martedì 26 settembre 2017

il manifesto 26.9.17
Franco De Felice, una vita dedicata a ricostruire il ’900
Il tributo dell’ultimo annale della Fondazione Istituto Gramsci. Il Mezzogiorno, il welfare fra le due guerre, il Pci: questi alcuni dei temi affrontati
di Francesco M. Biscione


Lo storicismo, luogo storico e teorico della cultura italiana oggi poco frequentato, si ripresenta talora in modo inatteso, come una vecchia talpa. È il caso di Franco De Felice, storico comunista, che di quella tradizione è stato tra gli ultimi interpreti significativi. La sua vita (Tufo, Avellino, 1937 – Roma 1997) scorse lontana dai luoghi della notorietà e del potere. Scrittore denso ma non accattivante, a Bari fu redattore delle edizioni De Donato e professore universitario, dal 1990 a Roma. In parecchi lo ricordiamo non solo per l’amicizia e la simpatia che ispirava la sua figura bonaria quanto rigorosa: a lui si deve l’individuazione e la problematizzazione di alcuni nodi del ’900 che non hanno smesso di essere cogenti.
Opportunamente la Fondazione Istituto Gramsci gli ha dedicato il suo ultimo annale (Franco De Felice. Il presente come storia, pp. 453, euro 45), affidando a un giovane studioso di valore, Gregorio Sorgonà, una biografia intellettuale che, utilizzando anche documentazione inedita, ne traccia un profilo sufficientemente ampio da rendere comprensibile un vasto percorso.
IL VOLUME CONTIENE anche un saggio di Ermanno Taviani sulle letture di Gramsci e di Togliatti e una parte antologica incentrata sulla storia del Pci, con un inedito. Sorgonà ci introduce agli studi sull’imponibile di manodopera (la tesi di laurea, in giurisprudenza) che si allargarono rapidamente a Gramsci e al tema del Mezzogiorno. De Felice contribuì poi alla ricostruzione di aspetti della storia del movimento comunista – dagli esordi del Pci (Serrati, Bordiga, Gramsci) al VII congresso dell’Internazionale (1935), al ruolo strategico, italiano e internazionale, di Togliatti – e ad alcuni approfondimenti sulla storia d’Europa, come l’origine del welfare tra le due guerre. Su due punti almeno egli raggiunse sintesi che restano come acquisizioni storiografiche: l’originale lettura di Americanismo e fordismo (la modernizzazione novecentesca secondo Gramsci) e l’innovativa interpretazione dell’età giolittiana.
Né desta stupore l’accostamento di temi così diversi se si tenga conto che per De Felice la storiografia era essenzialmente possesso del tema storico, cioè interpretazione (Michele Ciliberto ha scritto di un nesso permanente «fra analisi storiografica e problemi storici»). La sua ricerca si fece più incisiva nella discussione pubblica quando apparve su Studi storici, in singolare coincidenza con l’inizio dello sfaldamento del blocco orientale, una riflessione sulla «democrazia bloccata» al tempo delle guerra fredda (Doppia lealtà e doppio stato, 1989). Era una descrizione della sovranità nazionale italiana nel dopoguerra in equilibrio tra tendenze diverse: la Costituzione repubblicana e antifascista e, da un altro lato, l’alleanza atlantica, imposta dagli equilibri geopolitici e liberamente accolta dal paese. Nella doppia lealtà alla Costituzione e all’Occidente si era consumata l’esistenza del Pci, protagonista della costruzione repubblicana ma non legittimato a governarla in quanto «geneticamente» collegato (pur in un rapporto in perenne ridefinizione) al paese guida dello schieramento avversario, l’Unione Sovietica.
Alla percezione del Pci quale «nemico interno» erano da collegarsi il dramma di Moro (1978), che aveva inteso rinnovare il quadro politico in base al progetto costituzionale repubblicano, e lo scandalo P2 (1981), che aveva mostrato l’installarsi nel potere reale di una classe dirigente mobilitata per evitare che quell’intendimento avesse esito. Soprattutto il caso Moro appariva l’evento che segnava un prima e un dopo, la crisi e, in fondo, il fallimento, della traiettoria comunista ma anche dello stesso progetto repubblicano.
DOPPIA LEALTÀ e doppio stato era lo scheletro di un’ipotesi ricostruttiva che suscitò qualche incomprensione e qualche polemica, ma soprattutto era il tentativo di definire in modo congruo il nesso tra storia nazionale e violenza eversiva.
Non fu un affondo episodico. Da quella riflessione gli approfondimenti di De Felice si svilupparono in varie direzioni mantenendo un fulcro centrale: la figura di Moro (in una conferenza del 1993 pubblicata postuma); lo sviluppo e la crisi della nazione, riconsiderata nella dinamica interno-internazionale (nei due formidabili saggi della Storia dell’Italia repubblicana di Barbagallo); il tema dell’antifascismo europeo in relazione più alla sua valenza egemonica che ideologica (in un volume su Antifascismi e Resistenze, 1997).
La ricerca di De Felice fu interrotta da una morte improvvisa, ma lo legano ancora alla nostra età non solo l’elemento metodologico (il coraggio di tentare di leggere il presente come storia) quanto, e soprattutto, la qualità della ricerca sulla «crisi della nazione», cioè la riflessione sulla fragile democrazia italiana, ancora perfettamente dentro la nostra concreta esperienza esistenziale e civile.

Il Fatto 26.9.17
La “Rivelazione”: punto di partenza (duplice) delle religioni monoteiste
Torna in libreria “Veli d’Occidente” di Rosella Prezzo. La trasformazione di un simbolo da una doppia prospettiva
La “Rivelazione”: punto di partenza (duplice) delle religioni monoteiste
di Pietrangelo Buttafuoco


Il velo è rappresentazione. Eppure il velo ri-vela. Torna in libreria Veli d’Occidente, la trasformazione di un simbolo. È la riedizione aggiornata di un saggio di Rosella Prezzo uscito nel 2008 per le Bruno Mondadori, con il quale la casa editrice Moretti & Vitali (euro 14,00) consente all’autrice di riproporre una tematica di grande impatto da una duplice e originale prospettiva.
Una storia dell’evoluzione di questa tradizione, oggi che se ne ha solo una conoscenza distorta e riferita esclusivamente a un Oriente, infatti incontra un’importanza: la costruzione dell’identità femminile, anche occidentale.
Non è solo un esotismo d’Oriente, il velo. È anche Occidente. Sulla scia dei fatti di sangue riferiti al fondamentalismo islamista – e del gigantesco fenomeno dell’immigrazione – il velo come sinonimo di diversità, vero e proprio feticcio nel solco di Totem e Tabù, ha anche un suo specialissimo destino atlantico.
Ri-velo alla lettera vuol dire “nascondo doppiamente”. Nell’accezione comune è il manifestarsi dell’entità divina al mortale che non ha altro ruolo che l’accettazione o, l’adorazione.
Il Dio che si rivela a Mosè è velato. È ontologicamente impossibile non interporre una barriera tra il divino e l’umano. Anche il Dio di Eraclito d’Efeso – una divinità preesistente alle sette abramitiche, fuoco sacro dell’ur-Monotheismus – parla “per accenni, nascondendosi”.
Prezzo segnala in questo suo saggio come per le due religioni monoteistiche universali – e cioè il cristianesimo e l’islam – e quindi anche per l’ebraismo, che è la religio di un solo popolo, il termine Rivelazione è punto di partenza, con duplice significato. L’Arca del Tempio è separata da un velo che mostra i confini del sacro e lo isola dal profano. E così il sacrificio della croce che squarcia il velo avvicina il divino all’umano che si fa corpo, velo trasparente. L’amore di Cristo permette di aver fede nella resurrezione dei corpi.
Nel Corano si dice: “Non è stato dato a un mortale che Allah gli parli se non per rivelazione o dietro un velo”.
Prezzo ricorda un noto episodio della vita del Profeta. Abitato dalle apparizioni divine, convinto di essere preda della propria follia, Maometto è confortato dalla moglie Khadija cui confida la propria preoccupazione. Toltasi il velo, la donna chiede se l’apparizione sia ancora presente, ricevuto dallo sposo un diniego, si convince prima di lui della veridicità delle apparizioni: solo il demone avrebbe irriso la visione della capigliatura femminile, mentre il divino mostra rispetto.
Il nubere latino da cui il termine nozze vuol dire velare. Descrive la sacra unione primordiale tra Zeus e Ctonie. C’è lo svelarsi della sposa che riceve il dono dello sposo: il suo mantello intessuto da firmamento, Terra e Oceano.
Il viaggio occidentale è approdo di filosofia. Platone ne fa un cammino verso la verità. Il desiderio è bussola all’uomo che con l’energia erotica perviene alle vette della conoscenza. L’Iper-uranio è il mondo oltre il cielo.
Giordano Bruno e Sartre si affidano al mito greco di Atteone: il cacciatore che trova la radura nel fitto del bosco in cui Diana fa il bagno nuda. La verità si disvela – la boscaglia si apre nella radura – la verità si mostra all’uomo.
Nietzsche si adopera nel rovesciamento di senso: ciò che è bene diviene male, ciò che male diviene bene. La verità è nella non-verità, il senso della vita è che non ha senso, dunque non c’è proprio nulla da svelare. Il tentativo di pervenire alla verità come autenticità è il “disperato e patetico tentativo di raggiungere un fondo, un retro-mondo con la pretesa di rispecchiarsi in esso”. Un retro-mondo, va da sé, velato.

