il manifesto 2.9.17
La Storia senza schermi interattivi
Luoghi.
«Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz», un denso
saggio di Piotr M. A. Cywinski. Il direttore del museo-memoriale sarà in
Italia, ospite al Festivaletteratura di Mantova
di Lia Tagliacozzo
Auschwitz
è un luogo che ci interroga: è stato il più grande campo di sterminio
industrializzato della Germania nazista. E pone, oggi, domande immense:
tentare di farne un elenco interpella il nostro essere uomini e donne,
la storia d’Europa, la coscienza individuale, la vita presente e le
responsabilità future. Oggi un aiuto a formulare domande e ipotesi di
risposte lo offre Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz
(Bollati Boringhieri, pp. 148, euro 15) di Piotr M. A. Cywinski che dal
2006 è direttore del museo-memoriale di Auschwitz-Birkenau e che l’8
settembre sarà fra gli ospiti di Festivaletteratura di Mantova (ore 17,
Palazzo del Seminario Vescovile – Auditorium). Il libro è tradotto e
curato da Carlo Greppi che ne scrive anche una bella postfazione rivolta
al pubblico italiano.
Non c’è una fine è un volume che non esaurisce
temi e domande ma che pure lenisce il travaglio di chi sente di doversi
confrontare con l’anus mundi della «civile» Europa che in quel luogo ha
perso, definitivamente, la sua innocenza.
UN LIBRO deliberatamente
di parte, scritto da uno che «rimane qui»: «Ai visitatori servono
quattro ore per visitare Auschwitz, a volte un po’ di più. Noi invece
restiamo qui. Vediamo Auschwitz giorno dopo giorno, nella neve, alla
luce del sole, nella foschia del mattino, prima delle vacanze, nel
giorno del nostro compleanno, subito dopo la nascita di nostro figlio o
al ritorno dal funerale di qualcuno a noi caro». Poche righe più avanti,
spiega come «a noi nessuno domanda al rientro a casa come abbiamo
passato la giornata». Vi è in questo una qualche saggezza: «In fin dei
conti, non tutto deve essere detto. Proprio come non tutto deve essere
sentito.
Occhiali ritrovati ad Auschwitz
CI SONO VERITÀ che non
aumentano affatto la nostra conoscenza. Al contrario ci avvelenano». Ed è
la riflessione su verità, autenticità e conoscenza che accompagna per
intero la lettura del libro.
In un itinerario tra molte domande il
volume ragiona, con garbo e inquietudine, su cosa sia Auschwitz oggi e
sul perché milioni di persone vi si rechino ogni anno: «dopotutto,
sappiamo cosa è successo ad Auschwitz e non ci sono sconosciuti i nomi
di altri luoghi – scrive Cywinski – come Treblinka, Mauthausen,
Buchenwald, Dachau o Gross-Rosen. I fatti li conosciamo dai libri, dai
manuali, dagli insegnanti. Tuttavia crediamo che ad Auschwitz saremo in
grado di capire qualcosa di più». La potenza di quel luogo interroga
ancora se oltre cinquanta milioni di persone vi si sono recate in
visita, omaggio e ricordo nel corso degli anni. Le pagine del libro non
risparmiano domande, a nessuno.
CIASCUNO, in virtù della propria
formazione culturale, politica o umana può trovarvi e aggiungere le
proprie. Quello che è certo – prosegue Cywinski – è che «stando ad
Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione,
giudichiamo l’umanità. Di conseguenza giudichiamo noi stessi». Una
questione di inizio è perché proprio Auschwitz abbia finito con il
rappresentare l’intero dramma della Shoah – la distruzione sistematica
degli ebrei – quando in realtà non è così. La Shoah infatti non si
esaurisce nello sterminio industrializzato – le stragi di massa e le
fosse comuni nell’Europa orientale ebbero altra storia, altre date e, in
parte, altri protagonisti – come Auschwitz non esaurisce tutta la sua
storia «solo» nella Shoah: fu il punto centrale di un sistema
concentrazionario con fabbriche e campi di lavoro. Ed è questo uno dei
motivi per cui ne conosciamo meglio la storia: in quanto campo di lavoro
vi furono più sopravvissuti. Eppure «di tutti i maggiori centri di
assassinio di massa, solo Auschwitz è sopravvissuta in una forma che si
mostra ancora decifrabile. Gli altri luoghi furono smantellati,
distrutti e alterati al punto da essere irriconoscibili (…) per questa
ragione Auschwitz come sito memoriale iniziò ad essere visitato
regolarmente da capi di stato, primi ministri e leader religiosi.
