il manifesto 26.9.17
Franco De Felice, una vita dedicata a ricostruire il ’900
Il
tributo dell’ultimo annale della Fondazione Istituto Gramsci. Il
Mezzogiorno, il welfare fra le due guerre, il Pci: questi alcuni dei
temi affrontati
di Francesco M. Biscione
Lo
storicismo, luogo storico e teorico della cultura italiana oggi poco
frequentato, si ripresenta talora in modo inatteso, come una vecchia
talpa. È il caso di Franco De Felice, storico comunista, che di quella
tradizione è stato tra gli ultimi interpreti significativi. La sua vita
(Tufo, Avellino, 1937 – Roma 1997) scorse lontana dai luoghi della
notorietà e del potere. Scrittore denso ma non accattivante, a Bari fu
redattore delle edizioni De Donato e professore universitario, dal 1990 a
Roma. In parecchi lo ricordiamo non solo per l’amicizia e la simpatia
che ispirava la sua figura bonaria quanto rigorosa: a lui si deve
l’individuazione e la problematizzazione di alcuni nodi del ’900 che non
hanno smesso di essere cogenti.
Opportunamente la Fondazione
Istituto Gramsci gli ha dedicato il suo ultimo annale (Franco De Felice.
Il presente come storia, pp. 453, euro 45), affidando a un giovane
studioso di valore, Gregorio Sorgonà, una biografia intellettuale che,
utilizzando anche documentazione inedita, ne traccia un profilo
sufficientemente ampio da rendere comprensibile un vasto percorso.
IL
VOLUME CONTIENE anche un saggio di Ermanno Taviani sulle letture di
Gramsci e di Togliatti e una parte antologica incentrata sulla storia
del Pci, con un inedito. Sorgonà ci introduce agli studi sull’imponibile
di manodopera (la tesi di laurea, in giurisprudenza) che si allargarono
rapidamente a Gramsci e al tema del Mezzogiorno. De Felice contribuì
poi alla ricostruzione di aspetti della storia del movimento comunista –
dagli esordi del Pci (Serrati, Bordiga, Gramsci) al VII congresso
dell’Internazionale (1935), al ruolo strategico, italiano e
internazionale, di Togliatti – e ad alcuni approfondimenti sulla storia
d’Europa, come l’origine del welfare tra le due guerre. Su due punti
almeno egli raggiunse sintesi che restano come acquisizioni
storiografiche: l’originale lettura di Americanismo e fordismo (la
modernizzazione novecentesca secondo Gramsci) e l’innovativa
interpretazione dell’età giolittiana.
Né desta stupore
l’accostamento di temi così diversi se si tenga conto che per De Felice
la storiografia era essenzialmente possesso del tema storico, cioè
interpretazione (Michele Ciliberto ha scritto di un nesso permanente
«fra analisi storiografica e problemi storici»). La sua ricerca si fece
più incisiva nella discussione pubblica quando apparve su Studi storici,
in singolare coincidenza con l’inizio dello sfaldamento del blocco
orientale, una riflessione sulla «democrazia bloccata» al tempo delle
guerra fredda (Doppia lealtà e doppio stato, 1989). Era una descrizione
della sovranità nazionale italiana nel dopoguerra in equilibrio tra
tendenze diverse: la Costituzione repubblicana e antifascista e, da un
altro lato, l’alleanza atlantica, imposta dagli equilibri geopolitici e
liberamente accolta dal paese. Nella doppia lealtà alla Costituzione e
all’Occidente si era consumata l’esistenza del Pci, protagonista della
costruzione repubblicana ma non legittimato a governarla in quanto
«geneticamente» collegato (pur in un rapporto in perenne ridefinizione)
al paese guida dello schieramento avversario, l’Unione Sovietica.
Alla
percezione del Pci quale «nemico interno» erano da collegarsi il dramma
di Moro (1978), che aveva inteso rinnovare il quadro politico in base
al progetto costituzionale repubblicano, e lo scandalo P2 (1981), che
aveva mostrato l’installarsi nel potere reale di una classe dirigente
mobilitata per evitare che quell’intendimento avesse esito. Soprattutto
il caso Moro appariva l’evento che segnava un prima e un dopo, la crisi
e, in fondo, il fallimento, della traiettoria comunista ma anche dello
stesso progetto repubblicano.
DOPPIA LEALTÀ e doppio stato era lo
scheletro di un’ipotesi ricostruttiva che suscitò qualche incomprensione
e qualche polemica, ma soprattutto era il tentativo di definire in modo
congruo il nesso tra storia nazionale e violenza eversiva.
Non fu
un affondo episodico. Da quella riflessione gli approfondimenti di De
Felice si svilupparono in varie direzioni mantenendo un fulcro centrale:
la figura di Moro (in una conferenza del 1993 pubblicata postuma); lo
sviluppo e la crisi della nazione, riconsiderata nella dinamica
interno-internazionale (nei due formidabili saggi della Storia
dell’Italia repubblicana di Barbagallo); il tema dell’antifascismo
europeo in relazione più alla sua valenza egemonica che ideologica (in
un volume su Antifascismi e Resistenze, 1997).
La ricerca di De
Felice fu interrotta da una morte improvvisa, ma lo legano ancora alla
nostra età non solo l’elemento metodologico (il coraggio di tentare di
leggere il presente come storia) quanto, e soprattutto, la qualità della
ricerca sulla «crisi della nazione», cioè la riflessione sulla fragile
democrazia italiana, ancora perfettamente dentro la nostra concreta
esperienza esistenziale e civile.