Corriere 2.9.17
Le sedute di psicanalisi del giovane Bergoglio e la Chiesa che perde l’esclusiva del conforto
di Pierluigi Battista
La rivelazione: a 42 anni si rivolse a una terapeuta
Dunque
viene confermata un’altra intuizione di Nanni Moretti suggerita in
«Habemus Papam». La prima era la profezia delle dimissioni di papa
Ratzinger, rappresentata con qualche anno di anticipo dal cardinale
interpretato nel film da Michel Piccoli, piegato e tormentato da una
responsabilità per lui insopportabile, talmente insopportabile da
indurlo a una clamorosa, e dolorosa, rinuncia. La seconda intuizione
trova riscontro nella rivelazione dello stesso papa Francesco in un
libro di prossima pubblicazione in Francia di aver cercato sostegno e
cura tutte le settimane per sei mesi con una psicanalista ebrea.
Aveva
42 anni, il Bergoglio non ancora Papa in terapia analitica. Ma è
difficile non pensare al Pontefice appena eletto da un Conclave ispirato
dallo Spirito Santo che nel film di Moretti, in fuga dal Vaticano e
travolto dall’angoscia, si rivolge in incognito alla psicanalista
Margherita Buy per arginare le sofferenze di un implacabile «deficit di
accudimento».
E il cinema e la letteratura, del resto, dicono con
forme espressive di grande efficacia immaginativa ciò che riesce
difficile ammettere nella vita ordinaria, e non solo nell’immenso gregge
dei credenti: e cioè che i sacerdoti, e lo stesso Papa, sono anche loro
creature umane tormentate dalle debolezze, dal senso di inadeguatezza
che perseguita il cardinale che non se la sente di salire al Soglio
pontificio di «Habemus Papam» scritto da Moretti insieme a Federica
Pontremoli e Francesco Piccolo, dal dolore di una perdita, di un
abbandono, di una atroce vergogna del disamore che tortura The Young
Pope interpretato da Jude Law nella serie di Paolo Sorrentino.
E fino
a qui la scoperta potrebbe anche non essere sconvolgente. Ma non è
scontato, e la confessione di papa Francesco ne è una conferma
esplicita, che i dolori, i tormenti, la fatica del vivere, il disagio
disertino il lessico della fede in senso stretto da parte di chi
addirittura dovrebbe custodirne il deposito in questa valle di lacrime
per abbracciare le categorie e le liturgie, proprio di liturgie si
tratta in qualche modo, della scienza psicanalitica. E non è solo perché
il lascito di Sigmund Freud è sempre stato liquidato come inammissibile
ed eretica deviazione di tipo «pansessualistico» nella descrizione
della condizione umana. O anche perché l’avversione della Chiesa verso
la psicanalisi, solo parzialmente bilanciata dall’attenzione critica ma
non demolitoria di un Papa intellettuale come Paolo VI, è sfociata
addirittura nel 1962, in un «Monito» del Sant’Uffizio che impediva
tassativamente ai sacerdoti più esposti alle tempeste della vita di
ricorrere alle terapie messe a punto da Freud o da altre scuole
psicanalitiche. Ma soprattutto perché questo ricorso alla psicanalisi
testimonia di un’incertezza culturale, una non granitica fiducia sulla
solidità di un’intera tradizione in cui la Chiesa, sostenuta da intere
legioni di confessori, preparatori spirituali, docenti di seminari,
maestri di dottrina, è letteralmente la «pietra» su cui si regge un
edificio che ha resistito alle intemperie mondane di secoli e millenni.
Un
edificio in cui la sofferenza, il tormento, il disagio psichico
trovavano nei ministri della fede, e figuriamoci se poteva mancare il
sostegno più prezioso e più prestigioso nel vertice papale, una
risposta, un rimedio, una medicina, un conforto spirituale.
Questa
pretesa di esclusività esistenziale sulle questioni della vita e della
psiche umana, come raccontano i film di Moretti e Sorrentino, è
semplicemente venuta meno. E il ricorso a pratiche su cui la Chiesa ha
esercitato da sempre la cultura del sospetto parla di un cattolicesimo,
certamente più aperto agli influssi del mondo ma anche meno saldamente
certo di sé.
L’inconscio, si diceva negli ambienti più conservatori
della Chiesa, è la voce del demonio. Molto è cambiato, nel frattempo.
Già quando il Papa non era ancora Papa, ma la psicanalisi aveva già
vinto la sua battaglia.D’Alema: una volta si pensava a salvare ora a
respingere Il patto con la Libia? Grande cinismo
LIVORNO È stato un
suo ministro, Marco Minniti, e un compagno di partito già ai tempi del
Pci e Massimo D’Alema non nega le doti dell’uomo e la sua capacità di
stare fuori dalle correnti. «È tecnicamente bravo e si è sempre occupato
di sicurezza», spiega durante un’iniziativa organizzata da Mdp a
Livorno. Ma sull’immigrazione e l’accordo con la Libia non risparmia le
critiche. «Siamo passati da una politica nella quale la priorità era
salvare le persone a un’altra in cui la priorità è respingerle. Minniti
ha firmato un accordo simile a quello che sottoscrisse Berlusconi con
Gheddafi e che precedentemente il governo Prodi aveva respinto perché
non dava garanzie sui diritti umani».
Secondo D’Alema, fermando i
flussi dei migranti in mare aumenta enormemente il numero delle persone
che muoiono nel deserto. «E quelli che riescono ad avvicinarsi alla
costa sono rinchiusi dai libici in campi di concentramento nei quali non
esistono diritti e le donne vengono violentate. È stato fatto un
accordo facendo finta di non guardare, con grande cinismo». Infine una
stoccata al segretario del Pd: «Quando Renzi parla di aiutare i migranti
a casa loro dice una cosa falsa. Noi non li aiutiamo a casa loro ma
diamo soldi ai libici per fermarli nel deserto e rinchiuderli in campi
di concentramento».
La Stampa 2.9.17
Perché la “confessione” del Pontefice è rivoluzionaria
In Italia la Chiesa spinse per mettere Freud fuorilegge
di Fabio Martini
C’è
qualcosa di rivoluzionario nella confessione di papa Francesco di
essere andato in analisi, di averne tratto giovamento e di essersi fatto
curare da una psicoanalista. Sin dai primi del Novecento la Chiesa ha
sempre osteggiato con tutti i mezzi, anche “illegali”, la psicoanalisi,
avvertita come pericolosa concorrente, come “colpevole” di aver infranto
il monopolio cattolico nel confessionale e nella introspezione delle
anime. Certo il capo di accusa non è mai stato dichiarato
esplicitamente, ma per almeno 50 anni si è sviluppata una guerra senza
quartiere contro una disciplina “eretica” fondata dall’ebreo Sigmund
Freud.
