Il Fatto 1.9.17
Segre scuote “L’ordine delle cose” sui migranti
di Federico Pontiggia
“La
situazione è grandemente complessa: è la prima volta che chi subisce le
condizioni più pesanti decide di muoversi a piedi. Camminare per venire
qui da noi, con il Sahara in mezzo. E noi, che facciamo? Ci occupiamo
solo del punto di contatto, di Lampedusa. Non è umano, è folle”. Andrea
Segre porta alla Mostra del Cinema di Venezia, e dal 7 settembre in
sala, il suo terzo lungometraggio di finzione, L’ordine delle cose.
Problema, finzione non è: il protagonista Corrado Rinaldi (un grande
Paolo Pierobon) è un funzionario del ministero degli Interni impegnato a
contrastare l’immigrazione irregolare nella Libia post-Gheddafi. Si
direbbe un instant-movie, se non fosse che il cinema per stare al passo
con la realtà ha una sola possibilità: pre-vedere.
Segre ha
previsto cinque anni fa, osservando le operazioni di Mare Nostrum, e
scoprendo il lato oscuro che montava dietro il salvataggio dei migranti,
ovvero l’aggiramento della condanna comminata all’Italia dalla Corte
europea dei Diritti di Strasburgo nel marzo del 2012 per i respingimenti
verso la Libia attuati dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Un
progetto, bloccare i migranti prima che prendano il mare, su cui il
regista veneto ha scommesso: “Che diventasse attualità è successo, ma
noi cerchiamo di andare oltre, portando sullo schermo interrogativi
universali, profondi”. Nel cast Giuseppe Battiston e Valentina
Carnelutti, prodotto da JoleFilm con Rai Cinema, patrocinato da Amnesty
International, Medici per di Diritti Umani e Naga onlus, L’ordine delle
cose si scuote allorché Corrado incontra Swada (Yusra Warsama), una
donna somala che vorrebbe raggiungere il marito in Europa: che succede
quando le ragioni dell’umanità confliggono con la ragion di Stato?
“Andrebbero invertiti i fattori: la ragione di Stato postula come
inevitabile che non ci si occupi di altri essere umani, ma solo della
nostra vita. E se un giorno il rischio fosse nostro?”. Incalza Segre,
“dal punto di vista politico significa eludere ed elidere i bisogni
dell’essere umano, tra i quali, pensateci, rientra la volontà dei nostri
figli di studiare all’estero”. La decisione di Corrado è inverata dalla
cronaca di questi giorni, “da quel che Gentiloni, Macron e Merkel hanno
appena stabilito per la Libia, vale a dire ‘è un bene fermare i viaggi
così le persone non muoiono, poi cerchiamo di occuparcene in loco’. Al
contrario, servirebbe un’inversione: prima ce ne occupiamo e, dunque,
cerchiamo di eliminare a monte le cause per cui sono costretti a
partire”. Dopo l’acclamato Io sono Li (2011) e La prima neve (2013),
Segre, che nasce e cresce nel documentario, ha optato per un altro film
di narrazione assecondando una teoria di motivi: “Persone che fanno il
lavoro di Corrado nei servizi segreti internazionali non possono
raccontarsi alla luce del sole, ma non è questa la causa principale:
volevo carpirne il valore intimo, psicologico. Inoltre, almeno in
Italia, l’impatto del documentario sulla società dello spettacolo è più
ostico e limitato”. A sgombrare i dubbi sullo statuto ontologico, però,
ci pensa il secondo cartello de L’ordine delle cose, che recita: “I
personaggi e i fatti qui narrati sono interamente immaginari. È
autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”.
Indicazioni
d’uso mutuate da Le mani sulla città di Francesco Rosi, ma oggi il
teatro è purtroppo infinitamente maggiore: il temuto e berciato scontro
di civiltà lascia il posto al mancato incontro, l’indifferenza è il
nuovo esperanto, e la veglia della ragion di stato genera altri mostri.
“Prendiamo paura quando il nostro corpo produce dei mostri, e ci bastano
un Salvini di passaggio, due sassate nel quartiere, i nostri poliziotti
che bastonano donne e bambini. Ma il nostro corpo – osserva Segre – sta
producendo qualcosa di sbagliato: tenere fuori queste tensioni apre
ferite dentro”. L’operato dell’attuale ministro dell’Interno Marco
Minniti, dice Segre, non offre punti di sutura: “È una persona che ormai
tanto tempo fa ha anteposto la ragione di Stato a quella umana, ed è
talmente convinto da non accettare il benché minimo sguardo critico sul
suo operato. Che questo percorso produca dolore nemmeno lo intende,
sostiene che i migranti sono il suo assillo quotidiano, ma se lo fossero
davvero avrebbe invertito l’ordine delle cose”.