il manifesto 21.9.17
Modernità delle gabbie. Il cuore è uno zingaro
«Non
sono razzista, ma...». Si tenga conto che oggi l’etichetta «zingaro»
(o, più diffusamente, «rom») risulta al primo posto nella classifica
della riprovazione sociale. Dal romanticismo magico dell’epopea gitana
che sbanca il festival di Sanremo alla consapevolezza di Jannacci e De
André
di Luigi Manconi
Follonica, mattina del 23
febbraio 2017. Nel retro del supermercato Lidl, due donne di etnia rom
vengono sorprese da tre dipendenti mentre frugano tra i cartoni da
smaltire. La scena successiva: le due donne sono state rinchiuse
all’interno di una gabbia che contiene altri cassonetti bianchi pieni di
cartoni. Piangono, gridano a voce altissima, sbattono mani e braccia
contro l’inferriata, cercando di forzarla. Fuori dalla gabbia, due dei
dipendenti ridono rumorosamente e uno, con voce stentorea, si rivolge
alle donne. Ripete più volte che non si può entrare nell’angolo dei
rifiuti della Lidl: «No, non si può entrare».
A UN TRATTO,
l’eccesso di riso lo fa tossire. Un terzo addetto, nel frattempo,
registra tutto col telefonino e si arrampica sulla sommità della gabbia
per riprendere la scena dall’alto (successivamente due dei dipendenti
verranno licenziati dall’azienda tedesca).
Non si può escludere
che dietro il mancato scandalo per l’«ingabbiamento» di due persone,
come è avvenuto a Follonica, vi possa essere un oscuro e temibile
retropensiero. Se la gran parte delle persone intervistate nei giorni
successivi tenderà a ridimensionare l’episodio, definendolo «una
burlonata» attribuita a «ragazzi» (definiti sempre ed esclusivamente con
tale termine), forse c’è di che riflettere.
I due tratti che
abitualmente vengono attribuiti da una parte rilevante del senso comune a
rom e sinti – una certa ferinità e una sostanziale irriducibilità alla
vita sociale – possono suggerire come sola forma di disciplinamento la
soggezione in cattività. Dunque, l’idea che quel tipo di etnia
possa/debba essere «chiusa in gabbia».
Si tenga conto che oggi
l’etichetta «zingaro» (o, più diffusamente, «rom») risulta al primo
posto nella classifica della riprovazione sociale. A seguire, l’elenco
dei «nemici» subisce variazioni continue dovute in genere all’influenza
di fatti di cronaca che abbiano avuto una eco particolare e nei primi
posti si alternano soggetti nazionali o regionali, destinatari, di volta
in volta, dell’ostilità sociale.
Non si dimentichi, infatti, che
almeno tre gruppi regionali italiani si sono trovati, nell’ultimo mezzo
secolo, a contendersi il primato, o almeno le piazze d’onore, in questa
speciale competizione: «i siciliani», «i sardi», «i calabresi». Ma il
dato costante è che «gli zingari», persino nei momenti di maggiore
successo degli «albanesi» e dei «romeni» (corrispondenti all’incremento
dei flussi di queste nazionalità verso l’Italia), hanno sempre
saldamente occupato il primo posto nel podio (dell’odio).
EPPURE
non è stato sempre così. A partire dalla questione, tutt’altro che
insignificante, del nome. Qui si è utilizzato e si continuerà a
utilizzare il termine «zingaro» in modo neutrale perché fino a una certa
fase l’accezione positiva prevaleva nettamente su quella critica. Oggi
le cose sono cambiate. E quel termine «zingaro» viene rifiutato
innanzitutto dalle comunità rom e sinti (alle quali vanno aggiunte
alcune centinaia di caminanti, presenti prevalentemente nella zona di
Noto, in Sicilia) e dalle associazioni che ne tutelano i diritti. Si
preferisce, cioè, il ricorso alle parole che segnalano l’origine etnica.
Ma, come si è detto, non è stato sempre così.
QUASI
MEZZO SECOLO FA, al festival di Sanremo del 1969, trionfava la canzone
Zingara, sontuosamente interpretata da Iva Zanicchi (e da Bobby Solo).
Appena due anni dopo Nada e Nicola di Bari portavano al successo Il
cuore è uno zingaro. Dunque, il maggiore evento nazional-popolare del
nostro paese, dove si riflettono la mentalità condivisa e i mutamenti
culturali e del costume, celebra l’epopea gitana.
Già nel 1968,
Enzo Jannacci portava al secondo turno di Canzonissima Gli zingari: e
cantava di «gente bizzarra, svilita», che un giorno arriva di fronte al
mare. E solo «il vecchio, proprio lui, il mare, parlò a quella gente
ridotta, sfinita. Parlò ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di
guerra, d’amore, di bene e di male».
Poi, nel 1971, Mario Barbaja
nella ballata Il re e lo zingaro ripropone la figura del gitano come
eroe di un irriducibile nomadismo verso la libertà. E nel 1976 Claudio
Lolli interpreta Ho visto anche degli zingari felici, in cui i
protagonisti giocano un ruolo politico-profetico all’interno di un
racconto dallo stile espressivo-visionario. E, ancora, nel 1978,
Fabrizio De André canta Sally, Francesco De Gregori Due zingari e
Umberto Tozzi Zingaro.
