venerdì 1 settembre 2017

il manifesto 1.9.17
Auschwitz, la parola che fa ammutolire
Un'intervista con Franco Berardi Bifo che ha rinunciato alla sua performance a Kassel, dopo le polemiche suscitate dal titolo «Auschwitz on the beach»
di Lorenza Pignatti


KASSEL Alcune parole sembrano essere impronunciabili, tale è la loro forza e risonanza nell’immaginario collettivo. Una di queste è indubbiamente Auschwitz, come dimostra il clamore che la performance Auschwitz on the beach di Franco Berardi Bifo, Dim Sampaio e Stefano Berardi (era programmata per documenta14 a Kassel, dal 23 al 26 agosto), ha suscitato nella stampa internazionale e nella comunità ebraica, tanto da condurre alla sua cancellazione. In un incontro pubblico, ospitato in The Parliament of Bodies, Berardi ha spiegato le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere quel testo per la performance dall’innominabile titolo.
Era consapevole che la sua performance avrebbe suscitato tanto scalpore?
Dopo molte esitazioni, avevo deciso di usare l’espressione provocatoria Auschwitz on the beach affinché quel nome potesse essere uno «scudo», una protezione contro il pericolo, a mio parere sempre più attuale, che Auschwitz ritorni. Gunther Anders, nel libro Noi figli di Eichmann, nel 1967 scrisse di un possibile ritorno del nazismo in una società in cui la tecnica ha il sopravvento sull’uomo. Non è forse Auschwitz il primo esperimento di una gestione industrializzata e tecnologica dello sterminio? Quello a cui assistiamo oggi è l’inizio di uno sterminio basato sulla supremazia razzista. Pensiamo agli oltre 30mila migranti morti nel Mediterraneo negli ultimi quindici anni e alle decisioni politiche di far rimpatriare i migranti in Libia, dove è probabile che siano torturati o uccisi. E poi si descrivono le Ong – come Medici senza frontiere – in veste di taxisti del mare, quando invece sono organizzazioni che salvano la vita a migliaia di persone. Sterminio su base etnica. Non è forse legittimo ravvisare gli estremi del nazismo e della supremazia razziale?
Kim Jong-un ha dichiarato che gli occidentali devono smettere di pensare che le guerre riguardino solo gli altri paesi perché ora anche loro sono in grado di portare la morte. E sappiamo che questo è vero, così come sappiamo che dopo l’11 settembre, con la guerra voluta dagli Stati Uniti, un esercito di suicidi terrorizza le città europee, da Parigi a Berlino, da Nizza a Barcellona.
Ricordo quando nel 2004 hoguardato le immagini delle torture di Abu Ghraib in televisione. Ho subito pensato alle conseguenze che quelle immagini avrebbe potuto avere sui milioni di bambini mediorientali che le vedevano non solo in Iraq, in Egitto o in Afghanistan ma anche a Parigi o a Londra. Ora ne conosciamo le conseguenze con i kamikaze che si tolgono la vita indossando cinture esplosive o guidando furgoni per uccidere persone che passeggiano nelle città europee, ed è nostro compito cercare di cambiare tale deriva disumana. La pace, l’accoglienza e la solidarietà sono gli unici modi da attuare per sfuggire a una guerra che stiamo già perdendo, che distruggerà la nostra vita quotidiana e le nostre città.
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Al posto della performance è stato organizzato un incontro pubblico che è stato molto emozionante. Si aspettava tanta partecipazione?
Si era acceso un acceso dibattito dopo che la stampa – tedesca, americana, inglese – aveva criticato la performance e alcuni centri di cultura ebraica avevano accusato gli organizzatori di documenta14 di violenza simbolica contro la memoria. Oltre ad aver cancellato la performance, prima dell’incontro pubblico serale, io, Paul B. Preciado e Adam Szymczyk, rispettivamente direttore del programma pubblico e direttore artistico della mostra, ci siamo recati al principale centro ebraico della città.