La Stampa 26.9.17
Cercando Dio tra psicanalisi ed ebraismo
di Bruno Quaranta


Era solito ricordare Karl Barth che l’unico problema ecumenico è il rapporto con gli ebrei. Se non è impostato correttamente, non si possono risolvere i problemi tra i cristiani. Una convinzione, quella del teologo e pastore svizzero, anche di Carlo Mario Martini, fra gli interlocutori, con il rabbino Laras, di Stella Bolaffi Benuzzi, psicologa e psiconalista freudiana, un’infanzia mai dimenticata «tra leggi razziali e lotta partigiana», come spiega il sottotitolo della sua autobiografia La balma delle streghe.
Ridammi vita (Salomone Belforte & C., pp. 241, €20), la nuova opera di Stella Bolaffi Benuzzi, è un excursus (dai Salmi di Davide a una visione etica contemporanea) memore della tesi di laurea discussa con Augusto Guzzo. L’epigrafe ideale di questo dialogo ebraico-cristiano è scolpita sulla tomba di Carlo Mario Martini, nel Duomo di Milano, Salmo 119: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino». Stella Bolaffi Benuzzi è, della Parola, un’ostinata custode e testimone, interpretando la vita come un «libro delle interrogazioni», mai appagata, sempre incardinata nell’inquietudine biblica: «A che punto è la notte?».
La psicoanalisi non mira forse - come Stella Bolaffi Benuzzi rammenta (e come sa Papa Bergoglio, a suo tempo paziente di un’analista ebrea) - «a estrarre il paziente dallo Shèol, cioè dal vallone biblico dei defunti, dal suo oscuro mondo interno e riportarlo alla luce, all’amore per la vita»?
«I Salmisti ci hanno trasmesso l’impegno ad ascoltare la voce della coscienza per poter perseguire la serietà etica nella vita», spiega Stella Bolaffi Benuzzi. Una verità che respira nei documenti conciliari: «La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio». La coscienza, la voce giudicante della coscienza, il Super Ego freudiano in lotta con l’istintuale Es...
«La coscienza costretta a ritornare sempre più spesso al suo Signore per ritrovarsi»: è nel solco del «maggiore» Augusto Guzzo che Stella Bolaffi Benuzzi tesse il suo filo.

Repubblica 26.9.17
Dietro il tedio che spesso ci coglie c’è solo depressione o anche creatività?
Dalle ore di scuola a Moravia e Pascal il segreto della noia
di Marco Belpoliti


«Ora di lezione: Drin drin drin/ Disciplina!/ Concentrazione!/ L’insegnante!/ Ancora 35 minuti/ Ancora 34 minuti/ Ancora 32 minuti (...) / Numeri, date, concetti!/ Incomprensibile/ Ancora 20 minuti/ Ancora 19 minuti/ (…) Il tempo diventa come una gomma da masticare/ Ancora 3 minuti/ Ancora 2 minuti. Ancora 1 minuto/ Aahh!/ La prossima ora ti attende!». La poesia di un liceale tedesco, riportata da un sociologo, rende bene il tempo scolastico: non passa mai.
Nonostante l’impegno degli insegnanti, a scuola ci siamo annoiati tutti. Per fortuna adesso c’è il cellulare con cui affrontare quella che Heidegger chiama la “noia occasionale”, che colpisce quando il tempo degli orologi e il tempo vissuto non coincidono, ovvero spessissimo. La ministra dell’Istruzione, che viene da una vita di estenuanti riunioni sindacali, deve conoscere bene il potere distruttore della noia, altrimenti non avrebbe proposto di usare gli smartphone in classe per vivacizzare le lezioni. Dopo questa riforma probabilmente non ci saranno più poesie come quella dello studente. Tutti chini sullo schermo a inseguire il mondo là fuori: amici, genitori, siti, canzoni, youtube, tutto sarà a portata di dito, se non lo è già, dato che nelle classi il cellulare c’è.
La noia s’aggiorna? Heidegger, che di questa tonalità affettiva se ne intendeva, tanto da farne uno dei fondamenti della sua filosofia alla pari dell’angoscia, aveva in serbo due altre nozioni: la noia non-occasionale e la noia profonda. La prima è quella che ci colpisce quando, dopo una cena con amici, ci sentiamo di aver perso tempo: una sensazione di non-so-cosa sgorga dal nostro intimo. La seconda, più radicale, «va e viene nelle profondità dell’esserci, come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi in una strana indifferenza».
Questa è la noia che ci rivelerebbe a noi stessi e ci porrebbe, a detta di Heidegger, la domanda fondamentale: perché c’è qualcosa e non il nulla? Provare la noia radicale ci trasforma in filosofi? Non è lontano dal vero, se Wittgenstein nel Tractatus ha detto che un problema filosofico ha questa forma: «Non riesco ad orientarmi». Da cui si capisce che la noia, come nel caso della poesiola del liceale, apre al pensiero, alla riflessione, ovvero alla filosofia. Però questo non accade sempre. In effetti non è facile muoversi dentro quella “nebbia silenziosa”, come sa bene Dino, il protagonista della Noia (1960) di Alberto Moravia, che all’inizio del romanzo parla anche lui della noia come di una nebbia, e pure Unamuno, che ha intitolato un suo libro narrativo Nebbia (1914), dove racconta il “male di vivere”. Cos’è esattamente la noia? Insoddisfazione, senso di vuoto, indifferenza, disinteresse, tedio, pigrizia, sono alcuni degli stati d’animo prodotti dalla noia. Il tempo non passa mai, e si prova un senso d’insensatezza, un dispiacere incomprensibile. A lungo non si è distinta la noia dalla malinconia e dalla depressione; gli psichiatri hanno identificato la noia con molto ritardo rispetto ad angoscia e ansia, mentre era già chiaro ai Padri della Chiesa che la noia era uno stato patologico, per loro provocato da un demone: il Demone meridiano. Il monaco che nella sua cella invece di leggere le sacre scritture, pregare o meditare, si distrae e infine mette il libro sotto il capo e s’addormenta, è preda dell’accidia, che è l’antenato della noia. “Accidia” sta per “senza cura”: indolenza, ignavia, pigrizia, prosciugamento di ogni forza spirituale. “Noia” viene, come il francese ennui, dal provenzale enoja e prima dal latino inodiare, cioè in odio habere. La noia è «ciò che tiene in sospeso e tuttavia lascia vuoti».
Come gli studenti sanno bene è il tempo quello che non scorre mai della noia. Non è colpa degli insegnanti; ci mancherebbe altro! Il vero problema è il tempo. Il tempo che passa, insieme con il senso stesso del nostro esistere, domande imprescindibili: chi siamo? cosa ci facciamo qui? Pascal è stato il primo che ha capito come stavano le cose, collegando l’accidia dei monaci alla noia dell’uomo moderno. La noia è un sentimento ontologico, riguarda cioè la natura stessa dell’uomo, il suo “essere”, o invece è un sentimento legato alla storia sociale? Entrambe le cose, si direbbe. Goethe ha detto una volta che ciò che distingue gli uomini dalle scimmie è proprio la noia. Ma è anche vero che la noia è diventata un problema sociale con la nascita dello Stato assolutistico francese, quando la nobiltà fu privata dei suoi compiti politici e giuridici per diventare una classe che s’annoiava. La noia sorge là dove c’è una condizione economica favorevole, legata al privilegio economico, dicono i sociologi. Le classi povere, i proletari, non s’annoiano; si disperano piuttosto. La noia come patologia del benessere?Probabile.
C’è poi un altro fattore che è legato allo sviluppo delle nostre società postmoderne: la fine del lavoro manuale tradizionale, la crescita del tempo libero, l’imporsi della “società delle emozioni” con la ricerca di sensazioni sempre più forti. La noia tallona da vicino l’uomo contemporaneo insieme all’ansia, alla depressione e all’angoscia, sue sorelle. «Sono annoiato/ Sono annoiato/ Sono il presidente degli annoiati/ Sono stufo di tutti i miei divertimenti/ Sono stufo di tutte le bevute/ Sono stufo di tutti i cadaveri», canta Iggy Pop in
I’m bored. L’emblema contemporaneo della noia è Andy Warhol. Nei suoi diari, uno dei libri più noiosi del mondo, compare sovente la parola boring. «Mi piacciono le cose noiose», ha detto una volta Warhol. E tuttavia proprio con la noia è riuscito a fare arte, un’arte adeguata ai nostri tempi: estetica, ripetitiva, banale e insieme sorprendente.
Perché c’è un’altra noia ancora, la noia creativa. Se non ci si annoia da ragazzi, non si diventa artisti o scrittori? Probabile. Questa è un’altra storia ancora. Leopardi ha scritto: «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani».

il manifesto 26.9.17
Quel sasso nello stagno lanciato da Pietro Grasso
Habemus Corpus. Dopo Noemi, 16 anni uccisa dal fidanzato, Elena, 48 uccisa dal marito, e poi ancora le violenze sessuali di Rimini, Firenze, Catania, Roma, a un uomo che è anche la seconda carica dello Stato è sembrato impossibile tacere
di Mariangela Mianiti


Dopo Noemi, 16 anni uccisa dal fidanzato, Elena, 48 uccisa dal marito, e poi ancora le violenze sessuali di Rimini, Firenze, Catania, Roma, l’omicidio di Nicolina, la quindicenne di Ischitella uccisa dall’ex compagno della madre per vendicarsi del fatto che lo aveva lasciato, a un uomo che è anche la seconda carica dello Stato è sembrato impossibile tacere. E così Pietro Grasso, presidente del Senato, venerdì scorso ha detto le seguenti parole.
«A nome di tutti gli uomini ti chiedo scusa. Finché tutto questo verrà considerato un problema delle donne, non c’è speranza. Scusateci tutte, è colpa nostra, è colpa degli uomini, non abbiamo ancora imparato che siamo noi uomini a dover evitare questo problema, a dover sempre rispettarvi, a dover sradicare quel diffuso sentire che vi costringe a stare attente a come vestite, a non poter tornare a casa da sole la sera. È un problema che parte dagli uomini e solo noi uomini possiamo porvi rimedio. Tutto ciò che limita una donna nella sua identità e libertà è una violenza di genere. Non esistono giustificazioni, non esistono attenuanti, soprattutto non esistono eccezioni. Finché tutto questo verrà considerato un problema delle donne non c’è speranza».
Viene da dire: «Finalmente. Bravo». E adesso? Adesso che un’autorevole voce istituzionale ha detto che il problema è degli uomini e non delle donne non ci sono più scuse per evitare il nocciolo della questione. Sono gli uomini a dover cominciare un lungo percorso di riflessione, discussione da soli e fra loro e ricostruzione del sè. Ovvio che la maggioranza non è così, ma finché non saranno gli uomini a prendere per gli stracci altri uomini, a dire che una relazione non è un esercizio di potere, che i corpi vanno amati e non usati o soppressi, finché ci saranno padri che danno esempi malsani, finché la cultura virilista striscerà nelle case, nelle famiglie, sui social, nelle amicizie, nel linguaggio, nella pubblicità, nei mezzi di informazione, nella politica, e finché di fronte a ciò si continuerà a far finta di niente, come dice Grasso: «Non c’è speranza».
Pochi giorni fa ho incontrato in un bar di Milano un gentile signore. Non ci conoscevamo, eppure abbiamo cominciato a chiacchierare proprio della violenza contro le donne. Quando gli ho espresso il mio pensiero, lui mi ha risposto: «Va bene. Ma come si fa? Come facciamo?». Gli ho risposto: «Come hanno fatto le donne con il femminismo. Si sono riunite, parlate, sono scese in strada, hanno riflettuto, scritto, protestato, lottato, preteso. Hanno messo in discussione rapporti personali e pubblici, hanno smontato un sistema di relazioni incancrenito e opprimente, insomma hanno fatto una rivoluzione. Se davvero non vi va bene questo andazzo, fatela anche voi una rivoluzione».
Mi ha guardato con sconcerto, poi ha aggiunto: «Però è vero che molte donne sono diventate dure e pretenziose, cercano solo quelli ricchi e vincenti, ci usano come bancomat e ci umiliano». Ha espresso frustrazione, probabilmente per situazioni personali, e proprio qui sta la chiave del problema. Quel che ha detto sarà anche vero per lui ma, invece di entrare nel merito, ha svicolato cambiando il punto di vista, ha spostato la visuale. Ci vuole molta voglia e determinazione per mettersi in discussione perché cambiare costa fatica. Quanti davvero lo vogliono? Quanti sono davvero disposti a osservare il proprio orticello? Quanti, dopo essersi indignati per le efferatezze altrui, sorvolano su peccati e abitudini personali? Pietro Grasso ha gettato un sasso nello stagno. Smuovere quell’acqua non sarà facile, ma non c’è alternativa.

