il manifesto 2.9.17
La strage dei rohingya: 400 morti nei pogrom dell’esercito birmano
Myanmar.
Il «bilancio» lo dà un generale su Facebook. Ma le vittime sono di più:
altri 15 corpi trovati sulle rive del fiume Naf, undici sono bambini.
Silenzio internazionale mentre l’India di Modi ne espelle 40mila. La
Cina difende il governo birmano al Consiglio di Sicurezza Onu: Pechino
ha interessi nel Rakhine, lo Stato dove vive la scomoda minoranza
di Emanuele Giordana
Tra
i corpi dei 15 rohingya che il colonnello Ariful Islam dice all’agenzia
Reuters di aver trovato venerdì sulle rive del fiume Naf, che divide il
Myanmar dal Bangladesh, ci sono in maggioranza bambini: sono undici a
non avercela fatta.
Ma non sono da annoverare tra i 399 che, con
agghiacciante precisione numerica, i militari birmani hanno fatto sapere
di aver ucciso nella settimana di fuoco che ha seguito il «venerdì
nero» scorso, quando secessionisti rohingya hanno attaccato alcuni posti
di polizia scatenando una ritorsione dal sapore di pulizia etnica.
Non
si tratta di una dichiarazione «ufficiale» ma di un post sulla pagina
Fb di uno dei più importanti generali del Paese. La strage dei rohingya
ridotta a qualche «like» o a condivisione sul social più diffuso. Il
bilancio ufficiale era 108 morti e sembrava già tanto, così come i 3mila
scappati oltre confine. Ma da ieri le cifre sono ben altre: 400 i morti
tra cui, dicono i militari, 29 «terroristi».
E poi ben 38mila
profughi – la cifra aumenta di ora in ora – che si aggiungono agli
87mila già arrivati in Bangladesh dopo il pogrom dell’ottobre 2016 (nel
precedente, nel 2012, i morti erano stati 200 con oltre 100mila sfollati
interni).
I dati li fornisce l’Onu che fino a due giorni fa ne aveva
contati «solo» 3mila. Ma non è ben chiaro dove questa gente si trovi:
secondo fonti locali almeno 20mila sono ancora intrappolati nella terra
di nessuno tra i due Paesi e le guardie di frontiera bangladesi tengono
il piè fermo.
Molti fanno la fine di quelli trovati dal colonnello
Ariful se non riescono ad attraversare il fiume – a nuoto o con barche
dov’è più largo – mentre altri aspettano il momento buono, quando si può
sfuggire alle guardie di frontiera. Quel che è certo è che indietro non
si può tornare.
I rapporti tra i due vicini sono tesi: Dacca ha
protestato per ripetute violazioni dello spazio aereo da parte di
elicotteri birmani in quella che sembra, una volta per tutte, una sorta
di soluzione finale per chiudere il capitolo rohingya, minoranza
musulmana che prima del 2012 contava circa un milione di persone.
Adesso,
di questa comunità cui è negata la cittadinanza in Myanmar, non è
chiaro in quanti siano rimasti in quello che loro considerano, forse
obtorto collo, il proprio Paese mentre per il governo non si tratta che
di immigrati bangladesi.
Lontano dal Mediterraneo, lungo un fiume che
sfocia nel Golfo del Bengala, si consuma lentamente ma con
determinazione la persecuzione di un popolo. I militari agitano lo
spettro di uno «stato islamico», incarnato da un gruppo secessionista
armato responsabile degli attacchi.
E se anche i residenti locali non
musulmani (11mila) sono oggetto di «evacuazione» dalle zone sotto tiro,
Human Rights Watch ha documentato la distruzione di case e villaggi
rohingya con incendi che hanno tutta l’aria di essere dolosi.
Reazione
troppo brutale, come dice la diplomazia internazionale o un piano di
eliminazione? «Siamo ormai in una nuova fase – dice a Radio Popolare il
responsabile Asia di Hrw – e siamo convinti che dietro alle operazioni
dell’esercito ci sia il governo, col piano di chiudere definitivamente
la questione cacciando la popolazione rohingya grazie alla campagna
militare contro gli insorti».
Se la diplomazia resta a guardare, i
vicini non sono da meno. La Thailandia si richiama al principio di «non
ingerenza». Delhi ha deciso l’espulsione di 40mila rohingya illegali e
settimana prossima il premier Modi sarà in Myanmar, Paese strategico per
l’economia del colosso asiatico.
La decisione ha però suscitato
polemiche, editoriali sui giornali e anche il ricorso di due rohingya
alla Corte suprema che, proprio, ieri ha accolto la richiesta: pare che
Delhi intenda espellere persino chi già gode dello status di rifugiato
con l’Acnur (14mila persone).
C’è poi un altro colosso – la Cina –
che difende le ragioni del governo birmano nelle riunioni del Consiglio
di sicurezza dove fa sentire il suo peso perché la questione rohingya
resti al palo. Pechino è il maggior investitore e ha interessi anche nel
Rakhine, lo Stato dove vive la scomoda minoranza.
È interessata al
porto di Kyaukphyu, strategico per i rifornimenti di petrolio. Non solo i
cinesi stanno acquisendo azioni della società portuale ma finanziano
l’oleodotto che dal Rakhine arriva a Kunming, Cina del Sud.
C’è un
altro investimento nella cosiddetta Kyaukphyu Special Economic Zone che
prevede una linea ferroviaria. Un corridoio ritenuto vitale nel suo
progetto One Belt, One Road, meglio noto come «Nuova via della seta».
E
per evitare complicazioni Pechino ha ottimi rapporti con un
parlamentare locale dell’Arakan National Party, ritenuto un bastione del
nazionalismo identitario locale. È il partito che vorrebbe nel Rakhine
lo stato di emergenza.