La psicoanalisi è stata disciplina, almeno in Italia, vissuta
come destabilizzante da tutti i poteri costituiti. Agli albori la
contrastano non solo la Chiesa, ma anche il fascismo, l’idealismo
crociano e nel secondo dopoguerra il Pci di influenza sovietica. E
infatti all’inizio degli Anni Trenta i pionieri, non per caso, sono due
ebrei - Edoardo Weiss ed Emilio Servadio - e due antifascisti
socialisti, Cesare Musatti e Nicola Perrotti.
Il Vaticano è ostile
perché intuisce nella psicoanalisi una pericolosa concorrente. Ne
denuncia il «pansessualismo» e il «materialismo», ma di quelle teorie
ancora più inquieta l’ambizione «totalitaria», un’attitudine che finisce
col sottrarre alla Chiesa il monopolio dell’anima e i tanti segreti
personali, fino a quel momento custoditi in confessionale. E crolla
persino il monopolio sull’attività onirica, rispetto alla quale la
Chiesa aveva elaborato, ben prima di Freud, una sua «Interpretazione»,
per la quale attraverso i sogni è il diavolo che vuole catturare
l’anima. Ecco perché la Chiesa nel 1934 chiede a Mussolini – e ottiene –
la soppressione della “Rivista italiana di psicoanalisi”, alla quale
seguirà cinque anni dopo lo scioglimento della pur piccola Società
italiana di psicoanalisi. Soffocata sul nascere con l’accordo del
fascismo, la psicoanalisi italiana nel secondo dopoguerra subisce la
ripresa di ostilità da parte della Chiesa, al punto che nel 1952, sul
Bollettino del clero romano, si arriva a qualificare addirittura come
«peccato mortale» ogni pratica psicoanalitica. Una scomunica
apparentemente senza appello, ma che negli anni successivi via via si
scioglie grazie a piccole aperture di papi come Paolo VI e Giovanni
XXIII. Ora Francesco non soltanto ha “sdoganato” la psicoanalisi ma l’ha
elevata a “compagna” dell’anima umana.
Repubblica 2.8.17
La Prozac generation che adora il dio farmaco
di Marco Belpoliti
In
principio, nei primi anni Sessanta, fu il Valium. Poi toccò a Tagamet e
Xanax E adesso, col boom della pillola blu e dell’antidepressivo più
diffuso di sempre, siamo entrati nell’era delle droghe mediche
Il
Valium, creazione di un chimico croato, Leo Sternbach, dipendente della
Hoffmann-La Roche, è un tranquillante basato su una molecola, il
diazepam. Entra nelle farmacie americane nel 1963 soppiantando i
tradizionali
barbiturici nelle sindromi ansioso-depressive; tra il 1969 e il 1982 è
il farmaco più prescritto negli Stati Uniti; nel 1974 il suo nome figura
infatti in ben 70 milioni di ricette stilate da medici di famiglia,
ginecologi, pediatri. Cura l’ansia e la tensione associata a stati di
stress. Lo spodesta un farmaco antiulcera, Tagamet. Nel 1982 la Upjohn
Company realizza invece un ansiolitico a base di alprazolam, molecola
appartenente alle benzodiazepine: lo Xanax, che diventa uno dei farmaci
più utilizzati contro gli attacchi di panico, sebbene sviluppi una
dipendenza sia psicologica che fisica. Nel 1974 tre chimici della Eli
Lilly stanno conducendo ricerche su un composto con effetti analoghi
agli antidepressivi triciclici; dal loro laboratorio nel 1987 nasce un
nuovo farmaco: Prozac. In poco tempo diventa lo psicofarmaco più
prescritto dagli psichiatri americani; dopo quattro anni è il farmaco
più venduto nel mondo. Il Prozac è il più diffuso inibitore selettivo
della ricaptazione della serotonina, neurotrasmettitore del cervello,
che regola sonno e veglia, ipotalamo, ipofisi e varie importanti
pulsioni umane. Sulla serotonina agiscono sia le droghe tradizionali,
derivate da erbe e piante, sia quelle chimiche sintetizzate a partire
dagli anni Quaranta del XX secolo.
Che differenza c’è tra psicofarmaci e droghe? Entrambi contengono sostanze psicoattive. Il farmaco, come sostanza
Come spiega Franca Ongaro Basaglia per noi hanno un alone magico-religioso
che
allevia le sofferenze dell’uomo, è sempre esistito, così come in tutte
le culture sono presenti droghe, sostanze inebrianti cui gli uomini si
sono affidati nella speranza di uscire dai limiti delle proprie
conoscenze o per annullare le sofferenze, come scrive Franca Ongaro
Basaglia. L’evoluzione storica del farmaco procede con l’avanzamento
stesso della scienza, che dissolve progressivamente il mondo magico. Il
farmaco risponde al problema della sofferenza e della morte, la droga a
quella del superamento delle costrizioni imposte dalla vita quotidiana. A
parere del sociologo tedesco Günter Amendt, esperto dell’uso di
sostanze psicoattive, oggi «le caratteristiche chimiche del corpo non
sono più sufficienti per adattare l’organismo sia psichicamente sia
fisicamente alla velocità delle macchine e dei processori. L’uomo vive
in una condizione di permanente sovraccarico e cronica sovreccitazione».
Come aveva pronosticato il filosofo Günter Anders all’inizio degli anni
Sessanta, in L’uomo è antiquato, la trasformazione iniziata in quel
periodo esige qualcosa di eccessivo e con questa pretesa provoca «uno
stato patologico collettivo».
Sotto forma di stimolanti, ma anche di
tranquillanti, le sostanze chimiche sono entrate a far parte del nostro
orizzonte quotidiano. Sono i farmaci consumati quotidianamente da
milioni di persone in America e in Europa a indicare che la barriera che
separava ancora farmaci e droghe è stata abbattuta. Del resto, la
parola “farmaco” nella sua origine greca — pharmacos — descrive sia il
rimedio che il veleno, duplice significato che è presente nella parola
inglese drug: farmaco e anche droga. Esistono le “droghe da lavoro”,
come le anfetamine, sintetizzate in Germania nel 1887, meno potenti
della cocaina, ma più della caffeina, entrate in commercio nel 1932, e
le “droghe del divertimento”, spesso sintetiche (Mdma, Mda, Mdea, Mbdb,
Mdoh). Un settore farmacologico in grande espansione, il cosiddetto
lifestyle segment, comprende il Viagra, le “happy pill” e le “pillola
del dopotutto”.
Molte persone nella loro farmacia casalinga
possiedono una fornitura di ansiolitici. Gli psicofarmaci aiutano a
reggere la flessibilità che è oggi richiesta agli individui, e sono
sostanze molto prossime alle droghe e ai loro effetti. Inoltre, c’è una
questione imposta dalla diffusione delle droghe sintetiche, le
cosiddette “droghe da party”: l’uso edonistico delle sostanze
psicoattive. Sembra tramontato l’uso della droga quale strumento di
conoscenza o d’allargamento della coscienza, come accadeva negli anni
Sessanta e Settanta. Le droghe chimiche svolgono oggi una funzione
decisiva nell’ambito del divertimento. Il loro abuso poi è affidato a
una sorta di autogestione dei singoli, sia per quanto riguarda i farmaci
psicotropici, come le benzodiazepine, sia per le sostanze sintetiche.
