il manifesto 24.9.17
Sinistra catalana e indipendenza: un processo «partecipato» a rischio settarismo
Catalogna.
Il limite maggiore delle tesi della Cup è legato a uno sguardo
autoreferenziale che sconfina a volte nel settarismo. Poi ci sono le
assenze nelle riflessioni della Cup: Podemos, il partito che
maggiormente ha messo in discussione quel «regime del 78» contro cui si
scaglia la Cup. Lo stesso vale per i suoi dirigenti maggiori, compresa
la sindaca di Barcellona, Ada Colau, che con la coalizione Barcellona en
Comú, nel 2015 ha vinto le elezioni amministrative nella capitale della
Catalogna
di Marco Grispigni
Sull’indipendentismo
catalano in Italia sappiamo poco, ancora meno su quello di sinistra.
Quando leggiamo articoli sull’indipendenza catalana, spesso sembrano
parlare dell’Italia al tempo del secessionismo della Lega nord: folclore
autoctono ed egoismo sociale.
Una regione ricca ed evoluta,
stanca di «pagare con le sue tasse» il mancato sviluppo delle regioni
povere. La situazione della Catalogna è invece diversa, sia perché è una
regione con una storia (e una lingua) specifica e non un’invenzione
cialtronesca, sia per la presenza, significativa, di una componente di
indipendentismo (e non nazionalismo) di sinistra radicale. Gli argomenti
della Cup (Candidatura d’Unitat Popular) a sostegno
dell’indipendentismo sono difficilmente accusabili di una deriva
nazionalista. Cosa rappresenta il referendum nella strategia politica
della sinistra indipendentista? Un evento capace, per il suo valore
simbolico, di aprire una crisi irreversibile, un «processo destituente»
come viene definito nei, del sistema politico spagnolo retto dal patto
della Costituzione del 78.
Una crisi di legittimità di fronte al
principio di autodeterminazione del popolo catalano che dia l’avvio a un
«Processo Costituente» capace di fondare «una Repubblica garante dei
diritti sociali, femminista, accogliente nei confronti
dell’immigrazione, che dia priorità alle persone e non al denaro». La
tesi di fondo è la convinzione che in Catalogna, per la presenza di un
forte movimento indipendentista di sinistra, sia possibile quel
cambiamento radicale del quadro politico ed economico che appare
impossibile a livello spagnolo. Dopo il referendum si prevede una fase
partecipativa il cui organo dovrebbe essere un Forum Sociale
Costituente, composto dai rappresentanti della società civile
organizzata e dei partiti politici. A questa prima fase di democrazia
partecipativa, seguirebbe l’elezione di un’Assemblea Costituente
incaricata di redigere un progetto di carta magna e infine un nuovo
referendum di ratifica popolare della Costituzione che sottoponga agli
elettori la nuova carta per blocchi, valorizzando quindi il contenuto
delle varie parti.
Questo processo, disegnato anche nei
particolari mi sembra innovativo e interno alle riflessioni più
interessanti emerse negli ultimi anni nei forum sociali e nelle
discussioni sui beni comuni.
Resta, però, un problema: i rapporti
di forza favorevoli all’apertura di un processo costituente
caratterizzato dal cambiamento sociale, politico e democratico, capace
di impedire che il diritto all’autodeterminazione si riduca in una
transizione «dall’autonomismo alla Repubblica in cui il potere delle
classi dirigenti rimanga intatto», sembrano basarsi più su un atto di
fede che su analisi articolate. L’affermazione della capacità egemonica
dei settori popolari e progressisti sulla società catalana diviene quasi
tautologica.
Riecheggia in questi discorsi un mito forte, e
abbastanza dannoso, dei movimenti conflittuali degli ultimi anni, quello
del «noi siamo il 99%», che spesso nasconde la dura realtà delle
divisioni di classe e degli interessi contrapposti. Il limite maggiore
delle tesi della Cup è legato a uno sguardo autoreferenziale che
sconfina a volte nel settarismo. Poi ci sono le assenze nelle
riflessioni della Cup: da Podemos, il partito che maggiormente ha messo
in discussione quel «regime del 78» contro cui si scaglia la Cup. Lo
stesso vale per i suoi dirigenti maggiori, compresa la sindaca di
Barcellona, Ada Colau, che con la coalizione Barcellona en Comú, nel
2015 ha vinto le elezioni amministrative nella capitale della Catalogna.
La ragione di queste assenze è duplice.
I risultati elettorali di
Podemos, e delle piattaforme che hanno conquistato le amministrazioni
delle principali città spagnole, sembrano essere interpretati come un
«pericolo» per quella strategia indipendentista che considera
impossibile il cambiamento del «regime del 78» a livello nazionale e che
individua nella Catalogna l’anello debole del dominio capitalistico
neoliberale. Il secondo motivo di queste assenze è – a mio giudizio –
anche più grave. Sia Podemos sia Colau difendono il principio
dell’autodeterminazione e Podemos è l’unico partito nazionale di peso
favorevole a un referendum catalano sul modello di quello scozzese. Per
la Cup cercare la mediazione per giungere a un referendum riconosciuto
legalmente dalla comunità internazionale e dallo Stato spagnolo è
considerata «un’insopportabile ambiguità» che avvicina chi la propone
«più al regime che alla democrazia». Siamo all’accusa di intesa con il
nemico.
Condivido le perplessità sul referendum espresse a
sinistra, ma comprendo i timori del rinvio sine die. La vicenda catalana
con il rispetto del principio dell’autodeterminazione di un popolo, la
possibilità di avviare un processo costituente capace di oltrepassare i
vincoli ormai inaccettabili della Costituzione del 1978, può essere una
tappa fondamentale nel tentativo di cambiare radicalmente lo stato
insopportabile delle cose. La speranza è che ben presto in Catalogna, e
in tutta Spagna, qualcuno possa di nuovo raccontarci l’odore di aria
fresca che emana la felicità della repubblica.
(Da oggi in
libreria per Manifestolibri «Catalogna indipendente. Le ragioni di una
battaglia» con introduzione di Marco Grispigni