il manifesto 23.9.17
L’irreversibilità dell’Ottobre russo
Per
manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero «Ottobre 1917 -
la rivoluzione pacifista di Lenin». Sull’argomento, poi, nelle giornate
del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La
Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre.
L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo».
Un’anticipazione dell’intervento al simposio del filosofo a Villa
Mirafiori
di Michele Prospero
Ricostruendo i
passi sempre ponderati che i bolscevichi seguirono tra il febbraio e
l’ottobre del 1917 viene confermata l’immagine che Lenin aveva della
politica come «matematica superiore». La strategia era in lui chiara sin
da febbraio. Se i liberali hanno la forza per compiere una loro
rivoluzione, che se la sbrighino pure da soli calandosi nell’arte così
poco poetica della critica delle armi. Non possono pretendere che ai
proletari, ai soldati fuggiaschi, alle plebi contadine spetti il compito
di indossare le maschere del costituzionalismo, pressoché ignoto
vocabolo nella tradizione russa.
Le fabbriche che sono insorte, la
diserzione in massa dei contadini in divisa suggerirono a Lenin che era
comparso un protagonista nuovo, che all’inizio marciava in forme del
tutto spontanee. Il problema era di offrire al moto disordinato di
piazza un’organizzazione per fare della folla irregolare un vero
soggetto. Ci voleva per questo una politica organizzata. Altrimenti
l’insubordinazione diventava una pura scintilla di rivolta che si
dipanava senza alcun progetto. Il capolavoro di Lenin fu proprio questo:
tramutare una ribellione di massa già in atto, e con una forte
intonazione plebea, in un grande assalto politico a quello che lui
chiamava un «anello di legno» del capitale, pronto a sgretolarsi al
primo impeto.
IL SALTO NEL BUIO di ottobre presuppone una rigorosa
analisi dei limiti della rivoluzione di febbraio. Per Lenin due erano i
nodi irresolubili per la coalizione salita al potere. Il primo era
legato alla terra e alla forte pressione contadina per avere il pane. Il
nuovo potere rinviava all’infinito il voto per l’assemblea costituente
proprio nel timore che avrebbe potuto diventare la cassa di risonanza
delle richieste di terra. Il secondo punto di allarme era la guerra. Il
governo di febbraio era per la continuazione dell’impresa bellica e anzi
ogni tanto proponeva persino sanguinose controffensive patriottiche.
Che rivoluzione era mai quella che deponeva lo zar ma proseguiva la sua
guerra e lasciava la terra e le fabbriche ai padroni?
Per Lenin la
Russia era precipitata in una situazione di emergenza (insieme sociale e
bellica) e invece il governo in carica riteneva di cavarsela con la
definizione del sistema elettorale per la Duma. La debolezza della
soluzione liberale al problema hobbesiano dell’ordine lasciava campo
alle suggestioni golpiste dei militari. Secondo Lenin la risposta al
dilemma dell’autorità scaturiva dalla stessa aporia esplosa con il
«dualismo dei poteri». Con la proliferazione, accanto agli organi
fragili rispolverati dal governo provvisorio, di un vecchio istituto
inventato nel 1905, il soviet come nuova forma della rappresentanza dal
basso, era possibile compiere una rivoluzione sociale.
Non ci
sarebbe stata la presa del Palazzo d’Inverno senza la testarda
insistenza di Lenin a compiere l’attacco frontale per sciogliere la
insostenibile contraddizione tra due poteri che rivendicavano sovranità.
Nel suo partito c’era chi invitava a cogliere in maniera tradizionale
le opportunità della rivoluzione liberale per cercare di strappare
diritti più avanzati. La ricognizione dei rapporti di forza indusse
invece Lenin a ritenere che, a differenza del 1905, non era possibile
limitarsi a un riassetto della forma politica in un senso più liberale.
La distruzione, il caos, l’insubordinazione diffusa richiedevano una
diversa prospettiva: il potere ai soviet.