Il rapporto tra farmaci legalmente disponibili e droghe illegali si
trova stretto tra due poli: da un lato, l’intensificazione del lavoro,
il superamento delle strutture temporali (giorno/notte,
feriale/festivo), il dissolvimento dei tradizionali legami sociali e
quelli emotivi; dall’altro, la ricerca di divertimento e felicità
mediante sostanze stimolanti. Negli ultimi decenni si è inoltre
modificata l’idea di sofferenza psichica, grazie alla medicalizzazione
di molti dei sintomi provocati dalle trasformazioni sociali in atto. Con
l’avvento dell’“era Valium”, com’è definita, l’aspetto
medico-psichiatrico e quello afrodisiaco- ricreativo (P. Adamo e S.
Benzoni) si sono mescolati e sovrapposti, producendo nuove mitologie di
massa. L’idea di benessere individuale è in rapido mutamento, come la
stessa idea di “soggetto individuale”.
Negli anni Novanta i romanzi
di Bret Easton Ellis, American Psycho ( 1991) e Glamorama (1998),
raccontavano in modo estremo e provocatorio la trasformazione in corso:
un mondo in cui la psico-farmacologia aveva un’evidente influenza. Un
saggista americano, Randolph Nesse, ha ipotizzato che la bolla
speculativa americana degli anni Novanta sia spiegabile tenendo conto
degli antidepressivi ingeriti dai giovani e rampanti brokers.
Venticinque anni prima Philip K. Dick in Le tre stimmate di Palmer
Eldritch (1965), aveva narrato la vicenda di due imprenditori che
smerciano droghe ai coloni terrestri che vivono su Marte; il primo
diffonde Can-D, sostanza che induce la sensazione di risiedere
felicemente sulla Terra; mentre Palmer Eldritch fornisce Chew-Z,
sostanza che crea sensazioni più interessanti e coinvolgenti, ma che si
rivela la porta d’ingresso in universi strettamente controllati da
Eldritch stesso; un modo per evocare i timori di controllo sociale che
le droghe sintetiche iniziavano a suscitare. Ci stiamo probabilmente
avviando verso un mondo in cui i farmaci-droghe e le droghe- farmaco
diventeranno generi voluttuari alla pari del caffè e del tabacco,
divenendo legali, com’è accaduto nel corso della prima rivoluzione
industriale, come sostiene lo studioso Wolfgang Schivelbusch?
Psicofarmaci e droghe sintetiche renderanno più sopportabile la società
post-postindustriale,
Furono i romanzi di Bret Easton Ellis a raccontare le nuove dipendenze
in
cui ci troviamo a vivere, senza creare dipendenza? Sarà possibile
superare il proibizionismo attuale, che contempla l’uso legale di
psicofarmaci mentre proibisce e criminalizza le droghe? Come scongiurare
l’effetto di controllo che la farmacopea sintetica può assumere sugli
individui?
Domande per cui non ci sono risposte, ma che non potranno più essere ignorate a lungo.
Cosa leggere per saperne di più
Piero Adamo e Stefano Benzoni, Psychofarmers ® (Isbn Edizioni) dizionario sugli psicofarmaci; Günter Amendt,
No
drugs no future (Feltrinelli) e Droghe in lessico postfordista:
dizionario di idee della mutazione (Feltrinelli); Franca Ongaro
Basaglia, Farmaco/ droga in Enciclopedia Einaudi, vol. VI); Wolfgang
Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari (Bruno Mondadori). 9. Fine
Repubblica 2.9.17
La scuola e i limiti della democrazia
di Guido Crainz
È
REALMENTE democratica la nostra università? Questa domanda chiama in
causa nel suo insieme la nostra istruzione pubblica: aiuta realmente a
rimuovere le differenze sociali e culturali di partenza? Due
interrogativi suggeriti dalla sentenza dell’onnipresente Tar del Lazio
che ha dichiarato illegittimo il “numero chiuso” alle facoltà
umanistiche della Università Statale di Milano.
Un “numero chiuso” o
“programmato” è normalmente previsto per Medicina e altre facoltà nelle
quali siano centrali i laboratori o altri strumenti, ed era stato
motivato invece in questo caso dalla carenza di docenti (in coerenza
anche con le indicazioni ministeriali sul rapporto docenti- studenti).
Per molti versi la scelta che era stata compiuta fra tanti contrasti
dall’ateneo milanese chiama in realtà in causa un insieme di nodi che
vanno ben al di là di essa.
RINVIA al più generale ridursi del numero
dei docenti (oltre che alla carenza di strutture e spazi adeguati,
soprattutto nei grandi atenei) ma costringe a una riflessione molto più
profonda.
È stata ricordata quest’anno la Lettera a una professoressa
di don Milani di cinquant’anni fa, e le parti più efficaci di quel
testo erano le tabelle che traducevano in modo “visivo” i risultati di
un’indagine del Censis appena compiuta. Risultava così in modo icastico
che la presenza dei “figli di papà” (quello era il linguaggio e quella
era l’epoca) cresceva in maniera esponenziale nel corso degli studi e
altrettanto drasticamente diminuivano i ragazzi di famiglie povere.
Ampliando almeno un po’ le categorie (e inserendovi ad esempio
l’istituto superiore frequentato) le conclusioni non sarebbero oggi
molto diverse: il che significa che la nostra istruzione pubblica
disattende ancora i dettami del terzo articolo della Costituzione,
secondo il quale è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli
economici e sociali che limitano la reale uguaglianza dei cittadini.
Di
questo stiamo parlando, e anche discutere della decisione presa a suo
tempo dall’Università Statale di Milano ci costringe a misurarci con
nodi immensamente più grandi e assolutamente ineludibili. Senza ignorare
naturalmente gli elementi più diretti sottesi in questo caso alle
opposte opzioni: da un lato il “principio di democrazia” che verrebbe
incrinato dal “numero chiuso” o “programmato” (pur presente, come s’è
detto, in altre facoltà), e sul versante opposto la necessità appunto di
una “programmazione” che renda effettiva e fungibile (o perlomeno, un
po’ meno aleatoria e precaria) la partecipazione degli iscritti alla
vita dell’università. Un’utopia assoluta, certo, ove si pensi alla
realtà dei grandi atenei, e certamente non risolvibile con l’adozione o
meno del numero chiuso (ma forse in questo più generale scenario anche
questa scelta potrebbe cessare di essere un tabù).
In realtà
sarebbero oggi fuori luogo disfide o tenzoni su questo singolo aspetto, e
anche questa vicenda potrebbe favorire invece una riflessione che
guardi al futuro e al tempo stesso vada a fondo sul passato. Ci si
interroghi cioè senza reticenze sul percorso che ha portato alla
situazione attuale. E si inizi da lontano: dalla mancata riforma
universitaria degli anni Sessanta, e dalla “liberalizzazione degli
accessi” all’università che ne costituì il disastroso surrogato, sino
alla inerzia degli anni Ottanta e poi alle vicende più recenti (ivi
compresa la disattenzione per quegli aspetti che la bistrattata “riforma
Berlinguer” pur richiamava: in primo luogo la necessità di sostegni
didattici integrativi capaci di attenuare le carenze di partenza).