Divenne il centro simbolico di un tutto molto più grande ed esteso».
La
riflessione di Cywinski non si sclerotizza nel simbolo e cerca di
andare oltre. Nella memoria pubblica vi è un’evidenza che rimane celata:
nell’immaginario collettivo Auschwitz è rappresentato dal filo spinato,
dalle torrette di guardia, dall’immondo cancello con la scritta «il
lavoro rende liberi». Lo scopo del museo-memoriale è esattamente il
contrario di quella rappresentazione stereotipata: è invece ricordare le
persone. «Le persone comuni che vennero assassinate in questo Luogo.
Senza questa consapevolezza il lavoro diventerebbe simile a quello che
si fa in qualsiasi museo o sito archeologico», perché è incontrare lo
sguardo delle vittime che costringe ad affrontare l’immensità dello
sterminio. Per questo, spiega ancora Cywinski, «la narrazione della
memoria qui coincide prima di tutto con il Luogo». Il Luogo – la
maiuscola è di Cywinski – è lo spazio fisico attraversato da quelle
vittime, non simbolo ma consistenza. «La voce dei sopravvissuti e il
Memoriale sono i due maggiori pilastri della narrazione di Auschwitz. Si
sostengono l’un l’altro. Uno sarebbe più debole senza l’altro».
LA
PRESENZA FISICA del visitatore che si aggira tra i resti tangibili del
campo mette a confronto «l’immaginazione disorientata con l’inflessibile
realtà». «Le parole e il Luogo si sostengono a vicenda per creare un
tutt’uno. Queste due realtà sono tutto ciò che abbiamo, e non avremo mai
niente di più». Ed è intorno a quel Luogo che il volume si dipana: non
tanto su cosa sia stato ma su cosa debba essere oggi.
Il libro
affronta alcune delle antinomie che la riflessione su Auschwitz pone –
quella tra storia e memoria per esempio – e affronta con determinazione
il dilemma tra conservazione e innovazione: i chilometri di filo spinato
devono essere sostituiti ogni dozzina di anni. «Qualcuno protesta
sostenendo che non si dovrebbe installare del filo spinato moderno in un
luogo in cui il paradigma è l’autenticità. Invece si può e deve essere
fatto. Diversamente, Auschwitz sarebbe circondata da migliaia di pali di
cemento isolati. I visitatori non capirebbero come le SS avevano diviso
il campo in settori delimitati: si troverebbero davanti soltanto
un’incomprensibile foresta di pali». Diverso il dramma posto dalla
conservazione delle tonnellate di capelli che si vanno deteriorando.
Ipotesi di restauro si sono alternate a quelle di seppellirle: per il
momento si è deciso di conservarle così come sono, senza interventi.
«Credendo fortemente nella potenza evocativa del Luogo stesso sono
convinto che l’opzione più sensata sia il minimalismo. Proprio come il
silenzio è spesso il miglior compagno di una visita».
RITORNA SPESSO
tra le pagine un appello cocente alla conservazione del Luogo senza
trasformarlo in una sorta di parco multimediale sulla Shoah. L’aspetto
didattico, le visite con l’audioguida aiuterebbero una maggiore
comprensione del Luogo? La risposta di Cywinski è decisa: «Le persone
non vengono qui per vedere lo schermo più interattivo del mondo. Se uno
schermo del genere venisse installato intralcerebbe l’esperienza che è
la cosa più importante. Nasconderebbe la verità e per questo dovrebbe
essere rimosso». Resta, almeno, una questione in sospeso: in alcuni
punti di Birkenau sul terreno vi sono piccoli oggetti bianchi che paiono
sassolini. Si tratta di frammenti di ossa. Che farne? Concedere
sepoltura e riposo? Come non comprendere l’angoscia degli ebrei
ortodossi che li vedono? «Le persone si trovano a confrontarsi con un
enorme problema: cosa fare per ossequiare la Legge in un luogo dove è
stata trascurata. In altre parole come normalizzare qualcosa che è
decisamente insolito».
La risposta migliore «è che questo luogo non
deve essere normalizzato. La differenza è tra impossibilità e divieto.
Nessuno ha diritto di normalizzare questo Luogo. Ma non è più una
risposta religiosa. È un’affermazione ideologica».
È possibile
effettuare una sepoltura ma quei resti perderebbero il loro significato:
«Sarebbero arrivate la pace e la quiete; qualcosa di buono nel caso di
altre morti, ma insostenibile qui».