Ha faticato molto Lenin
per persuadere la vecchia guardia che non si poneva la questione
astratta della preferenza tra organismi liberali e forme autocratiche di
potere. Il problema era di rispondere all’emergenza prodotta dalla
guerra, e quindi di conquistare il potere vagante per scongiurare il
caos. Non c’erano altri antidoti alla dissoluzione generale che una
mobilitazione armata e di massa per la pace e la terra. La leggenda
narra di un partito bolscevico costruito come una rigida macchina
monolitica che raggruppava un manipolo di cospiratori assetati di potere
e mossi da violenza. Questa banalizzazione del leninismo come sinonimo
di spirito settario non corrisponde ai processi reali.
LA STESSA
FAVOLA del centralismo democratico, come congegno della subordinazione
gerarchica e della rigida omogeneità d’azione del partito-caserma, urta
con la vicenda storica di un Lenin che si trovava spesso in minoranza
nella sua organizzazione.
Persino la Pravda lo censurava o
prendeva le distanze da un suo scritto. Lo stesso ordine di insurrezione
ricevette una accoglienza assai dura. Kamenev denunciò sui giornali
nemici le prove in corso di assalto al palazzo e per questo gesto
irrituale attirò su di sé solo l’epiteto di crumiro. Cercò addirittura
di persuadere il ricercato Lenin a farsi ammanettare. Non esisteva
insomma alcun culto della personalità. Nel ’17 quello bolscevico era un
partito a maglie così larghe da apparire una federazione di sensibilità
eterogenee, un organismo che anche nella illegalità sembrava (un po’
troppo) vivacemente plurale.
Per convincere i riottosi della
necessità di una presa delle armi non bastarono un congresso
straordinario, due distinte risoluzioni votate a maggioranza dal
comitato centrale. Tormentato e teso (Lenin stesso minacciò le
dimissioni) fu il cammino per la presa del Palazzo d’Inverno.
L’INSURREZIONE
non obbediva a una tattica militare spregiudicata, era invece
l’efficace risposta storico-politica alle contraddizioni aperte dalle
guerre mondiali (Lenin prevedeva che un altro ancora più distruttivo
conflitto sarebbe scoppiato in un tempo sordo ai richiami del «famoso
scrittore Keynes»). L’alternativa per lui non era certo tra un
costituzionalismo slavo e il potere rosso, ma tra la dissoluzione nel
caos del vecchio impero e la brutale dittatura militare. Dopo la quasi
incruenta conquista del potere, legittimata da una deliberazione dei
soviet che a settembre erano in maggioranza schierati con i bolscevichi,
Lenin fu sorpreso dall’esito negativo del voto per l’assemblea
costituente (prese solo il 24 per cento). In un primo tempo, anche per
convivere con la contraddizione di due maggioranze antitetiche, Lenin
era disponibile a un governo di coalizione con la sinistra dei
socialisti rivoluzionari (cui fu affidato il dicastero chiave
dell’agricoltura).
GLI ACCADIMENTI REALI, le lotte, le posizioni
provocatorie dei raggruppamenti socialisti (escludere Lenin e Trotsky
dal governo, nella scommessa che i bolscevichi sarebbero presto stati
spazzati via) ruppero l’alleanza e portarono alla soluzione di un
governo di partito. La vittoria dell’Ottobre era ritenuta un accadimento
non più reversibile.
A cento anni di distanza, quell’esperienza
che segnò il Novecento, produsse miti, mobilitazioni, speranze, utopie,
tragedie non può essere semplicemente archiviata nella galleria degli
orrori. La prima grande manifestazione di massa che si tenne a Roma
liberata nel 1944 si svolse allo stadio Palatino. Parlarono insieme
Nenni e Togliatti perché l’Ottobre era patrimonio comune. I loro
discorsi furono stampati dall’Avanti e dall’Unità in un opuscoletto di
31 pagine con il titolo in rosso: Viva la Rivoluzione d’Ottobre! Persino
Veltroni, in un cinema romano, nel ’77 celebrò i 60 anni dei soviet.
Anche se la rimozione è di moda, la ricostruzione democratica in Italia è
connessa con il fantastico scatto del ’17.
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Per
manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero «Ottobre 1917 –
la rivoluzione pacifista di Lenin». Sull’argomento, poi, nelle giornate
del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La
Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre.
L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo». Tra i
relatori, Raffaele D’Agata, Andrea Sonaglioni, Alexander Hobel, Angelo
d’Orsi, Gennaro Lopez, Guido Liguori, Stefano Petrucciani, Paolo Ciofi.
Saranno proiettati documenti d’epoca.