È
cresciuto così in modo abnorme il numero di giovani che si sono iscritti
all’università ma non sono riusciti a completare gli studi: in questo
modo un numero crescente di cittadini ha avuto un’esperienza negativa
della nostra massima istituzione culturale, e non possono sfuggire le
conseguenze civili di questa delusione. E come in Assassinio sull’Orient
Express di Agatha Christie, in questa storia non vi è un unico
colpevole ma tutti gli attori vi appaiono in varie forme responsabili:
dal ceto politico a quello accademico e sino alle rappresentanze
studentesche. A esser chiamate in causa dunque non sono solo le scelte
realmente compiute, le riforme rinviate o combattute, ma anche i silenzi
e le inerzie. Di questo stiamo parlando: o perlomeno, di questo
dovremmo parlare.
il manifesto 2.9.17
Liceo breve, fare 4 anni di scuola per anticipare il precariato a vita
di Roberto Ciccarelli
Maturità
in quattro anni, poi al lavoro o, per chi potrà, all’università. La
ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ieri ha firmato un decreto che
avvia un «Piano nazionale di sperimentazione» che coinvolgerà dal 2018
in poi 100 classi in tutto il paese. Al momento la «sperimentazione»
coinvolge solo 11 scuole, sei pubbliche e cinque paritarie, dunque al
Nord, due al Centro, quattro al Sud, per un totale di 60 classi.
Sono
numeri modesti quelli del «liceo breve», e la sperimentazione va presa
per quello che è. Tuttavia ieri il decreto è stato presentato come
l’anticipazione di una riforma auspicata da qualche anno a questa parte
dagli ultimi titolari di Viale Trastevere. È la chiusura del cerchio
della professionalizzazione dell’istruzione pubblica già segnata
dall’obbligo dell’«alternanza scuola-lavoro»; della sostituzione dei
saperi con le «competenze», in nome di un fantomatico allineamento della
scuola italiana a quella «europea». Dove, invece, le soglie sono
diverse e non esiste un orientamento omogeneo.
Questi discorsi, e le
conseguenti deliberazioni, sembrano ignorare la situazione del mercato
del lavoro che penalizza, più di tutti gli altri, proprio i giovani
compresi nella fascia anagrafica tra i 15 e i 24 anni. Senza contare che
la riduzione di un anno della scuola evidenzierà un’altra tendenza
registrata, da ultimi, dai rapporti Almadiploma e Almalaurea: la
differenza tra gli studenti che provengono da famiglie abbienti e dove i
genitori sono laureati e quindi in grado di garantire ai figli
esperienze, cultura, conoscenze e gli studenti che queste possibilità
non hanno., indebolendo ulteriormente il ruolo di ascensore sociale che
la scuola pubblica e statale ha avuto per molti anni. La combinazione di
questi fattori – una didattica orientata alla professionalizzazione e
al teaching to test (insegnamento finalizzato alle risposte ai test) e
l’anticipo dell’ingresso nella precarietà generalizzata – rischia di
ridurre il tempo-scuola e produrre cittadini specializzati, ma non
abituati al pensiero critico. Orientamenti che portano l’Usb scuola a
chiedere ai collegi docenti di bocciare una sperimentazione priva «di
valore pedagogico, ma utile al progetto di smantellamento del sistema
scolastico pubblico e statale in favore della scuola azienda funzionale
al mercato».
Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli
Insegnanti, invita i collegi dei docenti a «esprimere un voto che tenga
conto di tutte le criticità e delle ricadute che l’accorciamento del
percorso di studi potrebbe avere sulla preparazione degli alunni e
sull’organico del corpo docente». Per la Gilda il liceo breve è uno
specchietto per le allodole: «ridurre di un anno l’iter formativo dei
ragazzi non significa garantire automaticamente un posto di lavoro
appena terminata la scuola superiore». C’è anche un motivo di
preoccupazione: «Tagliando di un anno il percorso di studi, si
ridurrebbe anche il corpo docenti. Si tratta di un aspetto che
inevitabilmente suscita preoccupazione»-
Repubblica 2.9.17
Come zittire la lingua indecente del razzismo
di Giancarlo Bosetti
QUANDO
si parla di immigrazione è difficile oggi in Europa che la discussione
si mantenga nei limiti della decenza. Il fatto che siano parte ordinaria
del discorso pubblico i “suprematisti” biondi come l’olandese Geert
Wilders o i “sovranisti” padani come Salvini, rende difficile mantenere
un perfetto aplomb deliberativo, come si conviene di fronte a problemi
assai complessi: siano le occupazioni abusive cronicizzate, la lotta
contro i criminali scafisti, le necessarie azioni europee per lo
sviluppo dei paesi africani o la sempre rinviata legge sulla
cittadinanza.
CON un magnifico eufemismo, l’arcivescovo di Bologna
monsignor Zuppi spiegava ieri su queste pagine che, quando si accumulano
delusioni per una politica che ha il respiro corto dei sondaggi mentre i
problemi sono di dimensioni epocali, «diventano tutti più elettrici,
più offensivi, più difensivi».
Questa “elettricità” peraltro non è un
male temporaneo, ha una estensione globale e tutta l’aria di durare.
Negli Stati Uniti le provocazioni sull’immigrazione e sui messicani — il
muro a loro spese, i bad hombres da cacciare fuori dagli Stati Uniti —
distribuite da Trump in campagna elettorale, e a seguire, hanno come
acciecato i suoi avversari, che si sono involontariamente adagiati ad
apparire come una specie di caricatura del più superficiale, ideologico
cosmopolitismo, quando è noto che il Partito democratico, da Kennedy a
Obama, ha sempre avuto nella gestione dell’immigrazione, liberale,
generosa ma oculata — e sempre connessa con il lavoro e le qualità
professionali dei nuovi arrivati — uno dei suoi punti di forza.
Trump
ha reso impronunciabili parole pertinenti intorno a politiche
ragionevoli di regolazione dei flussi di immigrati. I democratici hanno
come “perso la bussola” di fronte alle oscenità suprematiste; lo ha
scritto il liberal Peter Beinart su The Atlantic. Vittime di quello che
era ed è quasi un trucco consapevole, come ha confessato lo stratega
Steve Bannon, al momento di lasciare la Casa Bianca: vi abbiamo
schiacciati con il nostro nazionalismo economico, voi costretti a
difendere sempre i diritti “degli altri”, avete lasciato per noi “i
nostri”. Eppure era letteratura liberal, quella di Paul Krugman, per
esempio, il quale ha sempre saputo e scritto sul New York Times che
l’ingresso di migranti privi di qualificazione professionale produce un
doloroso conflitto con i lavoratori di casa, che sentono il peso fiscale
dei nuovi arrivati.