Il Fatto 26.9.17
L’ospedale di “Mr. Unità” costa già 10 milioni in più
I lavori - L’opera è gestita dal gruppo Pessina, che fu chiamato a “salvare” il giornale Pd e poi ha sostenuto i candidati di Toti
di Ferruccio Sansa


Dieci milioni e mezzo più del previsto. E non è nemmeno ancora stato costruito.
È il record dell’ospedale Felettino di La Spezia. Un’opera ormai mitica: lustri e lustri di attesa. Dieci anni per arrivare a una gara con un unico partecipante: un raggruppamento di imprese che comprende Coopservice e Gruppo Psc ed è guidato dal gruppo Pessina. Quello dell’Unità.
Infine inaugurazioni a raffica sempre nei periodi elettorali. E polemiche – quante polemiche! – sempre sul filo della politica: un ospedale prima etichettato di centrosinistra e poi di centrodestra. Se ne parla così tanto, ma poi se vai a vedere… sorpresa, trovi soltanto una spianata vuota.
Eppure i costi stanno già lievitando. E dire che si parte già da 175 milioni. Ma, come ha scritto ieri Il Secolo XIX, le imprese costruttrici hanno presentato 10 milioni di ulteriori “riserve”. In gergo tecnico sono le spese urgenti che sono state affrontate e che non sarebbero state previste nel capitolato d’appalto. Non basta: ci sono altri 610.742 euro di varianti. Una per salvare ed espiantare l’altare policromo in gesso di Villa Cerretti, una residenza ottocentesca abbattuta senza tanti complimenti per far posto all’ospedale. Se mai arriverà.
Insomma, non si vede ancora una parete all’orizzonte eppure stiamo già volando verso i 190 milioni. Intanto La Spezia, una città di centomila abitanti, aspetta ancora un ospedale degno di questo nome, con i malati che spesso preferiscono emigrare nella vicina Toscana.
Eppure da queste parti se ne parla forse da prima che fossero inventati gli antibiotici. Poi nel 2004 la prima offerta saltata, ricordano le cronache, perché la commissione di gara non era stata correttamente formata. Poi infiniti tiramolla, anche perché l’appalto fa gola: 175 milioni interamente pubblici. Di questi 119 provenienti dal ministero della Salute, mentre il resto arriverà dalla Regione Liguria e gli ultimi 25 milioni come permuta in base alla valutazione del vecchio ospedale che passa ai privati.
La firma del contratto d’appalto arriva nella primavera del 2015 e parecchi in Liguria storcono il naso. Mancano pochi giorni alle elezioni regionali con il centrosinistra – rappresentato dalla spezzina Raffaella Paita – che annaspa. Ma non basterà l’annuncio per evitare la débâcle. A sparare le critiche più grosse è proprio l’allora candidato di centrodestra, Giovanni Toti, poi vincitore: “È singolare che a pochi giorni dal voto si firmi un appalto da centinaia di milioni per la realizzazione di un nuovo ospedale. E che il gruppo che lo realizzerà, unico a presentare l’offerta, sia, guarda caso, il maggiore titolare delle quote dell’Unità, giornale che il segretario del Pd e premier Matteo Renzi si è preso l’impegno di salvare. Sarà tutto certamente regolare, ma lascia perplessi”.
Il gruppo Pessina ha sempre smentito ogni tipo di collegamento tra l’acquisto del quotidiano Pd e l’aggiudicazione dell’appalto: “C’è stata una regolare gara e noi l’abbiamo vinta in base all’offerta migliore. Abbiamo una competenza riconosciuta in questo campo”.
Ma nel frattempo tanta acqua – e tanti voti – sono passati sotto i ponti: Toti e i suoi hanno vinto in Liguria, poi a Savona, infine a Genova e proprio La Spezia. Insomma, hanno in mano la regione con il Pd che si scanna (a La Spezia ha dominato la scena la guerra all’arma bianca tra “seguaci” della renziana Paita e dell’altro spezzino eccellente, Andrea Orlando).
Intanto alla cena per raccogliere fondi per il candidato sindaco genovese Marco Bucci viene annunciata la presenza di Guido Stefanelli, amministratore delegato della società che controlla l’Unità e del gruppo Pessina. Il boss del giornale fondato da Antonio Gramsci accanto al candidato di Pdl-Lega e Fratelli d’Italia.
Nel corso degli anni gli annunci di posa di prime pietre si sono sprecati: nel 2004 viene annunciato l’inizio dei lavori con la consegna del nuovo nosocomio entro il 2007. Non se ne fa nulla. Poi altri annunci a pioggia dal 2008 al 2014. Nel 2015 ecco la promessa che l’ospedale sarà pronto nel 2019.
Fino a pochi mesi fa: ottobre 2016. Altro annuncio a pochi mesi dalle elezioni comunali, vinte anche queste dal centrodestra, e soprattutto dal referendum costituzionale che spacca l’Italia.
Ma gli spezzini ormai hanno cominciato a disperare. Le malattie, purtroppo, non aspettano i tempi delle grandi opere.
Gli unici che sembrano crederci ancora sono alcuni primari che, si dice, a ogni annuncio cominciano a sgomitare, a telefonare a segreterie di partito e Asl per candidarsi a dirigere reparti inesistenti.

Il Fatto 26.9.17
In Germania i nazisti sono ritornati nel Bundestag
di Furio Colombo


Caro Furio Colombo, dunque ci eravamo illusi o ci hanno ingannato con bravura. Ma all’improvviso, come in un film horror, ecco 100 deputati nazisti seduti ai loro posti guadagnati nel Bundestag con milioni di voti, nazisti senza travestimenti, finzioni o nostalgie, pronti a governare.
Gianluigi

“Tutta vele e cannoni una nave nel porto arrivò”, sono i primi versi della “Ballata di Mahagonney di Bertolt Brecht e Kurt Weill, due esuli tedeschi che hanno raccontato in modo indimenticabile come comincia la tragedia della espropriazione di dignità e libertà.
La nave è arrivata di nuovo e ha sbarcato l’altroieri 100 deputati nazisti nel Bundestag che è stato la casa e il governo di Willy Brandt, il cancelliere tedesco che si è inginocchiato davanti ai morti della Shoah.
“Sono orgoglioso di quello che hanno fatto i soldati tedeschi nelle nostre guerre” ha detto Alexander Gauland, leader dei nuovi nazisti. E il suo trionfo ci lascia con costernazione, disorientamento, paura. E due domande. La prima: i tedeschi (intellettuali, media, politici) ci hanno ingannato (o si sono autoingannati)?
La seconda: come si riorganizzeranno i camerati italiani, specialisti di camuffamento e celebri per la prima frase di ogni impresa, spedizione o proclama xenofobo (“noi non siamo razzisti!”)?
Quanto alla prima domanda, esperti e presunti esperti ci raccontano la storia ormai nota (vedi Trump) degli arrabbiati e dimenticati dai radical chic (troppo occupati dall’antifascismo dei salotti) senza spiegare perché il nazismo arriva (ritorna) adesso, nella solida Germania, dopo la fine della lunga crisi europea e in un momento di grande benessere.
La seconda domanda riguarda i camerati italiani. Cento tedeschi eletti come nazisti che subito alzano senza vergogna la loro bandiera nazional-razzista, come pirati giunti finalmente in porto, sbugiardano il fascismo sommerso italiano, costruito su bugie e finzioni (la tratta degli esseri umani per non dire fuga dalla morte, chiusura delle frontiere per non dire respingimento, immigrazione clandestina per non dire trattato di Dublino).
Casa Pound e Forza Nuova, Fratelli d’Italia, ronde notturne e i camerati della Lega potranno anche gioire della vittoria stupefacente dei camerati tedeschi, ma dovranno ammettere che non hanno avuto il coraggio di quella clamorosa dichiarazione di militanza razzista che praticano ma negano, fingendosi inflessibili solo con la violazione della legge (che però è la Bossi-Fini che include il reato impossibile di immigrazione clandestina e l’aggravante di clandestinità in una condizione in cui nessuno può o vuole nascondersi).
Passato l’entusiasmo, i camerati italiani dovranno inventarsi una strategia che li metta all’altezza dei camerati tedeschi. Alcuni di loro, se hanno letto qualcosa, sapranno che in passato sono sempre stati un po’ disprezzati

Corriere 26.9.17
Il «forgotten man» è anche tedesco
Cresce la povertà (come in America)
di Federico Fubini

