il manifesto 2.9.17
La (nuova) provocazione di Orban
Unione
europea. Il primo ministro ungherese chiede che la Ue paghi la metà dei
costi delle barriere anti-rifugiati, costruite nel 2015 al confine con
la Serbia. Bruxelles ironizza: prendiamo nota che Budapest considera la
solidarietà un principio comunitario. Il 6 settembre è attesa la
sentenza della Corte di Giustizia per la mancanza di solidarietà
dell'Ungheria nel piano di ricollocazione dei rifugiati da Grecia e
Italia.
di Anna Maria Merlo
PARIGI Le provocazioni di Viktor
Orban stanno diventando surrealiste. Il primo ministro ungherese,
giovedi’, ha inviato una lettera al presidente della Commissione,
Jean-Claude Juncker, dove pretende che Bruxelles paghi la metà dei costi
sostenuti dal suo paese per costruire le barriere anti-immigrati
nell’estate del 2015. Una spesa che Orban calcola di 270 milioni di
fiorini, 883 milioni di euro, 440 dei quali dovrebbero essere a carico
della Ue. Una proposta che Orban definisce “ragionevole”, perché “non è
esagerato dire che la sicurezza dei cittadini della Ue è stata
finanziata dai contribuenti ungheresi”. Nella lettera Orban insiste
sulla “qualità” dell’intervento di chiusura, con barriere “made in
Hungary”, video-camere, tecniche per intercettare movimenti, un grosso
investimento high tech, “il nostro paese non protegge solo se stesso ma
tutta la Ue”, contro “l’ondata di immigranti illegali”. Nell’estate
2015, Orban aveva deciso di costruire le barriere al confine con la
Serbia, dopo l’arrivo di circa 100mila rifugiati, che avevano sperato di
transitare per l’Ungheria per raggiungere la Germania e l’Europa del
nord.
Risposta ironica della Ue alla richiesta di “solidarietà” da
parte di Orban: Bruxelles assicura che esaminerà al più presto la
richiesta di Budapest, ricordando che l’Europa “non finanzia costruzioni
di chiusure o barriere alle nostre frontiere esterne”, sottolineando
pero’ di aver “preso nota” che d’ora in avanti l’Ungheria considera la
solidarietà come “un principio importante” nella Ue. L’Ungheria, con la
Polonia, ha rifiutato di partecipare al programma di ricollocamento dei
160mila migranti sbarcati in Grecia e in Italia. La lettera di Orban a
Juncker arriva del resto proprio qualche giorno prima del 6 settembre,
data in cui è attesa la sentenza della Corte di Giustizia Ue su quel
rifiuto (oggi in Ungheria ci sono solo 680 richiedenti asilo).
L’Ungheria potrebbe subire delle sanzioni per essere venuta meno al
principio di solidarietà. Contro Budapest (come contro Varsavia) è stata
più volte evocata la possibilità di far ricorso all’articolo 7, cioè di
sospendere il diritto di voto al Consiglio Ue. In causa sono alcune
decisioni, prese a Budapest come a Varsavia, che limitano i poteri della
giustizia (Polonia) e della Corte costituzionale (Ungheria). Ieri la
Commissione ha ricordato che nella Ue non esiste “un’opzione à la carte,
grazie alla quale si puo’ scegliere un piatto per la gestione delle
frontiere e rifiutarne un altro che riguarda la redistribuzione dei
rifugiati”. Giovedi’ si è anche riunito a Budapest il gruppo di Visegrad
(Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), per far fronte “ai
tentativi della Ue di dividere il gruppo”: a far scattare la reazione
irritata di Visegrad è stato soprattutto il recente viaggio di Emmanuel
Macron nell’Europa dell’est e in Austria. Il presidente francese ha
incontrato i dirigenti cechi e slovacchi, ma ha ignorato ungheresi e
polacchi (con cui c’è stato un braccio di ferro, con accuse da parte di
Varsavia di essere “un giovane presidente inesperto”).
Viktor Orban e
la Fidesz stanno creando un caso di coscienza nella Ue. La Fidesz è
membro del Ppe (partiti popolari), affiliazione che solleva critiche al
Parlamento europeo e nel centro-destra. Orban è abbonato alle
provocazioni, sui migranti ma non solo (si vanta di difendere una
tendenza “illiberale”, è su posizioni nazionaliste estreme, in economia
ha imposto una flat tax al 16% per ricchi e poveri, reprime minoranze e
stampa). Nel 2016 ha per esempio organizzato un referendum sulle
ricollocazioni dei rifugiati, vinto con il 98% di “no”. A marzo di
quest’anno ha continuato con un questionario spedito agli elettori,
intitolato “Fermiamo Bruxelles”.