il manifesto 5.9.17
Fuori dall’inferno, l’incanto di Ahmad
Musica.
Il giovane pianista palestinese che ha commosso il mondo ospite della
ventiseisima edizione del Festival Musicale del Mediterraneo
Aeham Ahmad
di Guido Festinese
GENOVA
Fuori dall’inferno. Anche se pure all’inferno si possono regalare
sorrisi e speranza. Aeham Ahmad è il giovane pianista palestinese che ha
commosso e incantato il mondo. L’inferno è a Yarmouk, in Siria. Campo
profughi palestinese. Bombe, missili, raffiche di mitra. Tutti i giorni,
tutto il giorno. Macerie di palazzi un tempo belli e svettanti, e ora
sinistri come gigantesche bocche sdentate. Nell’inferno siriano Ahmad,
folti capelli scurissimi, fisico esile, mani lunghe e potenti tutte
nervi regala speranza e sorrisi. Il mondo l’ha conosciuto grazie a un
video rilanciato da tanti media, prima che la consueta cappa di
indifferenza al peggio inghiottisse tutto.
Perché ogni giorno,
quando le orecchie sfondate dai tonfi delle bombe chiedono normalità lui
si carica sul caretto dello zio un pianoforte, lo mette per strada,
regala musica a tutti. Con coraggio e determinazione. In questi giorni
Aeham Ahmad è fuori dall’inferno, a suonare in giro per l’Italia. A
Genova sabato era ospite – speciale e naturale assieme- della
ventiseiesima edizione del Festival Musicale del Mediterranero diretto
dal musicista e musicoterapeuta Davide Ferrari: quest’anno la rassegna è
dedicata alla “Musica apolide”, e mai definizione è stata più adatta
per definire le note sontuose che Ahmad fa scaturire dagli ottantotto
tasti. E’ un palestinese, dunque un “apolide” per definizione, della
terza generazione di rifugiati in Siria che non hanno diritto a uno
stato.
Ora dalla Siria nella triplice morsa dei sanguinari
scherani di Assad, dell’Isis e dei bombardamenti “alleati” si cerca di
fuggire. Il paese dell’ospitalità forzata è diventato un incubo, e
Ahmad, che si sente palestinese e siriano assieme reagisce con l’unica
arma poderosa che abbia a disposizione: la musica. Aveva studiato al
Conservatorio di Damasco, e da lì gli arriva una diteggiatura sontuosa e
scintillante, che mette in conto radianti voli sulle note di Mozart e
Beethoven, aggredite con una specie di “furor” testimoniale, a dire che
quella cultura non è solo degli occidentali, e anche e soprattutto
musica del Medioriente: i brani della tradizione, una delle più antiche e
nobili del Mediterraneo, le nuove musiche che scaturiscono anche sotto i
bombardamenti.
Racconta Ahmad che un suo amico ventiduenne ogni
giorno gli ha portato un brano nuovo. Ora è nelle galere di Assad, come
ventimila altri siriani scomparsi. Elenca tanti altri nomi: tutti
svaniti nel nulla. E con un groppo in gola batte e ribatte su un unico
punto, con determinazione e chiarezza: non saranno le armi a liberare la
Siria da jihadisti e Assad, ma le mani disarmate del popolo siriano.
Sarà
la forza pacifica dei siriani a rovesciare un mondo di sopraffazione,
non saranno i turchi né i raid americani. Prende fiato, e riattacca
quelle melodie modali incantenanti, con la voce quasi in falsetto che si
frange in mille impossibili quarti di tono, compressa, melismatica,
poetica, e viene in mente quanto la pirotecnia vocale assomigli a quella
dei “cantaores” del flamenco iberico: che derivarono quel modo di
cantare proprio dalle tracce musicali lasciate dagli arabi, dagli ebrei,
dagli zingari: tutta gente “apolide” come lui.
A un certo punto
sale sul palco la vocalist siriana Mirna Kassis, che da tanti anni
risiede a Genova. E’ un incontro sconvolgente, perché tanti fa, a
Damasco, Aeham Ahmad e Mirna erano compagni di conservatorio. Si
rivedono per la prima volta. Cantano insieme un brano tradizionale, ed è
poesia sorgiva e ineffabile. “Io faccio cose personali, ma a volte fare
cose personali ha senso solo se sono messe a servizio di tutti gli
altri”, racconta.
Chiude il concerto con una specie di inno in do
pieno ed allegro che saltella su un trascinante tre quarti: lo fa
cantare a tutto il pubblico. Dice che nel campo profughi lo usano sempre
per darsi coraggio. Ha scritto il poeta siriano Faraj Bayrakdar in un
carcere militare: “Che chi si nasconde dietro Dio e Dio dietro di lui /
Solo noi teniamo il cuore alto come un bersaglio”.