Nel Paese un livello di concentrazione di ricchezza inferiore solo agli Stati Uniti
«Il maestro sta incontrando qualche problema», osservò il vicepremier cinese Wang Qishan nel pieno della crisi finanziaria americana del 2008. Da un paio di giorni, parole del genere devono ronzare nella testa di chiunque dalla Casa Bianca guardi ai risultati delle elezioni in Germania. Anche il maestro tedesco, celebre nel garantire il benessere dei ceti medi e isolare il populismo, aveva visto giorni migliori.
Il sistema al quale molti guardano come un’oasi di stabilità ha scoperto che più di un elettore su cinque preferisce l’estrema destra o la sinistra più radicale. Il centro si è ristretto. Al 22% in totale, il voto anti-sistema resta limitato in confronto a quanto sia accaduto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti o in Francia e anche rispetto a ciò che registrano i sondaggi per l’Italia. Ma sommati, i socialdemocratici e i cristiano-democratici non avevano mai contato così poco nella storia della Repubblica federale tedesca.
La Germania si scopre meno diversa dal resto d’Europa di quanto la stessa Europa sperasse, e le ragioni non mancano. L’enorme flusso di rifugiati del 2015 è sicuramente la causa prossima della protesta, ma non può essere l’unica. Secondo Destatis, l’istituto statistico tedesco, il 2015 in effetti ha registrato il maggiore flusso dall’estero dalla riunificazione; due anni fa sono immigrati in Germania più di 2,1 milioni di stranieri. Ma dal 1991 ne sono arrivati più di 25 milioni e gli ingressi dei primi anni 90 — in un’economia molto più debole di oggi — nel complesso erano più numerosi di quelli registrati in questa fase. Eppure non aveva mai messo piede nel Bundestag un solo deputato di un partito il cui leader si dice «fiero» di come si sono comportati i soldati tedeschi nella seconda guerra mondiale. Domenica ne sono stati eletti quasi cento.
Come negli Stati Uniti di Donald Trump, l’avversione agli stranieri dev’essere dunque anche lo specchio di qualcos’altro. Con un plagio dalla Grande Depressione il presidente americano l’ha chiamato il «Forgotten Man»: l’uomo dimenticato, l’emblema dei ceti medi i cui redditi sono erosi dalle tecnologie e dalle delocalizzazioni produttive verso i Paesi a basso costo, anche quando le statistiche registrano piena occupazione. In Germania, in misura meno drammatica, dev’essersi ripetuto un copione simile.
Durante i governi di Merkel la disoccupazione è scesa dall’11% al 3,8%, ma negli ultimi dieci anni le persone in povertà relativa sono salite dall’11% al 17% del totale. Sotto la guida della cancelliera il bilancio pubblico è passato da un deficit di cento miliardi di euro a un attivo di venti, una gestione così virtuosa da far crollare gli investimenti pubblici fino a relegare la Germania persino dietro l’Italia nelle classifiche sulla banda larga; nel frattempo la quota degli occupati in condizioni di povertà è raddoppiata al 10%. Con Merkel il surplus negli scambi con l’estero ha sfiorato i 300 miliardi, il maggiore al mondo, ma sono raddoppiate a due milioni anche le persone che fanno un doppio lavoro pur di far quadrare i conti. Sotto la cancelliera la crescita è stata costante — benché in media per abitante sia da anni molto sotto all’1% — mentre i pensionati in povertà sono aumentati del 30%. Questo Paese mantiene un welfare esemplare, eppure presenta un livello di concentrazione di patrimoni nelle mani dei ricchi inferiore solo a quello dell’America di Trump.
Certo, meglio essere poveri a Dresda che in Ohio o a Vibo Valentia. È pur sempre una povertà relativa al benessere degli altri e sostenuta da sussidi efficienti. Ma chi ha di meno in Sassonia si paragona al vicino, quello che ha la Porsche in cortile e magari una fabbrica in Polonia che ha cancellato il suo posto di lavoro. Domenica, nelle urne, ha detto ciò che ne pensa.

Corriere 26.9.17
A Ossling uno su due vota l’ultradestra (senza confessarlo) «Via gli stranieri» che però non ci sono
Gli abitanti sono 2.500, zero immigrati
di Elena Tebano


OSSLING (SASSONIA) Il problema più importante per gli abitanti di Ossling sono gli stranieri, ma se si chiede quanti ce ne siano nel paese, la risposta è inevitabilmente sempre la stessa. «Una famiglia di russi, ma stanno qui da vent’anni». Duemilacinquecento abitanti in totale tra le 9 frazioni che compongono il Comune, Ossling si trova a due ore e mezza di macchina da Berlino, nel cuore della Sassonia, il Land dove Alternative fuer Deutschland (AfD) ha ottenuto la percentuale più alta di consensi: 27 per cento, lo 0,1 per cento in più anche della Cdu. Ed è una delle 24 località della regione, per lo più piccoli villaggi, in cui il partito supera il 40 per cento dei voti: lo ha scelto quasi una persona su due.
Il paese conta qualche decina di case raccolte intorno alla grande chiesa evangelica, villini con i giardini curati, la scuola, una casa famiglia per persone disabili, un centro comunitario che nel pomeriggio è chiuso, un campo sportivo e un paio di brutti condomini. Tutto intorno, per chilometri, campi e boschi. Gli elettori di AfD, a cercarli per le poche strade battute da una pioggia leggera, sembrano addirittura più rari degli stranieri.
«Io non l’ho votata, non conosco nessuno che l’abbia fatto», dice un contadino che torna a casa in bicicletta. «Io non sono proprio andata al seggio», aggiunge una giovane madre con il passeggino.
«La gente che ha scelto AfD non lo ammette, anche per noi ieri sera è stato uno choc — spiega Marion Borch, 72 anni, direttrice della scuola privata evangelica del paese—. Io ho votato Spd, perché è un partito di lavoratori, ma li capisco: non si sentono ascoltati dalla politica e al contempo sono poco consapevoli, nessuno di loro è disposto a impegnarsi in prima persona».
Ossling era tradizionalmente un paese di operai: «Qui si estraeva la grovacca, una roccia usata come materiale edile, e si produceva un derivato del carbone — aggiunge il marito Reinhard, 73 anni, ingegnere ed ex ufficiale dell’esercito nella Ddr —. La cava c’è ancora, ma non dà più molto lavoro, in compenso causa un gran traffico di camion».
Nella zona dei condomini popolari, dove secondo i Borch quasi tutti hanno votato AfD, sono in pochi quelli che hanno voglia di parlare. Una coppia sui sessanta che fuma una sigaretta di fronte al portone assicura di non interessarsi di politica, ma che coloro che hanno votato AfD, l’hanno fatto perché non vogliono gli stranieri: «No, non la famiglia di russi che abbiamo qui, che è integrata, ma i rifugiati dei centri di accoglienza».
La prima ad ammettere di aver votato l’Alternative è una loro vicina di casa: è in tuta, ha l’aria di aver bevuto troppo, un piercing con il brillantino sul labbro, dimostra una quarantina d’anni, non vuole dire come si chiama e spiega di avere una pensione di invalidità. «Mi hanno convinta per la politica sull’immigrazione: non voglio avere qui i problemi con i musulmani che hanno nelle città come Berlino e Dresda».
L’unico per cui gli stranieri sono una presenza reale è falegname cinquantenne, con gli occhi chiarissimi, che sta rientrando dal lavoro: «Qui è pieno di frontalieri polacchi e cechi, che vengono a lavorare in giornata e distruggono i nostri salari — spiega —. Io non ce la faccio a vivere con il minimo sindacale, come fanno loro che poi la sera tornano oltre confine».
Il suo, secondo le ricerche di Werner J. Patzelt, professore di Scienze politiche al Politecnico di Dresda e autore di una delle prime ricerche in materia, è il profilo tipico degli elettori di AfD: residenti nei «nuovi Laender» (la ex Ddr), maschi, operai e poco istruiti, spesso ex astensionisti. «La fiducia nel sistema politico, fin dalla riunificazione, nei nuovi Laender è molto più bassa che a Ovest e i partiti tradizionali sono meno radicati — spiega Patzelt —: per questo è molto più diffuso il voto di protesta. Inoltre la maggioranza dei tedeschi dell’Est non vuole una società multiculturale come quella dell’Ovest». A dire no agli stranieri sono soprattutto coloro che, cresciuti all’interno della Cortina di Ferro o nelle zone più rurali, gli stranieri finora non li hanno mai incontrati.

La Stampa 26.9.17
Berlino, eletta una legione di xenofobi e negazionisti
Idee e profili dei deputati dell’estrema destra che entrano nel Parlamento
Così l’AfD sconvolge il Bundestag
Dietro il volto e le idee rassicuranti di Weidel la pattuglia dei duri e puri dall’Est Il leader Gauland accende la polemica: Israele non è un nostro interesse nazionale
di Francesca Sforza


