il manifesto 1.9.17
I due psicologi delle torture Cia
Stati
uniti. Scomparsi nei «buchi neri» dei servizi, appesi, incatenati,
isolati, privati del sonno. Ma ora gli ex prigionieri Usa in Afghanistan
saranno risarciti. Pagheranno gli ideologi della «guerra al terrore»,
vittoria senza precedenti. E stavolta il Dipartimento di Stato non muove
obiezioni
di Giuliano Battiston
Nel novembre
2002 Gul Rahman, cittadino afghano rifugiato in Pakistan, è morto
assiderato in un «buco nero», una delle carceri segrete gestite dalla
Cia in Afghanistan.
Nell’agosto 2017 due psicologi assoldati dalla
Cia sono stati costretti a risarcire i famigliari. Il risarcimento da
parte degli psicologi, chiamati dalla Cia a ideare, modellare e
perfezionare il sistema di interrogatori e torture dopo l’11 settembre, è
una novità assoluta, nota Kate Clark sul sito dell’Afghanistan Analysts
Network.
E apre le porte a possibili, nuove cause legali. Che
potrebbero coinvolgere, dopo molti anni di impunità, anche i funzionari
governativi responsabili di abusi e torture. Che a volte hanno condotto
alla morte. Come nel caso di Gul Rahman.
LA SUA STORIA PRENDE una
svolta improvvisa e drammatica il 29 ottobre del 2002. Fuggito in
Pakistan dopo l’invasione americana con la moglie e le quattro figlie
per sfuggire alla guerra, quel giorno Gul Rahman raggiunge Islamabad per
un controllo medico.
Lì incontra Ghairat Bahir, genero di
Gulbuddin Hekmatyar, il leader dell’Hezb-e-Islami, il gruppo armato che,
fino a pochi mesi fa, ha condotto una guerriglia contro il governo di
Kabul. Entrambi vengono sequestrati da agenti americani e pachistani e
poi trasferiti in Afghanistan.
Mohamed Ben Soud
Finiscono in
uno dei tanti «buchi neri» della guerra al terrore. Luoghi occulti,
gestiti dai servizi segreti, dove gli interrogatori diventano abusi e
torture. A loro capita un carcere poco distante dalla capitale Kabul, in
seguito noto come «Cobalt».
Subiscono una serie di torture. Il
genero di Hekmatyar sopravvive. Gul Rahman rimane stecchito sul
pavimento di una cella, dopo due settimane di abusi da parte di un team
che include anche uno psicologo, John «Bruce» Jessen.
L’AUTOPSIA E
IL RAPPORTO interno della Cia dicono che sia morto probabilmente per
ipotermia, «in parte causata dall’essere stato costretto a stare sul
nudo pavimento di cemento senza pantaloni», oltre che per
«disidratazione, mancanza di cibo, immobilità» dovuta a catene troppo
corte.
Nessuno ritiene di avvertire la famiglia. Che lo cerca
dappertutto. Invano. A lungo. Fino a quando, nel 2010, arriva
un’inchiesta dell’Associated Press: è stato ucciso in Afghanistan, dopo
essere finito nelle mani Cia.
GUL RAHMAN è rimasto vittima delle
tecniche di interrogatorio messe a punto da due psicologi, James
Mitchell e John «Bruce» Jessen. Assoldati dalla Cia, i due hanno messo
le loro competenze medico-professionali al servizio della «guerra al
terrore». Un paradigma politico-militare in cui siamo ancora immersi.
Suleiman Abdullah
Dal
raggio globale: intentata nell’ottobre 2015 dall’American Civil
Liberties Union (Aclu), la causa contro gli psicologi oltre ai
famigliari di Gul Rahman riguarda due sopravvissuti alle torture. Hanno
condotto vite molto diverse, in luoghi molto distanti tra loro, prima di
finire nello stesso buco nero afghano. Si tratta di Suleiman Abdullah
Salim e Mohamed Ahmed Ben Soud.
IL PRIMO, PESCATORE, è nato a
Zanzibar, in Tanzania. Sequestrato dalle forze di sicurezza keniane e
dalla Cia nel marzo 2003 a Mogadiscio, in Somalia, dove lavorava e si
era sposato, sottoposto a interrogatori feroci in Kenya, è finito poi
nella stessa prigione di Gul Rahman, Cobalt, nei pressi di Kabul.
Come
lui, è stato brutalmente torturato. Trasferito nel maggio 2003 in un
altro buco nero della Cia in Afghanistan, Salt Pit, vi è rimasto per 14
mesi, in isolamento.
NEL LUGLIO 2004 è stato condotto nel carcere
interno alla base aerea di Bagram, 40 km a nord di Kabul, gestita dalle
forze americane. È stato rilasciato soltanto il 17 agosto 2008, quando è
stato accertato che «non pone alcun pericolo alle forze armate
americane o ai loro interessi in Afghanistan».