Abbiamo discusso le nostre motivazioni, i rappresentanti hanno riconosciuto che la performance non aveva un carattere antisemita, pur ribadendo che Auschwitz appartiene alla storia e alla memoria ebraica, e hanno ricordato che nel 1938 gli ebrei tedeschi subirono da parte delle autorità americane e inglesi lo stesso rifiuto che oggi i migranti ricevono dalle autorità europee. Un numero incalcolabile di ebrei sono morti nei campi di concentramento nazisti perché inglesi e americani rifiutarono di accoglierli come rifugiati, con le stesse motivazioni con le quali oggi i governi europei respingono siriani o nigeriani. Diversi rappresentanti sono venuti anche all’incontro serale, intitolato Shame on us. La loro presenza è stata determinante per decostruire i malintesi e riflettere sull’emergere di nuove forme di razzismo. Pur non rinunciando alle mie motivazioni politiche e filosofiche, ho riconosciuto di non avere il diritto di procurare ulteriore dolore alla comunità ebraica, e ho annullato la lettura del testo scritto per la performance.
«Shame on us» è stato quindi il titolo dell’incontro…
Diversi messaggi ricevuti dai nostri accusatori ci dicevano che dovevamo vergognarci. E, in effetti, è accaduto: la vergogna riguardava però il fatto che nessuno di noi riesce a fermare le forme di fascismo che scandiscono l’agenda mediatica nazionale e internazionale. Mi preoccupa l’impotenza rispetto agli atti di brutalità a cui stiamo assistendo. Nel giugno 2016, mentre gli inglesi votavano per la Brexit e gli americani ascoltavano Trump, Zbigniew Brzezinski ha pubblicato un articolo intitolato Toward a Global Realignment. Nel testo rifletteva su quanto i massacri e le guerre compiute dai colonizzatori occidentali si siano risolti nello sterminio dei popoli colonizzati: la scala era paragonabile ai crimini del nazismo della seconda guerra mondiale, provocando centinaia di migliaia e talvolta milioni di vittime. Dovremmo accusare Brzesinski di antisemitismo e di relativizzare il nazismo? Non direi. Il politico americano di origini polacche, consigliere durante la presidenza di Jimmy Carter, scrive che il nazismo è l’aspetto più disumano che abbia caratterizzato la storia della nostra specie. Tale disumanità sta riemergendo nella società contemporanea sia come vendetta da parte degli oppressi, sia come sommossa razzista da parte della popolazione bianca che si sente minacciata e impotente rispetto alla perdita di potere e alla propria supremazia razziale.
Sta facendo riferimento agli eventi di Charlotteville?
Non solo a quelli. Sarebbe ingenuo circoscriverli agli Stati Uniti. L’arrogante supremazia razziale, che è parte della storia del colonialismo occidentale, ha portato all’elezione di Trump, alla Brexit, e alle tante manifestazioni di intolleranza e razzismo a cui assistiamo ogni giorno. Solo l’Internazionalismo proletario avrebbe potuto evitare che la resa dei conti del colonialismo passato e contemporaneo diventasse un bagno di sangue planetario. Ma il comunismo è stato sconfitto e ora vi è la guerra di tutti contro tutti in nome di niente.
Nel corso della sua lunga carriera si è occupato di politica, attivismo, «cognitariato» e semiocapitalismo. Nei suoi ultimi testi, in particolare modo il romanzo «Morte ai vecchi» e «Heroes. Suicidio e omicidi di massa», i toni sono diventati più distopici, terminali: perché?
Forse la risposta a questa domanda sta nelle cose, non nella mia personale evoluzione. La sconfitta del comunismo (della quale i comunisti sono i primi a portare la responsabilità) ha cancellato l’orizzonte internazionalista, cioè l’orizzonte di una possibile solidarietà tra gli oppressi e gli sfruttati, tra operai occidentali e masse dei paesi colonizzati. Ogni forma di solidarietà è stata cancellata dal prevalere dell’ideologia neoliberale e dalla precarietà. Competizione è diventato l’imperativo di ogni relazione sociale.
Ora siamo alla precipitazione: gli effetti di trent’anni di egemonia neoliberale e di capitalismo finanziario hanno distrutto il tessuto sociale nei paesi occidentali, e hanno reso possibile una diffusione degli armamenti più distruttivi. L’apocalisse è all’ordine del giorno, non perché la vede qualche esagerato come me, ma perché il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta (Lenin).