Se la fatica di Angela Merkel nel gestire la sua fragile vittoria sarà segnata nei prossimi giorni da trattative e negoziati all’insegna del più raffinato tatticismo politico, quella che aspetta la dirigenza del partito di estrema destra Afd - gli altri vincitori di questa tornata elettorale tedesca - sarà gestire la coabitazione fra due anime, di cui una smaccatamente xenofoba e negazionista. Il fatto di aver rastrellato consensi un po’ ovunque - tra i razzisti e i semplici scontenti, tra i violenti e gli impauriti, tra i transfughi e i traditi - rischia infatti di tramutarsi in un boomerang.
I primi segni del caos ci sono stati ieri mattina, quando a sorpresa, con una mossa a effetto da tempo meditata, la capogruppo al Bundestag Frauke Petry ha annunciato le sue dimissioni, pur restando all’interno del partito: «Credo che non stiamo rispondendo, nei contenuti, al mandato dei nostri elettori, che ci chiedono di guardare al futuro in modo costruttivo, non al passato». Il volto più borghese e rassicurante dell’Afd - un passato come funzionaria nella Stasi di Lipsia, madre di cinque figli, fautrice di una destra più conservatrice che estremista - ha dunque deciso di prendere le distanze dalla coppia Gauland-Weidel, non senza averli accusati di accarezzare la parte peggiore del loro elettorato. E non sbaglia, in certo modo, quando dice che «se i toni non fossero stati così esasperati in campagna elettorale, avremmo preso il 20 per cento, mentre così abbiamo spaventato molte persone». A spaventarli, soprattutto, i toni negazionisti e xenofobi che hanno nutrito, per tutta questa campagna elettorale, il sottobosco dell’elettorato Afd.
Lo scontro di ieri è solo l’inizio, perché le dimissioni di Petry non erano ancora state digerite, che già Alexander Gauland - 76 anni, un passato nella Cdu, oggi candidato di punta Afd insieme a Alice Weidel - interveniva su Israele con un discorso tanto contorto quanto inquietante: «Certo che siamo al fianco di Israele - ha detto - ma è discutibile il fatto che il diritto di Israele a esistere sia un principio della ragion di Stato tedesca. Se così fosse dovremmo essere pronti a usare il nostro esercito per difendere Israele, e siccome in Israele c’è una guerra continua, ecco mi sembra privo di senso». Immediate le proteste del Consiglio centrale degli ebrei in Germania: «Purtroppo le nostre paure sono diventate realtà», ha detto il presidente Joseph Schuster.
Lo ripetiamo, lo scontro fra l’anima presentabile e quella impresentabile dell’Afd è solo all’inizio. E una conferma viene dalla lista degli oltre 90 eletti che dalla prossima seduta fino al 2021 siederanno in Parlamento. Se tra i «presentabili» c’è Beatrix von Storch, candidata a Berlino, che ammira i Tea Party e vorrebbe una squadra di calcio senza stranieri, al suo fianco c’è Wilhelm von Gottberg, ex poliziotto, ex Cdu, che oggi ha 77 anni, vive in Bassa Sassonia e ritiene un «mito» lo sterminio di massa degli ebrei da parte dei nazisti: «L’Olocausto - disse una volta - è un dogma che dovrebbe essere lasciato fuori da qualsiasi ricerca storica». Un altro che vorrebbe iscrivere la Shoah nel capitolo «acqua passata» è Jens Meier, giurista, candidato a Dresda, che tra le sue affermazioni più note registra quella secondo cui «i tedeschi dovrebbe finirla con questo culto della colpa».
Vicino a personaggi rozzi come questi, ci sono anche figure più stilizzate, tra cui spicca Armin-Paul Hampel, 60 anni, alta borghesia della Sassonia: ama presentarsi come viaggiatore e conoscitore delle cose del mondo - è stato corrispondente per il canale televisivo Ard dal Sudest asiatico fino al 2008 - e si è ritagliato negli anni il ruolo di mediatore e consulente per varie imprese commerciali tra India e Germania. Grazie a un passato nella marina, Hampel ha molti buoni amici tra gli alti gradi delle gerarchie militari, altro bacino elettorale dalle tonalità nostalgiche che guarda con interesse alle politiche dell’Afd. E che dire dello storico Stefan Scheil, teorico delle ambizioni militari della Polonia, che avrebbe per questo iniziato la guerra contro la Germania, e che oggi si erge a «eterna vittima»?
Tra i più anziani c’è poi Detlev Spangenberg, 73 anni, nato nella Ddr, arrestato durante un tentativo di fuga verso l’Ovest, riesce infine a trasferirsi in Nordreno Westfalia, dove si iscrive alla Cdu. Dopo la caduta del Muro decide di ritornare all’Est, dove partecipa al gruppo estremista «Lavoro, Famiglia, Patria», che ha tra i suoi principi ispiratori l’odio per i musulmani e il ripristino dei confini tedeschi al 1937. Una lunga lista di curriculum pasticciati e sgangherati, quella dei parlamentari Afd, che risponde alla confusione presente nel loro elettorato: in parte violento, in parte inconsapevole, in altra parte ancora spregiudicato e avventuriero. E che adesso, a dispetto di tutto, entrerà a pieno titolo nel patrimonio politico tedesco.

il manifesto 26.9.17
AfD, dopo il botto la prima spaccatura. Lascia la «moderata» Frauke Petry
Xenofobi in parlamento. Contro «la linea di estrema destra», l’ex leader del partito populista cambia gruppo parlamentare
di Guido Caldiron


Quasi 6 milioni di voti, pari al 12,6%, e ben 94 eletti. Numeri che ne fanno il terzo partito del paese alle spalle dell’unione tra Cdu/Csu e della Spd. A soli quattro anni dalla sua fondazione, l’Alternative für Deutschland non ha solo fatto un rumoroso ingresso nel Bundestag, ma ha segnalato con il proprio risultato quali umori traversino una parte importante della società tedesca. Un’affermazione offuscata solo in parte dall’annuncio della rottura definitiva con l’ex leader, Frauke Petry, già sconfitta ad aprile nel congresso di Colonia dall’ala più oltranzista del partito, che ha annunciato che non farà parte del nuovo gruppo parlamentare perché in disaccordo con «la linea di estrema destra» scelta dall’attuale gruppo dirigente.
UNA PROPOSTA POLITICA, fondata su un mix di nazionalismo e xenofobia, di critica al sistema dei partiti e di appello al popolo e all’identità tedesca, che ha però convinto un gran numero di tedeschi provenienti da ambienti diversi, settori sociali spesso agli antipodi, uniti dalla radicalizzazione e dal rifiuto delle forme tradizionali della rappresentanza. Al punto che l’AfD ha realizzato il proprio exploit grazie a un travaso sistematico di voti provenienti da gran parte delle altre forze politiche del paese.
Se la fetta più consistente, 1,2 milioni, arriva da elettori che in precedenza si erano astenuti, a ruota ci sono il milione di voti già andati al partito di Merkel e ai suoi alleati bavaresi della Csu, i 470 mila provenienti dal bacino elettorale della Spd e gli oltre 400 mila della Linke, oltre ai 50mila che si stima provengano rispettivamente da Liberali e Verdi.
Lo stesso si può dire della disposizione geografica dei consensi. In tutte le regioni della ex Germania Est, dove è nata ed è già radicata, la formazione xenofoba è diventata la seconda forza politica locale dopo la Cdu, con percentuali intorno al 21%, mentre in Sassonia, dove oltre al difficile confronto con l’ovest pesano anche le divisioni sociali introdotte dallo sviluppo della cosiddetta Silicon valley locale, specializzata in micro-elettronica, ha addirittura superato i democristiani raccogliendo il 27% dei consensi e diventando così il primo partito. Allo stesso modo però, anche in Baviera, al contrario una delle aree più prospere del paese con un tasso di disoccupazione sotto il 3%, la nuova destra ha raccolto ben il 12,%, mentre il partito-Stato della Csu ha perso d’un colpo oltre 10 punti percentuali. La riprova che l’AfD parla a un pubblico eterogeneo e cerca di intercettare ed offrire ascolto ad ogni sorta di malessere.
LA CAMPAGNA-SHOCK condotta dal ticket per la Cancelleria formato da Alexander Gauland, un avvocato 76enne ex esponente dell’ala più conservatrice della Cdu, partito che ha lasciato in polemica con la linea «moderata» di Merkel e da Alice Weidel, economista 38enne, passata per colossi finanziari come Goldman Sachs, Bank of China e il gruppo Allianz, che vive con una produttrice cinematografica originaria dello Sri Lanka e i loro due figli adottivi, aveva del resto già illustrato la strategia dell’AfD. Estremista e inquietante, ma articolata. Gauland ha strizzato l’occhio a nostalgici e neonazisti, dicendo che i tedeschi devono «essere fieri dei risultati dei nostri soldati durante la Seconda guerra mondiale», mentre Weidel ha fatto appello al nuovo razzismo montante e agli sconfitti della globalizzazione parlando di coloro «le cui vite sono decise da altri», ma soprattutto guidando la campagna anti-Islam del partito, scandita da manifesti con donne in bikini «per dire no al burka», a colpi di dichiarazioni su gay e donne che sarebbero minacciati dalla presenza dei musulmani nel paese.
In sostanza, il mescolarsi di correnti identitarie e estremiste, che lambiscono anche gli ambienti del neonazismo, alla linea nazional-liberale, anti Ue e anti euro, che caratterizzava l’AfD al momento della sua fondazione, come ha ricordato la giornalista dello Spiegel Melanie Amann nel suo Angst für Deutschland (Paura per la Germania), uscito proprio alla vigilia di queste drammatiche elezioni.

La Stampa 26.9.17
Ecco chi ha votato AfD
Operai, maschi, artigiani hanno scaricato Angela. La roccaforte è nell’Est senza profughi
di Letizia Tortello


Alexander ha tra i 30 e i 59 anni, ha fatto le scuole tecniche, è un operaio, un artigiano, un piccolo imprenditore della Sassonia, regione in cui da 25 anni governa la Cdu, il partito di Angela Merkel. Ha uno stipendio ben più alto di un operaio italiano, anche superiore alla media degli stipendi tedeschi. Alle scorse elezioni, nel 2013, non si è neppure mosso da casa per andare a votare, mentre il vicino di pianerottolo era andato a dare il suo voto alla cancelliera. Domenica, invece, alle urne Alexander si è presentato e ha messo la croce sul’AfD, Alternative für Deutschland, l’estrema destra nata solo cinque anni fa come partito anti-euro e che ora ha il volto dell’estremismo xenofobo. In Sassonia ha ottenuto il 27 per cento dei consensi.
Dalle scorse regionali, il voto per l’AfD che vuole riprendersi il Paese e ripulirlo dai migranti è triplicato. Se la Merkel domenica ha perso 7 milioni di voti, un milione è finito dritto all’Afd, che soprattutto nell’Est della Germania (dove ci sono pochi profughi) ha strappato anche 470 mila voti ai socialdemocratici dell’Spd e 400 mila alla sinistra della Linke. Ma il merito più significativo del partito populista ed estremista che siederà con 94 deputati nel 19° Bundestag è di aver riportato 1,2 milioni di persone a votare.
Chi sono? «Per il 61% sono persone che hanno dato un voto per protesta». Gli elettori dell’AfD, «non solo in Sassonia - spiega il politologo Gero Neugebauer - sono cittadini che vivono mediamente in condizioni precarie. Molti si sentono perdenti o minacciati, anche se non possono dirsi poveri, sono anche mediamente istruiti. Ma hanno paura di perdere il loro status sociale». L’AfD ha colpito nel segno e ha offerto un’alternativa. «Ha costruito un quadro rassicurante della società, offrendo l’appartenenza a un popolo e a una nazione senza minacce esterne, prima di tutto fatta di tedeschi autoctoni». O per dirla con l’analisi post-voto del quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, «si è creato un grande divario tra i partiti tradizionali, gli elettori che hanno scelto l’AfD e il loro stile di vita». Ragioni culturali, ma anche socio-economiche, hanno spinto a votare l’ultradestra. «È utile guardare la biografia dei lavoratori delle regioni in cui l’Alternative ha preso più consensi: a Dresda, a Lipsia, nel Circondario della Svizzera Sassone-Osterzgebirge - puntualizza Dietmar Herz, direttore della scuola di Politiche Pubbliche all’Università di Erfurt -. I cristiano-democratici e i social-democratici hanno regalato voti all’estrema destra perché hanno fatto promesse non mantenute alla fetta della popolazione che si aspettava una crescita di pensioni e salari, e che si è sentita dimenticata». Non basta che la Sassonia sia in pieno boom: nel 2016, è stato il Land con il più alto tasso di crescita dopo Berlino. «Abbiamo dormito sui successi economici degli ultimi anni», dice Petra Köpping, ministro regionale della Sassonia per l’Integrazione (Spd) -. Al contrario, dovevamo prestare maggiore attenzione alle persone che non sono state raggiunte da questo sviluppo. Non solo con parole gentili, anche con il sostegno finanziario».
L’altra chiave di lettura che spiega il 12,6% dell’AfD (con il divario dell’11,1% nell’Ovest, il 22,5% nell’Est) è la questione migranti: «Merkel ha perso il controllo dei confini nel 2015, quando ha aperto le porte a un milione di rifugiati». Con l’ingresso dell’AfD al Bundestag «la cultura politica in parlamento cambierà - dice ancora Neugebauer -. Ci saranno forti scontri tra AfD e gli altri partiti, perché un grosso pezzo dell’AfD vuole essere opposizione di sistema e marginalizzerà l’ala liberale concentrata sulle questioni economiche legate all’uscita dall’Euro». L’ala xenofoba che, in Germania come nell’Austria che si avvia alle elezioni, spingerà per chiudere di nuovo l’Europa.

