questi fondi non sono stati recuperati. L’Italia è un caso unico tra i paesi Ocse. Gli unici ad opporsi contro queste politiche catastrofiche sono stati i movimenti tra il 2008 e il 2010 e nel 2015 contro la «Buona Scuola». Da qui si potrebbe ripartire oggi
La protesta contro il numero chiuso alla Statale di Milano
di Roberto Ciccarelli

Maglia nera per la spesa pubblica nell’istruzione nei paesi Ocse, penultima per numero di laureati e ultima per occupati con il questo titolo di studio, l’Italia conferma anche il record dei giovani «Neet»: un ragazzo su 4 tra i 15 e i 29 anni non è impegnato nello studio, in un lavoro retribuito ufficialmente, né in un percorso formativo.
IL RAPPORTO OCSE «Uno sguardo sull’istruzione 2017» rappresenta il bilancio di due tendenze che hanno trasformato radicalmente la scuola e l’università nell’ultimo ventennio. La prima tendenza è misurabile sul tempo relativamente breve. Tra il 2008 e il 2012, regnante Berlusconi, nel nostro paese è stata condotta la più efferata guerra sociale contro l’intelligenza diffusa, i saperi e l’istruzione pubblica. Nessun paese Ocse, in coincidenza con la crisi più devastante dal 1929, ha tagliato 9 miliardi di euro ai bilanci di scuola e università. A questi bisogna aggiungere i miliardi risparmiati con il blocco degli stipendi degli insegnanti e personale: 12 mila euro a testa in sette anni. Oggi, sostiene l’Ocse, la retribuzione lorda di un prof di liceo con 15 anni di anzianità è inferiore di 9 mila dollari rispetto alla media (37 mila contro 46 mila). In termini generale, ancora nel 2014, era investito il 7,1% in istruzione (siamo ultimi tra i paesi Ocse) e l’1,6% in educazione terziaria a fronte di una media del 3,1%. La percentuale del Pil dedicato all’istruzione è del 4% contro il 5,2% nell’Ocse. Rispetto al 2010, il taglio è stato del 7%.
SUGLI STUDENTI SI INVESTE sempre meno: 9317 dollari a testa a fronte di una media europea di 10.897 dollari (media Ocse 10.759 dollari). Sull’educazione universitaria, l’Italia impiega 11.510 dollari. In Francia sono quasi cinquemila in più: 16.422 dollari. La Germania è irraggiungibile: 17.180 dollari. Dal 2014 a oggi, è ragionevole pensare, questi dati non sono cambiati di molto. Nell’ultimo triennio, quello per intendersi del governo Renzi-Gentiloni, all’istruzione sono andate briciole rispetto ai tagli inflitti nel triennio precedente e non sono stati rovesciati i devastanti effetti dell’offensiva berlusconiana. Il cospicuo bottino ottenuto dalla «flessibilità» concessa dall’Unione Europea al nostro paese è stato usato per i bonus alle imprese (i 18 miliardi di euro bruciati inutilmente per aumentare l’occupazione fissa con il Jobs Act) o per dare spiccioli al ceto medio del lavoro dipendente in crisi (i 9 miliardi degli «80 euro»). Nell’orizzonte politico del renzismo-Pd non rientrano gli investimenti pubblici su istruzione e ricerca. La plateale assenza del tema nella campagna elettorale nascente è una conferma.
LA SECONDA TENDENZA rilevata dal rapporto Ocse riguarda il tempo lungo, quello della riforma dei cicli e dei crediti voluta dal centro-sinistra Prodi-D’Alema-Amato, con ministri dell’Istruzione Berlinguer e Zecchino, dal 1996 al 2001. Non occorreva aspettare gli ultimi dati sui laureati per capire che quella riforma neoliberale è stata un fallimento. Vale la pena allora rispolverarli, considerata la forte capacità di rimozione delle responsabilità politiche e culturali in questo paese. Nel 2016, tra i 25 e 64enni, il 18% aveva una laurea. La media europea è del 33%. Tra i 25-34enni il 26% aveva una laurea. La media europea: 40%. Solo il Messico fa peggio con il 22% di laureati. Dati da scolpire nella pietra perché i «riformatori» neoliberali del «centro-sinistra» avevano un unico obiettivo: aumentare i laureati, riducendo i saperi a competenze («soft skills») usa-e-getta su un mercato che sta sostituendo il lavoro dipendente con quello precario a breve e brevissimo termine, mentre gli «inattivi», i «neet» e gli «scoraggiati» sono arrivati alla cifra choc di 13 milioni (dati Istat di ieri). A questo risultato ha contribuito il combinato disposto dell’esplosione della bolla formativa creata dagli anni Novanta e i tagli degli anni Dieci.
L’UNICO «SUCCESSO» è l’età media della prima laurea, 25 anni, in linea con l’Europa e inferiore ai paesi Ocse. Il prossimo ministro dell’Istruzione che insulterà i «fuori corso» come «costi sociali» o «choosy» è avvertito: non è vero. Cosa fanno questi (pochi) laureati? Sono precari. In più il tasso di occupazione è del 64% contro la media dell’83%, il più basso tra i paesi industrializzati, e inferiore a quello dei diplomati. Un caso raro nei paesi Ocse.
L’ENORME MOVIMENTO che, al tempo della «riforma Gelmini» tra il 2008 e il 2010, animò una contro-offensiva di massa è stato l’unico soggetto sociale a opporsi contro queste politiche catastrofiche. Un ritorno di fiamma è stato quello contro la «Buona Scuola» di Renzi nel 2015, un provvedimento che ha rafforzato l’approccio neoliberale all’istruzione dopo averlo aggravato nel mercato del lavoro. Da qui si potrebbe ripartire. Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio, ha scritto Samuel Beckett. Una massima che vale anche oggi.