Qualcuno immagina che in America come in Europa
questo sia un conflitto da non gestire? O che il tema sia un monopolio
dell’estrema destra sovranista? Solo nel mondo utopico (o distopico) di
Milton Friedman si poteva pensare di sopprimere ogni forma di assistenza
statale e dare il via libera a tutta l’immigrazione del mondo, a
piacere, purché restasse illegale. Ma il padre dei “Chicago Boys”
apparteneva appunto a quella vena neoliberale, imparentata con
l’anarchia, (There is no such thing as society, vero? amici della
Thatcher).
Analogamente in Europa una destra furiosa ed estremista,
guidata dagli «imprenditori della paura», denunciati qui da Emma Bonino,
e particolarmente poveri di qualche plausibile e responsabile agenda di
governo, si scatena su qualunque episodio di cronaca per generalizzare
il suo sciovinismo, con l’effetto di scatenare una contabilità etnica
degli episodi di violenza, ma anche di paralizzare un possibile e
necessario confronto pubblico sulle cose che si possono e debbono fare.
In
questo contesto violentemente “elettrizzato” è apparso quasi
sorprendente che il ministro degli Interni italiano sia riuscito a
realizzare, mantenendo un profilo molto sobrio, e d’intesa, si capisce,
col primo ministro, una serie di azioni concertate: la collaborazione
delle navi del volontariato con la magistratura nella lotta contro gli
scafisti, il dialogo con la Conferenza episcopale per la difesa della
legalità, il coordinamento delle operazioni con autorità libiche
nazionali e locali, l’intesa con l’Unione e con i partner europei, con
l’Unhcr e i libici per gli aiuti e la gestione dei campi, e per
un’azione di più lungo periodo. Azioni concertate che di fatto hanno
provocato un blocco dei flussi e un positivo collasso della contabilità
delle vite perse in mare. Si tratta di una inversione di tendenza, che
può giovare a qualche più serena riflessione. E si spera anche che un
clima migliore favorisca l’approvazione al Senato del benedetto Ius
soli, un debito italiano che ha una storia molto lunga, di morosità.
Ma
anche il ministro Minniti ha pagato pedaggio alle tensioni partigiane
in circolo: per giustificare il suo operato ha parlato di un rischio per
«la tenuta democratica del Paese».
Questo è un concetto che
appartiene al linguaggio e alla storia della sinistra dalla quale
Minniti proviene, dal Pci al Pd, come ha ricordato lui stesso. E quelle
parole, un po’ demodé, appartengono a tempi di forte preoccupazione per
l’unità della nazione, per la difesa delle istituzioni repubblicane, di
fronte al terrorismo o al rischio di avventure golpiste. È stata
giudicata una potenziale concessione all’allarmismo apocalittico dei
sovranisti. Forse, ma diversi severi censori delle sue parole,
appartenenti allo stesso partito, hanno riconosciuto di condividere e
approvare l’operato del ministro.
Questi avrebbe potuto più
semplicemente ricordare che il diritto all’immigrazione non è
illimitato, ma trova il suo limite, in una prospettiva liberale e
democratica, nel diritto di una comunità a difendere le condizioni della
propria riproduzione sociale, della propria continuità civile e
amministrativa, anche in situazioni di rapido mutamento. Diverso
naturalmente il caso delle emergenze umanitarie, dei rifugiati politici,
dei profughi forzati da circostanze eccezionali, ma è evidente nella
fase più recente che, rispetto a questi, è netta la prevalenza dei
migranti economici. Sulla difficoltà di tracciare queste distinzioni (di
fronte a situazioni estreme dovute non solo alla guerra e alle
persecuzioni ma anche al clima e alla povertà) e sull’estensione dei
limiti di questi diritti in conflitto è legittima e necessaria una
discussione civile, per quanto inevitabilmente appassionata.
È certo
in ogni caso che il diritto all’immigrazione non può essere riconosciuto
come proporzionale soltanto alla capacità produttiva delle
organizzazioni criminali che trasportano migranti. E questa era la
situazione dalla quale forse stiamo uscendo.
il manifesto 2.9.17
Diritti civili, un’Italia in cui non ci riconosciamo più
Fascismo.
Di fronte a quello che sta accadendo, in Italia ci vorrebbero dieci,
cento, mille manifestazioni contro l’odio razzista e fascista. Esiste un
mondo di persone, associazioni, ong che non si riconoscono più
nell’Italia che attacca e insulta le Organizzazioni non governative, la
presidente della Camera Laura Boldrini, Roberto Saviano o Christian
Raimo
di Patrizio Gonnella
Lo scorso fine settimana in
California ci sono state manifestazioni contro l’odio. Prima a San
Francisco e poi a Berkeley. Dopo i fatti di Charlottesville in Virginia
dello scorso 12 agosto la destra razzista bianca, nascosta dietro sigle
religiose e nazionaliste, ha continuato nelle sue provocazioni.
Erano
annunciate due conferenze del Patriot Prayers Group a San Francisco e a
Berkeley. Uno dei tanti gruppi dietro i quali si camuffano i
suprematisti bianchi. Nelle due città sono state organizzate due
contro-manifestazioni, tenute in piedi anche quando le autorità locali
hanno vietato le conferenze del gruppo razzista per motivi di ordine
pubblico. Un Rally spontaneo, colorato.
A San Francisco la
manifestazione è partita dalla Harvey Milk Square, nel quartiere di
Castro. La comunità Lgbt e le sue bandiere erano tutte schierate in
prima fila contro l’odio bianco razzista. Insieme a loro la gente comune
progressista che vive a Mission, Castro, Height-Asbury. Ma anche
artisti come MC Hammer.
L’AMERICA DEI DIRITTI civili è tornata in
piazza, rumorosamente e orgogliosamente. Sin dalla mattina presto si
potevano incontrare persone che nel lento e assolato fine settimana si
dirigevano con i propri cartelli all’appuntamento.
Con Trump i
razzisti hanno alzato la testa. Trump che ha graziato l’ex sceriffo
dell’Arizona Joe Arpayo, suo sostenitore, condannato per le violenze e
gli abusi nei confronti degli immigrati di origine latinoamericana e per
violazioni ripetute dei diritti umani. Tra i manifestanti nessuno aveva
timore di associare razzismo e fascismo.
DOVE C’È RAZZISMO c’è
sempre fascismo, anche quando il razzismo è patinato, elegante, tacito.
C’è chi manifestava per i diritti dei rom, chi contro la violenza bianca
di polizia, chi contro Donald Trump.
A Berkeley, in prossimità della
University of California, migliaia di persone hanno invaso di domenica
le strade cittadine. È l’Università dove insegna Löic Wacquant che ha
raccontato al mondo come l’intero sistema della giustizia penale
americana fosse selettivo, razzista. Un’ipertrofia diretta a incarcerare
la povertà e le differenze di razza.