Repubblica 26.9.17
L’ultradestra ora ci crede: “Noi l’alternativa”
di Paolo Berizzi
Il post di Casa Pound su Facebook dopo il successo dell’Afd In Germania


MILANO. Manifesti ammiccanti stile “alternativa”, alleanze, iniziative: peggiori provocazioni comprese. Un motore spinto a pieni giri e alimentato dalla voglia di entrare in parlamento. C’è grande fermento nella galassia dell’ultradestra italiana dopo il successo in Germania dell’Afd: tutti, da CasaPound a Fratelli d’Italia, da Forza Nuova fino alle formazioni nazionalsocialiste - e ovviamente la Lega, che neofascista non è ma ormai è a impronta sovranista - traggono linfa mediatica dal bronzo incassato dall’ex “partito dei professori”. Sulla pagina Fb di CPI da ieri campeggia un’immagine eloquente: «L’Alternativa per l’Italia? Casa-Pound». Il post è introdotto da questa frase: «Sei stato fin troppo moderato. È il momento di cambiare ». Perchè - secondo i “fascisti del terzo millennio” - “i vecchi partiti ti hanno tradito e lo faranno ancora ». Tra i primi commenti c’è quello dell’utente Claus Marcucci che digita un “Gott mit uns” (“Dio è con noi”, l’antico motto degli imperatori tedeschi che Hitler inserí nella bandiera della Germania). Sul treno tedesco salgono militanti e deputati. Scrive il parlamentare di Fdi Edmondo Cirielli: «Una svolta storica. È la prima volta dopo la seconda guerra mondiale che entra in parlamento un partito patriottico ». Patria, patrioti, patriottico. Sono le parole mantra che appaiono in queste ore su siti e social della destra radical-identitaria. E non è un caso che Forza Nuova abbia chiamato “marcia dei patrioti” l’iniziativa - fino ad ora per nulla ritirata - in programma nella capitale il 28 ottobre (lo stesso giorno della “marcia su Roma” del 1922). “In Germania l’estrema destra è il terzo partito. Noi non siamo la stessa cosa ma attendo con ansia la vostra riuscita» è l’auspicio che Marcello Chinelli consegna alla pagina Fb del partito di Fiore. Il 13% dell’Afd, per i neofascisti italiani, appare come un miraggio. Ma che il blocco anti sistema, populista e nazionalista voglia sfruttare il volano tedesco è evidente: lo stesso accadde con il Front National dopo il primo turno delle elezioni in Francia. Il più entusiasta, allora come oggi, è Matteo Salvini, che dieci giorni fa a Pontida ha lanciato un messaggio chiaro all’ultradestra («aboliremo le leggi Mancino e Fiano »). Ora strizza di nuovo l’occhio “usando” il partito tedesco che accoglie xenofobi e negazionisti. «Abbiamo il diritto di essere orgogliosi su quanto fatto dai soldati tedeschi in due guerre», era stata la dichiarazione shock di Alexander Gauland.
Acqua tiepida rispetto al pensiero dei neonazisti varesotti Do.Ra. e dei loro affiliati del MAB di Bergamo: hanno appena annunciato la ristampa e la diffusione on line (in pdf, al prezzo simbolico di 1 euro) dei “Discorsi di Guerra” di Adolf Hitler. Lo scopo? «Risvegliare la gioventù italiana», spronarla a «battersi fino alla fine come fecero i soldati tedeschi». Per «difendere la Madre Patria e il Popolo», e per uscire dall «incubo chiamato Unione europea».

il manifesto 26.9.17
L’apocalisse dei socialdemocratici. La Linke cresce, Berlino est è sua
A sinistra. Per Schulz è il peggior risultato di sempre, il Nordreno-Westfalia gli volta le spalle. Per la Sinistra guidata da Wagnknecht e Bartsch la Germania orientale non è più un tabù
di Jacopo Rosatelli


I due partiti «rossi», eredi della storia del movimento operaio, escono dalle urne in condizioni molto diverse fra loro. Per i socialdemocratici della Spd è il peggior risultato di sempre, un milione e mezzo di voti in uscita verso destra e sinistra, mentre la Linke guadagna lo 0,6% e può sorridere. Emblema della disfatta per il partito che fu di Willy Brandt è la caduta di ogni roccaforte: si classifica primo solo in un Land minuscolo, la città-stato di Brema (26,8%), mentre nella «Emilia Romagna» del Nordreno-Westfalia il 26% ottenuto è un’apocalisse. Martin Schulz e compagni tremano anche per il 27,4% della Bassa Sassonia, vasta regione occidentale con capitale Hannover: in sé è il migliore risultato del Paese, ma il 15 ottobre in quel Land si vota per il parlamento locale, e i numeri dicono che il governo uscente a guida Spd rischia seriamente di andare a casa. E in Germania gli esecutivi regionali contano molto.
Se si volge lo sguardo ad est, i dati sono sconvolgenti: in Sassonia un drammatico 10,5%, in Turingia il 13,2%, appena sopra il 15% in Sassonia-Anhalt e nel Meclemburgo di Angela Merkel. Nella ex Ddr i socialdemocratici sono ormai una forza medio-piccola, lontanissimi dalle dimensioni di una Volkspartei, quel partito popolare e di massa che in teoria dovrebbero essere. La scelta della nuova capogruppo al Bundestag indica ora una nuova direzione di marcia: via il moderato Thomas Oppermann, tocca ad Andrea Nahles, ministra uscente del lavoro, e soprattutto figura più in vista della sinistra del partito. C’è quindi da aspettarsi che, almeno nelle intenzioni, la Spd voglia sul serio fare opposizione, recuperando i consensi dei suoi bacini tradizionali e magari cominciando a costruire finalmente un’intesa con la Linke anche a livello federale e non solo di singoli Länder (i due partiti amministrano in coalizione Berlino e Turingia).
Schulz resta segretario, a fine anno il congresso per un eventuale cambio al vertice: nessuno, per ora, ha chiesto la testa dell’ex presidente dell’Europarlamento.
Nell’attesa che la Spd torni davvero socialdemocratica, la Sinistra guidata in queste elezioni da Sahra Wagnknecht e Dietmar Bartsch si gode alcune affermazioni nella Germania orientale che ne confermano il tradizionale ruolo: è primo partito in tutta la parte Est di Berlino, compresi quartieri ad alto disagio sociale come Marzahn (26%) e Lichtenberg (29%). Nella ex Ddr è da registrare, però, un complessivo arretramento a vantaggio della AfD. Il vero dato positivo per la Linke è dunque un altro: le urne di domenica dicono che ad ovest il «pericolo comunista» non spaventa più.
A Brema è terza forza (13,5%), in Assia, Amburgo e Bassa Sassonia raccoglie quasi gli stessi consensi dei Verdi. Che però sono riusciti a vincere nel collegio più a sinistra di tutta la Repubblica federale, quello di Kreuzberg-Friedrichshain, cuore della Berlino alternativa (dove la somma di Cdu, AfD e liberali dà solo il 21%): nel combattuto derby per aggiudicarsi la rappresentanza dell’enclave rivoluzionaria del Paese l’ha spuntata la candidata ecologista di origine curda Canan Bayram, che ha già annunciato che non voterà mai un nuovo governo Merkel, nemmeno se sostenuto dal suo partito. Legittima soddisfazione, dunque, nelle file del partito più a sinistra di Germania, ma anche accenni di riflessione autocritica: «Il risultato nell’Est mostra che abbiamo sottovalutato le paure generate dalla questione dei profughi», ha affermato Wagenknecht, anima più ortodossa del partito, che non ha mai fatto mistero di essere su una linea diversa da quella più movimentista e «no-borders» della segretaria Katja Kipping.

il manifesto 26.9.17
Alla Spd serve una Bad Godesberg alla rovescia
Germania. La vera novità prodotta dal responso elettorale non è tanto la disastrosa disfatta del partito di Schulz, bene o male iscritta in una tendenza di lunga durata, ma la sua dichiarazione di indisponibilità alla riedizione della Grosse Koalition, storico salvagente della stabilità politica tedesca
di Marco Bascetta


