il manifesto 26.9.17
Alla Spd serve una Bad Godesberg alla rovescia
Germania.
La vera novità prodotta dal responso elettorale non è tanto la
disastrosa disfatta del partito di Schulz, bene o male iscritta in una
tendenza di lunga durata, ma la sua dichiarazione di indisponibilità
alla riedizione della Grosse Koalition, storico salvagente della
stabilità politica tedesca
di Marco Bascetta
«La
Germania ha bisogno di un governo stabile e noi glielo daremo». Con
qualche fatica Angela Merkel, alla sua quarta investitura, riuscirà a
mantenere la promessa. Nessuno nel suo partito ha la forza di farle
pagare gli 8 punti percentuali perduti in questa tornata elettorale.
Nemmeno gli alleati bavaresi della Csu che, nonostante abbiano fatto la
voce grossa contro la politica migratoria della Cancelliera e mantenuto
un solido profilo di destra, hanno subito un vero e proprio tracollo e
rischiano di perdere la storica maggioranza assoluta nel Land.
Nondimeno
il caos percepito è molto più grande di quello reale e parlare, come
fanno alcuni, della “fine di un’epoca” è decisamente sopra le righe. La
forte affermazione di Afd, di qualche punto sopra il già spiacevole
responso dei sondaggi, fa effettivamente impressione e non mancherà di
avvelenare il clima sociale del paese potendo contare da oggi anche su
una folta tribuna parlamentare. Tuttavia, per il partito nazionalista e
identitario l’agibilità politica si profila decisamente limitata.
La
destra autoritaria, più o meno nostalgica, nella Repubblica federale, è
sempre esistita. Fin da quando gli alleati posero frettolosamente fine
al processo di denazificazione con lo scoppio della guerra fredda.
Acquattata nelle fila della Cdu, soprattutto in quelle della Csu guidata
dal sanguigno Franz Josef Strauss.
O presente nei ministeri,
nella magistratura, nell’impero mediatico di Axel Springer, non ha mai
mancato di influenzare la vita politica tedesca. In tempi più recenti
anche nella Spd si annidavano posizioni nazionaliste e xenofobe che non
hanno nulla da invidiare all’AfD. Basti pensare al senatore berlinese
Thilo Sarrazin, autore di best seller ultraidentitari e antislamici.
Essendosi
resa visibile addensata in un partito del 13 per cento, (grazie anche
al contributo della gente dell’Est, malmenata dalla disciplina della
riunificazione), la destra estrema non si trova tuttavia nella posizione
più agevole per esercitare questa influenza. Già durante i
festeggiamenti della vittoria, AfD minaccia di spaccarsi tra la corrente
“benpensante” e centrata sul “risparmiatore tedesco” di Frauke Petry e
gli arrabbiati nazionalisti radicati nella frustrazione dei cittadini
dell’Est. I “realisti” sanno quanto sarà difficile rompere la solida
conventio ad excludendum che grava su un partito infestato da esagitati
demagoghi e nostalgici dichiarati e prendono da subito distanze che
potrebbero preludere a una scissione.
Spendere ogni energia nel
compito di arrestare l’avanzata di questo fascismo azzoppato e diviso
comporta due conseguenze altrettanto negative. La prima consiste nel
rincorrere alcune tematiche di AfD, in particolare la restrizione del
diritto d’asilo e la chiusura nei confronti dei migranti, tentazione che
serpeggia anche nella Linke (Wagenknecht), spaventata dallo sfondamento
della destra nei suoi bacini elettorali della Germania est. La seconda
nel sottovalutare, in nome della democrazia minacciata, il pericolo che
l’ingresso dei liberali della Fdp nel futuro governo ne rafforzino il
dogmatismo liberista e l’intenzione di sottomettere la politica europea
agli interessi prioritari della competitività della Germania e della sua
rendita finanziaria. Paradossalmente questa eventualità finirebbe col
favorire proprio l’espansione di AfD, e soprattutto delle sue correnti
più radicali, che si intende combattere.
La vera novità prodotta
dal responso elettorale non è tanto la disastrosa disfatta della Spd,
bene o male iscritta in una tendenza di lunga durata, ma la sua
dichiarazione di indisponibilità alla riedizione della Grosse Koalition,
storico salvagente della stabilità politica tedesca. Non è affatto
detto che questa indisponibilità regga agli urti della contingenza, al
richiamo dell’unità antifascista e al culto, assai caro ai tedeschi, del
“senso di responsabilità”. Ma se invece dovesse tenere, richiederebbe
una sostanziale riconversione del partito a una cultura di opposizione
e, se non una vera e propria Bad Godesberg alla rovescia (il congresso
in cui la socialdemocrazia abbandonò ogni residuo marxismo per
convertirsi all’economia di mercato), almeno una decisa abiura
dell’Agenda liberista e antisociale imbastita nel 2003 dal cancelliere
socialdemocratico Gerhard Schroeder, costata al partito milioni di voti.
Non basterebbero più modesti correttivi dei rapporti di classe e
stentate opere di carità a favore dei più disastrosamente disagiati, né
timidi interventi sul mercato del lavoro ben attenti a non scalfire
minimamente i profitti. Si dovrebbero trarre le dovute conseguenze dal
fatto di operare in una società di crescenti diseguaglianze e di
sofferenze sociali, certamente minori che altrove, ma insopportabili in
una economia ricca come quella tedesca. La scelta dell’opposizione per
non lasciarne ad AfD la rappresentanza maggioritaria non può, insomma,
limitarsi alla salvaguardia formale di quello che in Italia fu chiamato
“arco costituzionale”, ma dovrebbe raccogliere le ragioni (non gli
umori) della protesta sociale che ha imboccato la via della destra.
C’è,
tuttavia, da dubitare che la Spd sia pronta a un simile cambio di
rotta. Il suo personale politico è abituato da anni all’amministrazione
dell’esistente e non emerge nessuna figura di leader capace di
intraprendere una decisa svolta. Anche se non possiamo escludere che
questa volta l’intensità del colpo subito imponga di passare dai musi
lunghi a un serio riesame della propria storia politica.