AL PERSONAGGIO del gitano si continuano ad
attribuire tratti fiabeschi: lo zingaro sembra capace di raggiungere
quelle mete dell’interiorità, della libertà, della consonanza con la
natura, il cui senso per le comunità sedentarie e confinate nelle città
moderne è smarrito. E c’è un verso, nella canzone di Tozzi, che, letto
ora, appare davvero “scandaloso”: «La scuola ti ruba i figli e non sono
più tuoi».
SONO PAROLE che oggi nessuno potrebbe permettersi.
Frequentare la scuola pubblica è unanimemente considerata la principale,
forse l’unica forma di integrazione che possa consentire alle minoranze
rom e sinti una convivenza pacifica con gli altri residenti nel
territorio e un progressivo accesso al sistema della cittadinanza. E
dunque, quella frase – se fosse riproposta ai giorni nostri – suonerebbe
come l’affermazione di un relativismo radicale fondato su una sorta di
mito del buon selvaggio. Un mito indirizzato contro il progresso e
contro le sovrastrutture prodotte dai processi di civilizzazione («la
scuola che ruba i figli»). Al di là del fatto che si tratta di
un’assoluta scempiaggine, è indubbio che chi oggi ripetesse
quell’affermazione, e violasse l’obbligo scolastico per i propri figli,
si troverebbe (dovrebbe trovarsi) i carabinieri alla porta.
MA, A
PRESCINDERE da questi accenti estremi, ciò che conta è che fino a non
molti anni fa, nell’immaginario culturale e sociale del nostro paese, la
figura dello zingaro e della zingara abbia conservato quei connotati di
romanticismo magico e di vitalismo naturalistico di cui si è detto.
E
la parola «zingaro», con questa forza evocativa, sopravviverà a lungo
nella musica leggera italiana così come nella letteratura, specie in
quella popolare.
esmeralda barbie
Non solo. Nel 1995 la
Mattel lancerà sul mercato Esmeralda, la bambola zingara della linea di
Barbie, parallelamente al successo mondiale del film Disney Il gobbo di
Notre Dame.
E in Italia, per anni (dal 1996 fino al 2002), il
programma televisivo preserale con i maggiori indici di ascolto vide
come protagonista Cloris Brosca nei panni della Zingara, che leggeva le
carte e prediceva il futuro.
In tutte queste rappresentazioni, lo
zingaro e la zingara trasmettono un’immagine che evoca, per un verso,
uno stile di vita fuori da regole e convenzioni sociali e, per un altro,
ambientazioni agresti e scenari esotici.
Insomma, lo zingaro è il
prototipo di un eroe premoderno e preindustriale, ispirato a valori
forti e incontaminati, che rimandano allo spirito di una comunità
chiusa, alla contrapposizione natura-cultura e al conflitto perenne tra
integrazione e ribellione. E, invece, decenni dopo, le ultime tracce che
se ne ritrovano nella musica leggera sembrano registrare un drastico
cambiamento di clima e di senso comune.
CHI PERCEPISCE tutto
questo e le radici profonde, anche sovranazionali e geopolitiche, che lo
determinano è Fabrizio De André che, nella splendida Khorakhané, canta:
«I figli cadevano dal calendario/ Jugoslavia Polonia Ungheria/ i
soldati prendevano tutti/ e tutti buttavano via». E questo porta a
scoprire, in mezzo a noi, che «in un buio di giostre in disuso/ qualche
rom si è fermato italiano/ come un rame a imbrunire su un muro». E il
paesaggio sociale e urbano ne risulta segnato: «Il cuore rallenta la
testa cammina/ in quel pozzo di piscio e cemento/ a quel campo strappato
dal vento/ a forza di essere vento».
E così questo ribaltamento
dell’antico stereotipo porta all’acutizzarsi del pregiudizio e a una
crescente ostilità, cantata dai Punkreas, nel 2000, con questi versi
sarcastici: «Chiudete le finestre sbarrate le persiane/ pericolo in
città di nuovo queste carovane/ nomadi gitani con abiti sfarzosi/ si
nota a prima vista che son pericolosi/ cara io vado dai vicini tu chiudi
con la chiave e porta su i bambini/ se fanno i capricciosi e non
vogliono dormire/ racconta che gli zingari li vengono a rapire».
COME SI VEDE a questo punto e a questa data, la catastrofe sociale e culturale si è già consumata.
E
così nel 2015, un giovane autore, Calcutta, scrive: «Suona una
fisarmonica/ fiamme nel campo rom» e nel 2016 un gruppo rock, gli Zen
Circus, nel brano Zingara (Il cattivista) dà ironicamente espressione a
un diffuso sentimento di intolleranza: «Zingara che cazzo vuoi io so che
cosa fai/ stringo il portafogli vai via o chiamo la polizia/ ma quanto
puzzerai tu non ti lavi mai/ zingara ci fosse lui vi bruciava tutti sai/
se siete ancora qui è colpa dei buonisti».
Insomma si registra
una sorta di aggiornamento, in chiave di cronaca nera e di
stigmatizzazione criminale, dell’immagine popolare dello zingaro.
Tratto
da un capitolo di «Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e
gli imprenditori politici della paura», di Luigi Manconi e Federica
Resta, Feltrinelli editore