«La Germania ha bisogno di un governo stabile e noi glielo daremo». Con qualche fatica Angela Merkel, alla sua quarta investitura, riuscirà a mantenere la promessa. Nessuno nel suo partito ha la forza di farle pagare gli 8 punti percentuali perduti in questa tornata elettorale. Nemmeno gli alleati bavaresi della Csu che, nonostante abbiano fatto la voce grossa contro la politica migratoria della Cancelliera e mantenuto un solido profilo di destra, hanno subito un vero e proprio tracollo e rischiano di perdere la storica maggioranza assoluta nel Land.
Nondimeno il caos percepito è molto più grande di quello reale e parlare, come fanno alcuni, della “fine di un’epoca” è decisamente sopra le righe. La forte affermazione di Afd, di qualche punto sopra il già spiacevole responso dei sondaggi, fa effettivamente impressione e non mancherà di avvelenare il clima sociale del paese potendo contare da oggi anche su una folta tribuna parlamentare. Tuttavia, per il partito nazionalista e identitario l’agibilità politica si profila decisamente limitata.
La destra autoritaria, più o meno nostalgica, nella Repubblica federale, è sempre esistita. Fin da quando gli alleati posero frettolosamente fine al processo di denazificazione con lo scoppio della guerra fredda. Acquattata nelle fila della Cdu, soprattutto in quelle della Csu guidata dal sanguigno Franz Josef Strauss.
O presente nei ministeri, nella magistratura, nell’impero mediatico di Axel Springer, non ha mai mancato di influenzare la vita politica tedesca. In tempi più recenti anche nella Spd si annidavano posizioni nazionaliste e xenofobe che non hanno nulla da invidiare all’AfD. Basti pensare al senatore berlinese Thilo Sarrazin, autore di best seller ultraidentitari e antislamici.
Essendosi resa visibile addensata in un partito del 13 per cento, (grazie anche al contributo della gente dell’Est, malmenata dalla disciplina della riunificazione), la destra estrema non si trova tuttavia nella posizione più agevole per esercitare questa influenza. Già durante i festeggiamenti della vittoria, AfD minaccia di spaccarsi tra la corrente “benpensante” e centrata sul “risparmiatore tedesco” di Frauke Petry e gli arrabbiati nazionalisti radicati nella frustrazione dei cittadini dell’Est. I “realisti” sanno quanto sarà difficile rompere la solida conventio ad excludendum che grava su un partito infestato da esagitati demagoghi e nostalgici dichiarati e prendono da subito distanze che potrebbero preludere a una scissione.
Spendere ogni energia nel compito di arrestare l’avanzata di questo fascismo azzoppato e diviso comporta due conseguenze altrettanto negative. La prima consiste nel rincorrere alcune tematiche di AfD, in particolare la restrizione del diritto d’asilo e la chiusura nei confronti dei migranti, tentazione che serpeggia anche nella Linke (Wagenknecht), spaventata dallo sfondamento della destra nei suoi bacini elettorali della Germania est. La seconda nel sottovalutare, in nome della democrazia minacciata, il pericolo che l’ingresso dei liberali della Fdp nel futuro governo ne rafforzino il dogmatismo liberista e l’intenzione di sottomettere la politica europea agli interessi prioritari della competitività della Germania e della sua rendita finanziaria. Paradossalmente questa eventualità finirebbe col favorire proprio l’espansione di AfD, e soprattutto delle sue correnti più radicali, che si intende combattere.
La vera novità prodotta dal responso elettorale non è tanto la disastrosa disfatta della Spd, bene o male iscritta in una tendenza di lunga durata, ma la sua dichiarazione di indisponibilità alla riedizione della Grosse Koalition, storico salvagente della stabilità politica tedesca. Non è affatto detto che questa indisponibilità regga agli urti della contingenza, al richiamo dell’unità antifascista e al culto, assai caro ai tedeschi, del “senso di responsabilità”. Ma se invece dovesse tenere, richiederebbe una sostanziale riconversione del partito a una cultura di opposizione e, se non una vera e propria Bad Godesberg alla rovescia (il congresso in cui la socialdemocrazia abbandonò ogni residuo marxismo per convertirsi all’economia di mercato), almeno una decisa abiura dell’Agenda liberista e antisociale imbastita nel 2003 dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, costata al partito milioni di voti. Non basterebbero più modesti correttivi dei rapporti di classe e stentate opere di carità a favore dei più disastrosamente disagiati, né timidi interventi sul mercato del lavoro ben attenti a non scalfire minimamente i profitti. Si dovrebbero trarre le dovute conseguenze dal fatto di operare in una società di crescenti diseguaglianze e di sofferenze sociali, certamente minori che altrove, ma insopportabili in una economia ricca come quella tedesca. La scelta dell’opposizione per non lasciarne ad AfD la rappresentanza maggioritaria non può, insomma, limitarsi alla salvaguardia formale di quello che in Italia fu chiamato “arco costituzionale”, ma dovrebbe raccogliere le ragioni (non gli umori) della protesta sociale che ha imboccato la via della destra.
C’è, tuttavia, da dubitare che la Spd sia pronta a un simile cambio di rotta. Il suo personale politico è abituato da anni all’amministrazione dell’esistente e non emerge nessuna figura di leader capace di intraprendere una decisa svolta. Anche se non possiamo escludere che questa volta l’intensità del colpo subito imponga di passare dai musi lunghi a un serio riesame della propria storia politica.

il manifesto 26.9.17
Israele piace ai leader dell’AfD
Germania . La comunità ebraica tedesca li condanna e parla di "incubo" ma intanto i leader di Alternativa per la Germania esprimono apprezzamento per Israele e le sue politiche
di Michele Giorgio


Il premier Benyamin Netanyahu e il ministero degli esteri israeliano si sono congratulati con Angela Merkel ma hanno evitato di condannare l’ingresso dell’estrema nel Parlamento tedesco. Un silenzio che contrasta con la forte preoccupazione espressa dalla comunità ebraica in Germania per il successo elettorale di Alternativa per la Germania (AfD), un partito che guarda con simpatia al passato nazista e che Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, descrive come «una forza che promuove ideologie di estrema destra e istiga contro le minoranze». Charlotte Knobloch, leader della comunità ebraica di Monaco, parla di «un incubo che si è fatto realtà…È un cambiamento storico, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale l’estrema destra sarà presente con una rappresentanza significativa nel nostro Parlamento».
Nei prossimi giorni Netanyahu potrebbe allinearsi alle posizioni espresse dagli ebrei tedeschi. Ora però resta in silenzio. E qualcuno mette in relazione la decisione di tacere su questo inquietante sviluppo politico in Europa con l’appoggio – un vero e proprio “amore” scriveva ieri il quotidiano online Time of Israel – che la leadership dell’AfD esprime a Israele. Secondo un recente sondaggio, gran parte dei rappresentanti politici di questo partito manifestano grande apprezzamento per le politiche del pugno di ferro di Israele verso i palestinesi e il mondo islamico e si dicono favorevoli a misure volte a garantire la sicurezza dello Stato ebraico. Oltre a ciò, sempre secondo questo sondaggio, i leader dell’AfD insistono affinché i palestinesi riconoscano Israele quale Stato del popolo ebraico, respingono il riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina e insistono per stringere ulteriormente le relazioni tra Berlino e Tel Aviv.

il manifesto 26.9.17
Il premier dell’Anp Hamdallah presto a Gaza
Fatah/Hamas. Presiederà una riunione del governo di consenso nazionale in modo da assumere il controllo anche della Striscia. Hamas appluade ma la strada della riconciliazione interna palestinese è ancora lunga
di Michele Giorgio


Prosegue il processo di riconciliazione tra Fatah e Hamas dopo la decisione presa dal movimento islamico di dissolvere il “Comitato amministrativo”, il governo alternativo a quello dell’Anp a Ramallah che aveva formato all’inizio dell’anno. Il presidente Abu Mazen da parte sua negli ultimi mesi ha tagliato finanziamenti e suddidi destinati a Gaza allo scopo di costringere Hamas a cedere, finendo però per colpire la popolazione civile palestinese costretta, tra le altre cose, a vivere con appena 2-3 ore di elettricità al giorno. Dopo l’apertura degli islamisti, avvenuta su pressione egiziana, il primo ministro dell’Anp Rami Hamdallah ha fatto sapere che il 2 ottobre andrà a Gaza dove, il giorno successivo, presiederà una riunione di governo.
I palestinesi si augurano che le due forze politiche mettano fine allo scontro di cui sono protagoniste dal giorno della vittoria della lista islamica alle elezioni legislative in Cisgiordania e Gaza del 2006, culminato l’anno successivo con la presa del potere nella Striscia da parte di Hamas. «Auspichiamo che il governo abbia successo nell’adempimento dei propri doveri e nell’assunzione delle proprie responsabilità», ha commentato ieri Hamas. «Bisogna cogliere l’opportunità favorevole di realizzare la riconciliazione palestinese poiché questa è l’ultima chance», ha avvertito da parte sua il coordinatore speciale dell’Onu per il negoziato in Medio Oriente, Nicolay Mladenov. «Mi congratulo per la decisione di Hamas di sciogliere il comitato amministrativo a Gaza e di chiedere al governo palestinese di assumersi i suoi incarichi nella Striscia», ha aggiunto.
Le perplessità non mancano. Lo stesso Mladenov ha ricordato che «in dieci anni di divisione i palestinesi hanno assistito a molti accordi firmati ma mai attuati». Il clamoroso fallimento della riconciliazione nel 2014 è ancora nella memoria di tutti. Anche in quella occasione Fatah e Hamas si dissero pronti a lavorare insieme. E diedero vita al governo di consenso nazionale, formato da tecnici, ancora in carica. Hamdallah si recò con i suoi ministri a Gaza, per estendere su quel lembo di terra palestinese l’autorità del suo esecutivo. Ma il tentativo, non coordinato con Hamas, non ebbe successo e il premier di fatto fu costretto a lasciare Gaza, per evitare conseguenze “spiacevoli”. Accadrà anche questa volta? Probabilmente no. Le parti sembrano meglio disposte rispetto a tre anni fa e hanno bisogno della riconciliazione. Hamas cerca consensi locali e regionali per superare l’isolamento in cui si trova, in particolare da quando il Qatar, suo sponsor, è stato a sua volta isolato dal boicottaggio dell’Arabia saudita e dei suoi alleati. Abu Mazen ha bisogno dell’unità nazionale per rafforzare la sua posizione, sempre più vacillante di fronte alla mancanza di prospettive per la sua linea della trattativa con il governo israeliano che lo boicotta e per il crescente disinteresse occidentale e arabo verso la questione palestinese. Il nodo principale è il controllo militare di Gaza, al quale Hamas non sembra disposto a rinunciare