La manifestazione di Berkeley
era family friendly, come la chiamavano le signore, sin dal treno Bart,
quando mi hanno voluto rassicurare che non ci sarebbero stati rischi per
i miei tre bimbi. Più tardi, però, ci sono stati scontri dovuti alla
presenza non autorizzata di Joey Gibson, leader del Patriot Prayer
Group, ugualmente sceso in piazza nonostante il divieto.
La colpa
sarebbe stata degli anarchici, secondo la polizia. Tutto inizia quando
un uomo di origine ispanica alza un cartello dove è scritto: «God bless
Donald Trump». La gente gli si rivolta contro cantando «Nazi go home».
È
complessa la società americana capace di esprimere tutto e il contrario
di tutto. In quelle manifestazioni si respirava una società spaccata in
due, come le elezioni del 2016 hanno certificato. Negli Usa la base
democratica non ha paura però di scendere in piazza e dare del razzista e
del fascista al loro presidente.
Le grandi firme dei grandi giornali
sono tutte schierate contro la deriva bianca, pseudo-religiosa,
razzista e fascista. C’è una contrapposizione tra il popolo democratico e
la destra razzista. Barack Obama, prima di finire il suo mandato, aveva
tentato di ammorbidire la legge sull’immigrazione.
IN ITALIA NELLE
ULTIME settimane è stato combinato un capolavoro politico da parte del
ministro dell’Interno Marco Minniti, legittimato dal premier Paolo
Gentiloni. In sequenza abbiamo assistito ai decreti sulla sicurezza e
sull’immigrazione con evidenti riduzioni di garanzie, all’attacco
concentrico alle Ong costrette a stare ai patti del Governo, agli
accordi con le milizie libiche per trattenere i migranti in una terra di
torture e morte, agli sgomberi inumani di famiglie lasciate per strada.
Il ministro lo avrebbe fatto perché avrebbe avuto timore per la tenuta
della democrazia.
Il ragionamento ha dell’incredibile: per evitare il
fascismo bisogna dare un contentino al popolo che vuole la testa degli
immigrati. Nel frattempo la destra fascista e razzista italiana ha
alzato la testa, legittimata dalle posizioni governative. Usa solo un
linguaggio più crudo. Ma nulla più. I social dimostrano come si sia
scoperchiato il vaso di Pandora e, senza autocensure, si insultano
liberamente coloro che esprimono posizioni autenticamente democratiche.
Di
fronte a quello che sta accadendo, in Italia ci vorrebbero dieci,
cento, mille manifestazioni contro l’odio razzista e fascista. Esiste un
mondo di persone, associazioni, ong che non si riconoscono più
nell’Italia che attacca e insulta le Organizzazioni non governative, la
presidente della Camera Laura Boldrini, Roberto Saviano o Christian
Raimo.
Bisogna alzare la testa. Stand up for human rights.
il manifesto 2.9.17
La grande bugia sull’immigrazione
Ero
straniero. Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto
internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a
partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare
di Riccardo Magi
È
disumana, totalitaria e persino autolesionista la distinzione, fatta
propria da quasi tutte le forze politiche italiane – da Salvini a Renzi,
passando per i Cinque stelle – e recentemente anche dalla totalità
degli stati dell’Unione europea, tra i rifugiati politici a cui sono
dovute l’accoglienza e la protezione internazionale e i migranti
economici: i «cattivi» che, invece, abbiamo la facoltà di respingere con
tutti i mezzi, anche militari, anche illeciti, e ai quali non
riconosciamo il diritto universale di fuggire da una vita di stenti e
aspirare a un’esistenza migliore. Una logica alla quale come Radicali ci
opponiamo con forza.
Da sempre, e non solo quando era terra di
milioni di migranti, l’Italia ha difeso la libertà delle persone di
attraversare i confini tra gli stati – di migrare per salvarsi dalla
guerra, dalla fame, dalla povertà estrema – come diritto inalienabile,
prima del diritto ormai affermato di libertà di movimento di merci,
servizi, capitali.
Del resto la ricca Europa, con mezzo miliardo di
abitanti, non solo ha bisogno – e ne avrà sempre di più negli anni a
venire – di stranieri che vengano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei
nostri cantieri, nelle nostre famiglie, ma sarebbe in grado di gestire
agevolmente, solo se lo volessero tutti gli Stati membri, anche flussi
straordinari di profughi causati da carestie o guerre.
Invece proprio
su iniziativa del nostro Paese e sulla base di un intollerabile alibi –
«aiutiamoli a casa loro», alcuni Stati membri dell’Ue con l’avallo
dell’Alto Rappresentante per gli Affari esteri Federica Mogherini, hanno
deciso per la seconda volta e di nuovo senza nessuno dei passaggi
formali necessari, di appaltare ad altri la soluzione, prevalentemente
con mezzi militari, del problema. Senza curarsi delle inaudite violenze a
cui saranno sottoposti i migranti e di cui saremo complici.
L’Italia
ha stipulato patti e ha negoziato accordi economici per il controllo
della frontiera esterna dell’Unione, se possibile, ancora peggiori di
quelli con il governo turco, poiché stretti direttamente con le tribù
libiche – cioè i «sindaci» ricevuti dal ministro Marco Minniti al
Viminale – che probabilmente sono le stesse che hanno gestito e si sono
contese il lucroso traffico dei migranti e i lager nel deserto nei quali
vengono derubati, torturati, uccisi i profughi. Non si spiegherebbe
altrimenti l’improvvisa interruzione degli sbarchi verso le nostre
coste, che non può essere dovuta solo all’attivismo delle motovedette
italiane donate ai militari libici.
Di fronte a questo grave
sovvertimento dei valori in atto, come Radicali Italiani ribadiamo
l’urgenza di sconfiggere la grande bugia sull’immigrazione. Esistono
strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della
nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure
della nostra legge di iniziativa popolare «Ero straniero – L’umanità che
fa bene» per superare la Bossi-Fini.
Una legge che, mentre i nostri
governi sono impegnati ad alzare muri nel Mediterraneo e ai confini
dell’Europa, chiede invece di aprire varchi: canali legali e sicuri di
ingresso in Italia per i migranti per motivi di lavoro, di studio o di
protezione internazionale e la loro accoglienza e inclusione nelle
nostre società. Alla base nessuna odiosa distinzione tra chi fugge da
guerre e persecuzioni e chi fugge dalla fame e dalla povertà, ma diritti
e doveri chiari per tutti.
La stessa legge offre anche la soluzione
al problema dei 500 mila migranti irregolari presenti in Italia
introducendo un permesso di soggiorno temporaneo, condizionato
all’integrazione attraverso il lavoro. Come ha lucidamente sottolineato
il capo della polizia Gabrielli, «ci sono etnie che non otterranno mai
lo status di rifugiati e sono destinati a restare illegalmente: per
impedirlo, se non si riesce a ottenere i rimpatri, non resta che
l’integrazione, che peraltro è un’opportunità da utilizzare per
salvaguardarci dalla criminalità e dal terrorismo».
