Repubblica 23.9.17
Storia letteraria dell’odio
Il sentimento più diffuso sui social raccontato dai Grandi di ogni tempo. A partire da Dante
di Stefano Massini
Che
il cannibalismo sia un hobby dei giorni nostri, è un dato acquisito. I
social sono diventati ormai una tavola calda per antropofagi, dove le
carni altrui vengono allegramente squartate e servite in spezzatino come
nel “Tito Andronico” di William Shakespeare. Se possibile, siamo un
passo avanti rispetto all’insulto e alla denigrazione: la miasmatica
epidemia d’odio che ci avvolge sembra rispondere a un
bisogno
fisico, a un istinto come quello della fame, quasi i nostri metabolismi
necessitassero ormai di una regolare dose di selvaggina umana. In tempi
di diete vegane, riaffiora insomma l’homo carnivorus e dunque
cacciatore, sprovvisto di fucile ma armatissimo di account. E nelle
foreste del web, il bottino può essere assai lauto, soprattutto se ogni
pretesto è buono (dai vaccini all’immigrazione) per travestire odio e
invidia dietro uno scudo di apparente legittimità dialettica.
Nella
sua scientifica analisi dell’odio, Erich Fromm — in tempi non sospetti —
sosteneva d’altra parte che questo passaggio fosse il più furbo per chi
voglia moralmente assolversi, nobilitando i propri travasi di bile in
diritti d’opinione. Per cui benvenuti nel grande mattatoio: c’è posto
per tutti, e l’odio è la vera password del nostro vivere connessi. Ma
nel grande archivio della letteratura, ci sono segnali che possano
aiutarci a non perdere la rotta in questa bufera di coltelli? In effetti
— saltando indietro di un bel po’ di secoli — un primo efficacissimo
ritratto delle nostre risse tutte sbraiti e fiele, lo troviamo
nientemeno che nell’Inferno di Dante, canto VIII, dove chi in vita fu
adepto dell’odio sta in eterno a sguazzo in una palude fetida,
dilaniandosi in una bolgia chiassosa. Non bastasse, traghettati da
Flegiàs (becero a sua volta), Dante e Virgilio inorridiscono alla vista
di un bullo di quartiere come Filippo Argenti, ora straziato nella broda
e infine costretto a mordersi da solo.
A tentare una risposta ci
provò senz’altro Shakespeare, cominciando ad aprire qualche porta fra la
stanza dell’odio e quella della frustrazione: Iago visceralmente
detesta Otello, trama contro lui tutto il male del mondo, ma è chiaro
che tutto nasce solo da un suo complesso d’inferiorità, cosicché la
chiave di tutto sta nel fatto — per dirla con Cesare Pavese — che noi
odiamo gli altri perché odiamo noi stessi. Tutto insomma — piaccia o
meno — ci nasce sempre dentro, anche se poi lo sbraitiamo fuori contro
altri (magari in forma anonima sulla app Sarahah): per quanto ci sembri
superato, diamoci atto che la fucina dell’odio 4.0 è sempre quel torbido
sottosuolo dove Dostoevskij faceva agglomerare la rabbia dei suoi
inetti. Se dunque il signor Iago avesse guardato un po’ di più fra i
propri rovelli, si sarebbe risparmiato tempo e fatica, persi invece a
sfuriare contro il Moro. Già, perché in effetti c’è il dettaglio non
secondario che Otello era di carnagione scura, fattore che ti candida da
sempre a intercettare gli sbraiti degli irrisolti (ed è impossibile non
pensare al monologo impressionante dell’immaturo Monty Brogan che ne La
venticinquesima ora, il romanzo di David Benioff diventato un film di
Spike Lee, sciorina davanti allo specchio tutto il catalogo dei suoi odi
newyorkesi, dai coreani puzzolenti di fritto agli italiani mafiosi,
dagli ebrei con la forfora ai negri di Harlem).
Nelle pieghe della
differenza (di religione, di cultura) si annida da sempre il virus
dell’invettiva facile, peraltro rafforzata dal suo essere un collante
sociale, cioè un invito a gridare insieme. E se v’è da gridare, niente è
pretesto migliore che un odio comune o una comune lotta per la
sopravvivenza (la definizione è di Lev Tolstoj). Il fatto è che di
questi cori beceri non sono però depositarie solo le taverne, bensì ogni
punto di ritrovo (anche virtuale) di una borghesia spaesata: già
Flaubert nel 1867 si diceva allibito di come i benpensanti vomitassero
fiele contro certi bohémien. Pertanto, laddove i conflitti sono stati
più forti, ecco nascere un odio cieco, identitario, come quello di miss
Quested contro Aziz nel Passaggio in India di Forster. Non stupirà
allora che dalla letteratura afroamericana provengano fior di libri su
cosa sia l’esperienza non solo di un odio subito, ma anche — per
paradosso — di un odio talmente radicato da tradursi in unico metro
possibile per misurare le distanze sociali: il giovane protagonista di
Paura (spietato romanzo scritto nel 1940 da Richard Wright) è di fatto
incapace di vivere senza odiare, e si domanda lui stesso da dove gli
nasca questa irresistibile tendenza al male. È il cancro di un odio che
genera odio, unendo vittima e carnefice in un tutt’uno, come ci racconta
con inaudita crudeltà il grande Herman Melville in Benito Cereno — un
libro certamente da riscoprire — in cui è ricostruita la vera vicenda
del veliero carico di schiavi il cui equipaggio (bianco) fu interamente
massacrato da una rivolta degli africani.
Fu un’ordalia, fu un
tripudio di sangue, fu una mattanza disumanamente compiuta da esseri
umani in risposta alla disumanità di altri esseri umani, in
quell’assurda pretesa di vendetta che nella spirale dell’odio rende
progressivamente spettri (si pensi a I miserabili di Hugo o al Conte di
Montecristo di Dumas). È un utile promemoria, per un’epoca come la
nostra in cui tutto sembra giocarsi su infinite reazioni ad attentati
altrui: la parabola del male che alimenta ulteriore male è più che
presente in più di un capolavoro, a partire da Moby Dick in cui la
ferocia distruttiva del mostro nutre la sete di morte prima del solo
Achab, e quindi dell’intero Pequod. Ed eccoci a un punto decisivo:
troppo spesso non ci rendiamo affatto conto di cosa stiamo realmente
odiando. L’odio di cui ci riempiamo le bocche è simile a quello
descritto da Heinrich Mann nel 1918 nel suo indimenticabile Il suddito:
come in quella goffa Germania pre-hitleriana, anche oggi l’odio urlato
garantisce una rendita di posizione, da spendersi al mercato delle
vacche della comunicazione.
Questo per i toni. Ma i contenuti?
Irrisori. Quel che vale è che in assenza di un’identità, niente illude
più che il sentirsi costantemente schierati contro. Contro chi? Boh.
Contro cosa? Boh. Conrad descrisse portentosamente questo paradigma di
un odio gratuito: ne I duellanti, i due protagonisti trascinano il loro
scontro per anni e anni senza che vi sia in realtà un motivo del
contendere. Il loro è un odiarsi per odiarsi, un volersi sentire
impegnati in una gara di sopravvivenza che dia un senso al loro
esistere, indipendentemente dalla posta in palio. Sguainano le spade, si
abbandonano all’odio, reclamano per l’altro il puro male. Perché? Boh,
intanto duelliamo. Temo che purtroppo siamo noi, davvero.
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