Corriere 26.9.17
Aiutati dagli italiani o dalla sorte
Gli ebrei sfuggiti all’orrore nazista
di Antonio Ferrari


Dico subito che è stato stimolante leggere il libro-documento di Liliana Picciotto, che ha un titolo accarezzato dal vento della speranza: Salvarsi (Einaudi) . Stimolante perché questo studio documentatissimo sugli «ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah dal 1943 al 1945» ha l’indubbio merito di sfatare alcuni luoghi comuni: che cioè il fascismo italiano fosse una sola cosa con il nazismo di Adolf Hitler. Intendiamoci. I due regimi erano imparentati nell’ideologia e compenetrati inesorabilmente. Il leader-pagliaccio (come molti lo definivano in Germania, persino i comunisti) che veniva da Vienna, di sicuro meno attrezzato culturalmente di Benito Mussolini, aveva copiato il Duce all’inizio, costringendolo poi all’abbraccio mortale sul fronte di una guerra orrenda e di una sfida mortale. Guerra e sfida che hanno annientato più di una generazione di giovani. Decine di milioni di morti.
Preambolo necessario per introdurre il tema della ricerca del Centro di documentazione ebraica contemporanea, che dimostra con cura e scrupolo i risultati di una indagine, prevalentemente orale (con tutti i limiti che questo approccio comporta) per capire quanti furono gli ebrei che riuscirono a salvarsi dalla deportazione nei campi di sterminio.
Cito testualmente un passaggio del libro di Liliana Picciotto: «Gli ebrei presenti, alla fine di settembre del 1943, nell’Italia occupata, erano 38.994, di cui 33.452 italiani e 5.542 stranieri. Di tutti costoro, quelli identificati, arrestati e deportati (morti e sopravvissuti) oppure uccisi in Italia prima della loro deportazione, sono stati 7.172. Rimasero perciò non catturati e sfuggiti alla Shoah 31.822 ebrei, tra italiani e stranieri, oggetto di questa ricerca… Gli scampati rimasti in patria furono cioè più dell’81 per cento».
Ovviamente, l’inizio della persecuzione sistematica è del mese di novembre del 1938, quando il governo fascista, con il Regio decreto legge 1728/1938 stabilì che diventava imperativo emanare i «Provvedimenti per la difesa della razza», sottintendendo che la razza incriminata fosse quella ebraica. La persecuzione aveva gravi conseguenze sociali (perdita del lavoro, espulsione dalle scuole del regno) ed economiche. Nessuno degli ebrei però, a parte i più avveduti che riuscirono ad andarsene, immaginava quel che poi sarebbe accaduto.
È evidente che le leggi razziali furono suggerite e caldeggiate da Hitler, e in realtà Mussolini vi si adeguò con qualche mal di pancia, perché il Duce sapeva che imporre drastiche misure agli italiani sarebbe stato controproducente. L’italiano non è e non sarà mai un carnefice.
Forse si spiegano così i gesti di grande solidarietà con la minoranza perseguitata. L’esempio del console italiano fascista di Salonicco, Guelfo Zamboni, ne è una prova. Gino Bartali, campione di ciclismo, rischiò la vita per salvare decine di ebrei. I casi di coraggio civile, con l’avanzare della ricerca, si sono moltiplicati. Fino a dimostrare un’indubbia realtà: molti ebrei sono stati soccorsi e altrettanti si sono auto-salvati, adottando misure e comportamenti per sfuggire alla retate.
C’è poi chi si è salvato per un evento imprevedibile e fortunato. Persino nei campi della morte non era impossibile sfuggire alle camere a gas. Sami Modiano, ebreo di Rodi, appartenente alla comunità italiana nell’isola greca allora sotto il controllo del nostro Paese, ci ha raccontato di avere evitato il «forno» per puro caso. Era già pronto a morire, quando venne salvato da un carico di patate giunto con un treno ad Auschwitz. Era necessario scaricare le patate e i nazisti decisero che quei condannati in buona salute sarebbero stati utili per missioni successive. Nedo Fiano, il padre del deputato del Pd Emanuele, si salvò perché conosceva il tedesco e sapeva cantare. Quando disse che veniva da Firenze, il colonnello di Hitler si commosse e lo abbracciò. Aveva trascorso nella città toscana una vacanza sentimentale con la fidanzata.
Se l’orrore si coniuga con il sentimentalismo è davvero un disastro. Tuttavia il libro-ricerca, curato da Liliana Picciotto, è un formidabile veicolo di conoscenza. Un’enciclopedia di storie umane che ci raccontano di un’Italia, apparentemente indifferente, ma anche solidale con chi soffriva. Perché delle camere a gas quasi tutti erano informati.

Il Fatto 26.9.17
Marx, Goethe e pure Sgarbi: tutti i fantasmi di Tremonti
In cerca di “Rinascimento” - “Ogni fine è il principio di una nuova storia”. Mentre riflette sulla finanza, l’ex ministro si allea al critico
di Pietrangelo Buttafuoco


Due fantasmi – anzi, tre – s’aggirano tra le sontuose stanze con affaccio su piazza Navona, a Roma, dove il professore Giulio Tremonti, già ministro plenipotenziario dei governi Berlusconi, dà appuntamento al Fatto Quotidiano.
Uomo di studi, sapiente di saperi, Tremonti annuisce quando gli spettri, a beneficio degli ospiti, ripetono le profezie pronunciate a suo tempo, quando erano ancora tra i vivi.
Uno squaderna il proprio libro, Il Manifesto del Partito Comunista, e così legge: “All’antica indipendenza nazionale si sovrapporrà una interdipendenza globale.” È Karl Marx.
L’altro, con nientemeno che Mefistofele al guinzaglio, ne sveglia l’allucinazione diventata oggi realtà: “I Biglietti alati – le banconote – voleranno tanto in alto che la fantasia umana, per quanto si sforzi, non potrà raggiungerli”. È Wolfgang Goethe. Legge il suo Faust.
Il terzo, infine, con tutta la biblioteca del conte Monaldo – il temuto padre – sulla gobba, consegna all’ospite una fotocopia dallo Zibaldone: “Quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto”.
Tremonti congeda quest’ultima ombra non senza una gag – “Ecco un populista, è Giacomo Leopardi” – e taglia corto per spiegare meglio il perché di questi fantasmi: “Avevano visto il futuro, ci aiutano a capire la dematerializzazione del denaro e con la delocalizzazione della ricchezza, la globalizzazione in atto”.
Tremonti, va da sé, la butta in necessarissima politica “contro la ragioneria cabalistica del denaro creato dal nulla ma dominante su tutto e, di conseguenza, contro la cupa tecnica istituzionale della polizia mentale” e però su tutto incombe una ricostruzione. È un datario che si chiude in un periodo di tempo brevissimo: novembre 1989, caduta del Muro di Berlino e fine del comunismo; maggio 1994, accordo di Marrakech e nascita del Wto, ossia Organizzazione mondiale per il commercio; gennaio 1996, Bill Clinton liberalizza la tecno-finanza e gli speculatori operano generando rischi illimitati per tutti ma non per loro essendo protetti dalla responsabilità limitata; novembre 2001, la Cina aderisce al Wto; ottobre 2008, New York, esplode la crisi finanziaria.
“Ogni fine è il principio di una nuova storia” commenta Tremonti che in coppia con Vittorio Sgarbi, alla testa di Rinascimento, più che un libro edito da Baldini & Castoldi, offre un programma politico fino a oggi impolitico a meno che uno dei due – specificatamente lo storico dell’arte – già impegnato nella campagna regionale in Sicilia non guadagni subito il requisito fondamentale per candidarsi: la residenza anagrafica nell’isola.
Vero è che la politica è la meta-politica. È impegnativo ascoltarlo mentre segna grafici sul bloc-notes, rammemora le cose fatte da ministro e ancora una volta dà di gomito a uno dei tre fantasmi, a Goethe, per dargli ragione nell’avere visto ciò che ancora non si poteva vedere. Cava dai calzoni di Mefistofele una cambiale e poi ancora una banconota di Weimar, la moneta dal valore nullo che reca scritto il motto del diavolo: “Abbi fiducia in me, credi in me”. Chissà se i banchieri affamatori lo fecero apposta. Come nel dollaro Usa: In God we trust. Chissà.
Tremonti è l’unico italiano ad avere tenuto lezione nella più inaccessibile tra le aule, che non si trova nella scuola commerciale di Pechino dove al più può andarci Romano Prodi ma in quella del Partito comunista cinese: “Una città vera e propria dalle strade sconfinate dove si palesano i dignitari, dove il rettore è il vice di Xi Ping, dove la grande macchina statuale trova il motore primo di ogni decisione”.
Una città dei saperi dove il professor Tremonti arriva con il Viaggio in Olanda di Diderot, il libro dove è scritto “governare un Paese piccolo è facile, uno grande è difficile”. Ed è Xi Ping, il presidente della Repubblica, nonché segretario del Partito, a dirgli – accettando il dono – “cerchiamo di diventare un po’ ricchi prima di diventare vecchi”. Un pronunciamento strano che Tremonti decifra osservando, nel mentre che i fantasmi si stringono a circolo per guardare tutti insieme, le foto notturne di Google Maps.
Ecco la Cina: c’è un’infinità di luci lungo le coste e tutto uno sterminato buio, poi, nell’entroterra. È l’area rurale dove vive la popolazione contadina, sempre più vecchia, senza ricambio generazionale, costretta a caricarsi l’aratro con le artriti.
Resta da sapere qual è il motore anonimo, apolide, irresponsabile e iperpotente del mondo. Da ministro del Tesoro, Tremonti – che è un tipetto particolare – si trova a ricevere Bill Gates sempre abile a farsi dare soldi dai governi dell’orbe terracqueo. “Io a questo lo mando a fare in culo”, borbotta tra sé Tremonti che non concede ubris – e cioè la vertigine dell’onnipotenza – a chicchessia. La moglie di Gates conosce la lingua italiana e così Tremonti se la gode a faang… il FAANG. Ovvero? “È la taglia unica, a pensiero unico, dell’uomo nuovo”. Ecco, dunque: Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google. L’algoritmo in luogo della volontà di potenza. L’utopia nuova del bene benevolo universale. Benevolo, come l’Anticristo di Vladimir Soloviev. “Giusto, ancora un profeta”. Ancora un profeta, ancora un fantasma a casa Tremonti. E sono in quattro.