Nei prossimi
giorni come Radicali Italiani insieme a Emma Bonino, all’ampia
«coalizione» di organizzazioni che promuovono con noi la campagna «Ero
straniero» e con il sostegno di centinaia di sindaci che hanno aderito,
rilanceremo con nuove iniziative la raccolta firme su questa legge
popolare: la sola proposta oggi in campo per rispondere al ricatto della
paura con la fermezza della ragione, della legalità e dell’umanità.
* segretario di Radicali Italiani
La Stampa 2.9.17
Il gelo di D’Alema su Pisapia
“Noi coerenti, lui speriamo”
E attacca Minniti: “È un tecnico della sicurezza, serve la politica”
di Andrea Carugati
Pisapia
è ancora il suo leader dopo lo strappo in Sicilia? Massimo D’Alema
interrompe per un istante i selfie e le strette di mano con i compagni
seduti al ristorante della prima festa di Mdp a Buti, sulle colline
vicino a Pisa. «Io sono rimasto alla piazza del primo luglio, a quello
che ci siamo detti lì. Poi sono andato in vacanza e non ho più
seguito...».
Il sorriso è beffardo ma l’intenzione di lasciare aperto
un filo con l’ex sindaco di Milano traspare in modo chiaro: «La
Sicilia? Io non ho ancora sentito dichiarazioni di Pisapia su questa
vicenda. Ho letto una nota di Campo progressista a favore di un’alleanza
civica e di centrosinistra che non comprende Alfano. Questo è quello
che sosteniamo come Mdp». Bersani poche ore prima, dalla Versilia, aveva
espresso fiducia verso Pisapia: «Noi vogliamo fare il centrosinistra,
Alfano è un’altra cosa. Io e Pisapia la pensiamo allo stesso modo». Nei
prossimi giorni con il leader di Campo progressista si incontreranno per
tentare di ricucire. «Mi fa piacere che si vedano - osserva D’Alema
senza nascondere una certa freddezza -, ad oggi non vedo una rottura del
percorso comune tra noi e Pisapia». E non sottoscrive la dichiarazione
molto dura di Claudio Fava, candidato per le sinistre in Sicilia, che ha
definito ieri sul Fatto l’ex sindaco di Milano un leader «evaporato».
Sul
ministro degli Esteri invece il giudizio è tranchant: «In Sicilia lui e
Renzi hanno stretto un accordo di potere per garantire ad Ap una
ventina di senatori. Mi chiedo come qualcuno potesse pensare che noi
avallassimo questo fatto». Cercate di far perdere il Pd in Sicilia? «La
responsabilità - risponde - è di Renzi, che si doveva fare gli affari
suoi. In Sicilia ci sarebbe stata un’alleanza di centrosinistra e Alfano
sarebbe andato per la sua strada. Lui ha scelto il Pd quando Lega e
Fratelli d’Italia hanno messo il veto su Ap. È uno scarto del
centrodestra». «Meno male - aggiunge - che i nostri compagni siciliani
si sono tirati fuori da questo pasticcio. Erano consapevoli che i nostri
elettori non li avrebbero mai seguiti. Se avessimo sostenuto Renzi e
Alfano ci saremmo uniti a una compagnia destinata al fallimento. Non
siamo usciti dal Pd per metterci a pasticciare per fare accordi con
loro. In Sicilia, come alle prossime politiche, serve una voce autonoma
della sinistra che esprima i nostri valori». Voi siete solo
antirenziani? «Risponderò citando l’ineffabile avvocato Pisapia, che non
è accusabile di essere rancoroso come me. Lui ha detto che serve una
“netta discontinuità” di contenuti e leadership per un nuovo
centrosinistra e ha escluso alleanze con Alfano. Io mi definisco un
seguace di Pisapia. In Sicilia stiamo facendo questo, speriamo che lo
faccia anche lui...».
L’ex premier è molto duro anche con Gentiloni:
«Certo, governa un pochino meglio di Renzi. ma davvero ci voleva poco».
Bordate anche verso il suo ex fedelissimo Marco Minniti sul tema
migranti: «È un tecnico della sicurezza, questa purtroppo è invece una
grande questione politica. Prima l’Italia aveva come priorità quella di
salvare vite umane, ora è evitare che gli immigrati arrivino da noi.
Queste persone ora o muoiono nel deserto o finiscono nei campi di
concentramento in Libia, dove non sono garantiti i minimi diritti
umani». Prima di avallare questo «blocco navale», conclude D’Alema,
«Minniti si sarebbe dovuto accertare che fosse l’Onu e non le milizie
libiche a gestire i campi».
Corriere 2.9.17
Il Pd alla battaglia del «voto utile» con Mdp. Ma salva Pisapia
di Maria Teresa Meli
ROMA
Mancano diversi mesi alle elezioni, ma il Pd è già in modalità campagna
elettorale. Renzi e i massimi dirigenti del Nazareno danno per scontato
che Berlusconi abbia già stretto un patto con Salvini e che quindi
Forza Italia e Lega si presenteranno in un unico listone alle elezioni.
Poi c’è l’altro avversario: Beppe Grillo con il suo Movimento 5 Stelle.
Due
formazioni entrambe populiste — è il ragionamento che viene fatto al
Nazareno — perché accordandosi con Salvini, inevitabilmente, anche
Berlusconi si farà schiacciare su quel versante. A entrambi il Pd si
dovrà contrapporre puntando sui «contenuti», si è raccomandato Renzi con
i suoi parlamentari. E i contenuti, oltre le proposte che verranno
dalla Conferenza programmatica prevista per il sei ottobre a Napoli,
sono i risultati ottenuti finora.
Cioè, la crescita del Pil, la
diminuzione degli sbarchi, e, soprattutto i posti di lavoro in più.
Stando ai sondaggi commissionati dal Nazareno, infatti, la prima
richiesta degli italiani riguarda proprio il lavoro. Sono le questioni
economiche che stanno a cuore ai cittadini più ancora dell’immigrazione.
Perciò Renzi ha intenzione di battere su questo tasto e per questo
motivo è andato l’altro ieri al Tg1 a rivendicare i risultati del Jobs
act. E sempre per la stessa ragione il Pd sosterrà Gentiloni in modo
deciso sulla legge di Bilancio.
Sono i successi dei due governi del
Partito democratico — quello Renzi e quello Gentiloni — che vanno
esaltati. E, del resto, il leader e il premier si sentono con regolarità
e concordano insieme i passi da compiere. Ormai per Renzi è «il gioco
di squadra» che conta. Il che significa coinvolgere tutto il Pd, anche
la minoranza guidata da Orlando. Non è per una fortuita coincidenza,
infatti, che l’organizzazione della Conferenza programmatica sia stata
affidata al tandem Martina-Orlando.
«Contro gli estremismi noi siamo
la nuova forza tranquilla e solida del Paese», sono le parole che Renzi
ripete più spesso in questi giorni. Una forza che può contendere a un
Berlusconi che va in lista con Salvini i voti moderati e di centro. Per
questa ragione il leader del Pd raccomanda ai suoi di evitare «lo
scontro», che pure gli avversari del partito, soprattutto a sinistra
cercheranno.