Per la Cia era
pericoloso anche Mohammed Ahmed Ben Soud, un dissidente libico
trasferitosi in Pakistan, dove è stato sequestrato dalla Cia nell’aprile
2003, su suggerimento di Gheddafi. Finito nello stesso buco nero fuori
Kabul, Cobalt, è stato torturato per un anno, nudo, incatenato al muro,
in isolamento, in una cella sotterranea, ficcato in una scatola ampia
meno di mezzo metro, appeso a una sbarra, immerso nell’acqua gelida,
privato del sonno. Nell’aprile 2004 è stato portato in un’altra prigione
segreta afghana gestita dalla Cia.
Gul Rahman
Gul Rahman
MAI
INCRIMINATO formalmente, nell’agosto 2005 è stato spedito in Libia e
imprigionato per altri cinque anni, fino al rovesciamento del regime di
Gheddafi. Oggi Mohammed Ahmed Ben Soud vive con la famiglia a Misurata.
Suleiman Abdullah Salim vive a Zanzibar. Gul Rahman è morto.
Sono
soltanto 3 dei 119 nomi inclusi in un rapporto sul programma di tortura e
rendition (trasferimenti forzati) della Cia, redatto dal Comitato
sull’Intelligence del Senato statunitense e pubblicato nel dicembre
2014. Di questi, almeno 59 avrebbero subito torture.
Qualcuno,
come Mohammed Ahmed Ben Soud e Suleiman Abdullah Salim, ha deciso di
chiedere conto delle sofferenze fisiche e psicologiche subite. Con i
famigliari di Gul Rahman e con l’aiuto dell’Aclu i due hanno chiamato in
causa gli psicologi responsabili delle tecniche di interrogatorio.
Finora,
come spiega in modo dettagliato Kate Clark, simili tentativi erano
finiti nel vuoto, a causa della necessità di proteggere la «sicurezza
nazionale» e i «segreti di Stato». Ma la pubblicazione del rapporto del
Senato americano, in cui sono elencate nero su bianco alcune delle
torture della Cia, ha fatto venire meno quel pretesto.
Secondo
quanto riportato dall’Aclu, a differenza che in passato questa volta il
Dipartimento di giustizia americano non ha ostacolato la causa.
E
GLI PSICOLOGI, dopo aver opposto obiezioni su obiezioni, hanno preferito
trovare un accordo, prima che il processo, previsto per il 5 settembre,
avesse inizio. La somma concordata per il risarcimento è segreta. A ben
vedere è poco importante. Quel che conta è il cambiamento
significativo, celebrato dall’Aclu.
L’esito della causa, ha
sostenuto Laden Dror, avvocato dell’American Civil Liberties Union, «è
un ammonimento per chiunque pensi di poter torturare impunemente».
Perfino nei buchi neri della Cia in Afghanistan.
***
Le loro «tecniche» approvate dal Dipartimenti di giustizia di Bush
Secondo
quanto scrive l’Aclu sulla base del decisivo rapporto sulle torture
della Cia redatto dal Comitato sull’intelligence del Senato americano,
James Mitchell e John «Bruce» Jessen, «basandosi sulla loro esperienza
come psicologi e su esperimenti condotti sui cani negli anni Sessanta…»,
«hanno suggerito che i prigionieri della Cia dovessero essere
psicologicamente distrutti infliggendo loro acuti dolori e sofferenze
mentali e fisiche». Per i due psicologi, indurre uno stato di «inutilità
acquisita» avrebbe eliminato ogni resistenza nei detenuti.
Il loro programma, nota l’Aclu, «non prevedeva soltanto la tortura sui prigionieri, ma esperimenti su di loro».
Mitchell
e Jessen non si sono limitati a teorizzare l’utilità della tortura, ma
l’hanno anche praticata: oltre ai tanti successivi, hanno personalmente
condotto il primo interrogatorio della Cia che seguiva le loro «tecniche
di interrogatorio avanzate», contro Abu Zubaydah.
Nessuno dei due
«aveva alcuna esperienza negli interrogatori, né una conoscenza
specialistica su al-Qaeda, sul terrorismo, o alcuna rilevante conoscenza
regionale, culturale o linguistica». Eppure, le loro tecniche di
interrogatorio sono state approvate dal Dipartimento di Giustizia, sotto
la presidenza Bush.
Per mettere in pratica e ridefinire il
programma di interrogatori, per ben otto anni la Cia «ha pagato i due
psicologi, e l’azienda da loro fondata, decine di milioni di dollari».
La
loro responsabilità è enorme: Mitchell and Jessen «hanno definito le
violente procedure, le condizioni e il trattamento crudele imposto sui
prigionieri durante il loro trasferimento e nella successiva detenzione,
e orchestrato gli strumenti di tortura e i relativi protocolli, hanno
personalmente torturato i detenuti e addestrato il personale della Cia
nel gestire le tecniche di torture».
In evidente conflitto di
interessi, avevano inoltre il compito «di valutare l’’efficacia del
programma da cui traevano enormi profitti».