il manifesto 3.9.17
Il nostro «aiuto» è la vendita di armi
Italia-Africa.
Ai vertici della spesa militare del Continente nero troviamo non a caso
ancora Algeria, Marocco e Nigeria cui si affiancano Sudan, Angola e
Tunisia
Francesco Vignarca
Edizione del
03.09.2017
Pubblicato
2.9.2017, 23:59
Nel
distorto e problematico dibattito pubblico italiano e non solo
sull’epocale fenomeno migratorio il tentativo principale della politica è
quello di allontanare dalla vista dell’elettorato i problemi e le
responsabilità.
Nelle poche occasioni in cui si è allargato lo
sguardo verso i luoghi di provenienza delle migrazioni (in particolare
penso all’Africa) lo si fa richiamando un retorico e qualunquista «aiuto
a casa loro» che non ha nulla di concreto o fattivo.
LA ORMAI
VECCHIE promesse, sottoscritte a livello internazionale anche
dall’Italia, di destinare almeno lo 0,7% del Pil all’aiuto pubblico allo
sviluppo (diretto, indiretto e multilaterale) sono rimaste lettera
morta. Nel 2015 l’Italia, pur con un trend in crescita, ha raggiunto
solo lo 0,22% del Pil e una buona fetta dei quasi 4 miliardi impiegati è
comunque rimasta nei nostri confini proprio per gestire il fenomeno
migratorio.
INVECE I GOVERNI degli ultimi anni sono stati molto
attivi nel far diventare l’Africa un terminale per i nostri affari, in
particolare per quelli armati. Nei primi 25 anni di vigenza della legge
185/90 l’Africa subsahariana ha ricevuto 1,3 miliardi di euro di
autorizzazioni armate, pari al 2,4% del totale. Occorre poi aggiungere
le cifre ancora più alte relative ai Paesi della sponda Sud del
Mediterraneo: la sola Algeria in 25 anni ha ricevuto autorizzazioni per
1659 milioni di euro. A livello globale l’Africa si attesta sul 9% delle
importazioni mondiali annuali di armi sempre con Algeria in testa (il
46% continentale nell’ultimo quinquennio e Paese nella «Top5» mondiale
complessiva) seguita da Marocco e Nigeria. Il 35% delle importazioni
militare africane giunge al di sotto del Sahara, con principali
venditori Russia, Cina, Stati Uniti e Francia. Un mercato trainato dalla
spesa militare del continente nel 2016 a poco meno di 38 miliardi di
dollari in aumentata del 48% in un decennio nonostante una leggera
decrescita recente. Ai vertici di spesa militare troviamo ancora
Algeria, Marocco e Nigeria cui si affiancano Sudan, Angola e Tunisia.
IL
TENTATIVO dei nostri governi recenti è stato quello di recuperare
posizioni in un mercato che (secondo il MAECI) è stato «generalmente
marginale per le nostre esportazioni di materiali per la difesa, sia a
causa delle limitate disponibilità economiche dei Paesi dell’Africa
Sub-Sahariana, sia in ragione delle restrizioni imposte da situazioni di
latenti conflittualità ed instabilità interne e regionali».
ESEMPIO
MASSIMO di questa strategia il tour della portaerei Cavour tra novembre
2013 e aprile 2014. Un viaggio che la Difesa ha cercato anche di
«vendere» come umanitario o legato ad operazioni anti-pirateria e che
invece si è concretizzato in un’enorme fiera (e spot) per l’industria
militare italiana. Ben presente con i suoi stand nei ponti della nave
ammiraglia della Marina, che non si sarebbe potuta nemmeno muovere senza
la ricca sponsorizzazione dell’industria bellica, visti gli alti costi
operativi. Dopo le prime tappe in Medio Oriente il viaggio del «Sistema
Paese in movimento» (questa la denominazione ufficiale) ha toccato
Kenia, Madagascar, Mozambico, Sud Africa, Angola, Congo, Nigeria, Ghana,
Senegal, Marocco e Algeria. Sollevando subito le proteste del mondo
disarmista: si trattava dei Paesi a più alta spesa militare
continentale, cinque dei quali considerati «regime autoritario» dal
Democracy Index dell’Economist mentre sette registravano basso «indice
di sviluppo umano» con posizioni tutte al di sotto del 142esimo posto
nella lista elaborata da Undp.
I RISULTATI, per l’industria
militare, non si sono fatti attendere e nel 2016 sono state autorizzate
vendite verso Angola, Congo, Kenya, Sud Africa, Algeria e Marocco (tra i
paesi visitati) ma anche verso Ciad, Mali, Namibia ed Etiopia (paese in
confitto costante con l’Eritrea). «Il caso più evidente di questa
strategia è l’Angola – sottolinea Giorgio Beretta analista di Opal
Brescia – un Paese a cui, così come al Congo del resto, non avevamo mai
venduto armi dalla 185/90 in poi e che invece è destinatario nel 2016 di
autorizzazioni per quasi 90 milioni di euro. Ma i contratti già
firmati, secondo notizie diffuse dalle stesse industrie di armi,
potrebbero aver già superato i 200 milioni complessivi».
GIÀ A
MARGINE del Tour africano della Cavour erano circolate voci di vendita
della vecchia portaelicotteri Garibaldi (anche per fare spazio alla
nuova portaerei Trieste poi successivamente finanziata) proprio
all’Angola. Vendita di usato non andata in porto da un lato per i
problemi finanziari causati dal crollo dei prezzi petroliferi,
dall’altro per il cambio di esecutivo che impedì all’allora Ministro
della Difesa Mario Mauro di recarsi come previsto a Luanda (con Governo
angolano infastidito).
POCO MALE, perché la nuova inquilina di via
XX Settembre Roberta Pinotti ha subito cercato di riparare: l’allora
Ministro della Difesa e attuale Presidente Joao Lourenço è stato tra i
primi ad essere ricevuto a Roma, replicando il viaggio anche nel 2016
mentre la stessa Pinotti si è recata a Luanda nel settembre 2015. Sulla
scia della visita dell’anno prima di Matteo Renzi, definita come epocale
e propedeutica ad una nuova stagione di rapporti (economici e di
cooperazione allo sviluppo) con i Paesi africani. Ma che pare aver
soprattutto dato il via a nuovi affari di natura militare.
MOLTI
RITENGONO questi dati una colpa delle dirigenze politiche africane, che
preferiscono investire gran parte dei bilanci statali in armi ed
eserciti anche per mantenere le proprie posizioni di comando. Ma se –
dall’Italia – sai che la situazione è questa e continui imperterrito a
siglare contratti puoi essere definito solo come complice. A casa loro.