Puntare sul fatto che gli attori della contesa sono tre —
il centrodestra, il Pd e i grillini — ha una diretta conseguenza. E
questo sarà un punto importante della campagna elettorale del Partito
democratico. Come spiega efficacemente il senatore Andrea Marcucci in
un’intervista all’ Avvenire : «Il voto ad altre liste non collegate sarà
buttato via, sarà di fatto un favore agli avversari». Torna quindi per
il Pd il tema del voto utile. E le elezioni in Sicilia, paradossalmente,
potrebbero aiutare in questo senso. Se la decisione di Mdp di non
allearsi con il Pd nell’isola dovesse avere come effetto quello di
consegnare la vittoria al centrodestra, i dirigenti del Nazareno
avrebbero gioco facile a insistere sul voto utile nelle elezioni
politiche.
Un discorso, questo, che riguarda gli scissionisti ma non
Pisapia. Come precisa ancora una volta Marcucci: «È normale che la nuova
forza politica dell’ex sindaco di Milano collabori con il Pd». Ma di
alleanze Renzi preferisce far parlare ufficialmente i suoi dirigenti.
Lui lascia le alchimie politiche ad altri e pensa a «ripartire dalla
gente».
Repubblica 2.9.17
Sicilia, sondaggio dà l’allarme a sinistra
Per
Ghisleri i candidati di centrodestra e M5S doppiano sia Micari sia
Crocetta. Pisapia prepara il vertice con Mdp per mediare con il Pd: sul
tavolo anche la proposta di resuscitare le primarie per arrivare a un
candidato unitario
ROMA. Giuliano Pisapia torna a Milano e
affronterà lunedì un primo chiarimento con i suoi di Campo progressista.
Ma il giorno dopo a Roma lo attende il vertice spinoso con Pierluigi
Bersani, Roberto Speranza e Massimo D’Alema, i leader di Mdp con i quali
la distanza rischia di diventare ormai una frattura.
Sul tavolo il
dossier-Sicilia che sta creando anche nel Pd un cortocircuito di
contestazioni e “distinguo” sul candidato civico, il rettore
dell’università di Palermo Fabrizio Micari, voluto soprattutto dal
sindaco Leoluca Orlando per riproporre l’alleanza larga che risultò
vincente alle amministrative ma che adesso non tiene più. I sondaggi
sono univoci: il centrosinistra è messo malissimo nella partita per le
regionali del 5 novembre in Sicilia. L’ultimo, commissionato da Forza
Italia a “Euromedia Research”, la società di Alessandra Ghisleri, misura
il consenso dei candidati e Nello Musumeci, su cui tutto il
centrodestra punta, è in testa con un 34% incalzato dal candidato dei
5Stelle, Giancarlo Cancelleri (33%). Micari viene comunque doppiato da
entrambi perché raccoglie solo il 16 per cento dei gradimenti. Claudio
Fava, che Mdp e Sinistra vorrebbero mettere in campo, è dato al 9,5 per
cento.
Per sbrogliare il nodo dei veti e cercare l’unità crescono gli
appelli per le primarie. Rosario Crocetta, il governatore uscente - che
nel sondaggi Ghisleri è dato al 18,4% se rappresentasse l’area del
centrosinistra - lo ha già comunicato a Renzi nei giorni scorsi: «O
primarie o io mi candido».
Ma ora a insistere per primarie potrebbe
essere proprio il gruppo di Pisapia. Bruno Tabacci, che con Centro
democratico aderisce a Campo progressista, ieri e oggi in Sicilia per
una convention, ritiene «le primarie l’unico metodo ragionevole per
uscire dalla impasse. Lo dirò a Giuliano. Trovo inoltre abbastanza
incomprensibile che Micari si voglia sottrarre alle primarie. Perché? Ha
vinto forse qualche concorso?».
I malumori crescono, l’unità del
centrosinistra su cui Pisapia ripete di puntare, è lontana nel test
siciliano giudicato una prova generale delle alleanze per le politiche.
Alla festa del Fatto quotidiano in Versilia, è Bersani a mettere paletti
e a rassicurare sul nuovo partito della sinistra con Pisapia: «Con
Giuliano ci vediamo nei prossimi giorni, sono certo che la pensiamo allo
stesso modo. La sinistra è in costruzione, non in frantumi, Alfano è
altro». E sempre sulle regionali siciliane l’ex segretario dem ora
leader dei demoprogressisti, invita al Pd a cambiare rotta: « Chiediamo
che il Pd si renda disponibile alla discontinuità e a cercare
candidature fuori dal suo recinto anche in Sicilia». E Rosy Bindi,
presidente della commissione Antimafia, rincara: «Se il Pd in Sicilia si
allea con Alfano, allora credo che la candidatura di Fava sia
interessante ». Il coordinatore dem, Lorenzo Guerini per ora rinvia ogni
dubbio su Micari ai mittenti: «Micari garantisce discontinuità, è
candidato autorevole», e rilancia su un listone unico con Pisapia e i
centristi alle politiche. Gelo da Campo progressista. «A Pisapia una
somma di sigle non interessa» replica Marco Furfaro, attaccando Fava:
«Dice che Pisapia è evaporato? Casomai saranno evaporati loro».
(g. c.)
Repubblica 2.9.17
Michele Emiliano.
Il
governatore della Puglia “Nell’isola bisogna lavorare per unire il
centrosinistra Errori sull’immigrazione: inseguiamo destra e 5 Stelle ”
“Renzi organizzi le primarie è il solo modo per salvarci Migranti? No limiti alle Ong”
Pisapia deve decidere se stare con il segretario del Pd o con D’Alema
di Giovanna Casadio
ROMA.
«Do un consiglio a Renzi: facciamo le primarie in Sicilia. Sta
sostenendo un candidato che non conosce, non ha scelto e ci porterà a
perdere se imposto dall’alto». Michele Emiliano, il governatore della
Puglia, è uno dei leader della minoranza dem. «Ma non spero in un flop
di Renzi in Sicilia, perché in questo modo perdiamo tutti». E sui
migranti, l’altro tema politico scottante insieme alle regionali
siciliane, avverte: «Non si liscia il pelo alle paure, il governo deve
promuovere flussi di migranti regolari».
Emiliano, non apprezza il modo in cui Renzi sta conducendo la partita siciliana?
«Non
spetta a me prendere decisioni. Ma non capisco perché non facciamo le
primarie in Sicilia, visto che non abbiamo un candidato così prevalente.
Mandiamo in giro i militanti, coinvolgiamo i simpatizzanti. A Renzi do
questo suggerimento: organizzi le primarie, e salvi anche se stesso.
Perché imporre un candidato che divide il centrosinistra, dal momento
che pezzi di sinistra non lo votano? Dobbiamo tenere insieme tutti
invece, dalla sinistra al centro e provare a vincere».
A partire dal dialogo con Giuliano Pisapia?
«Pisapia
deve decidere se stare con Renzi o con D’Alema. Io penso che una
sinistra che si dibatte su questo dilemma è messa male».
Sull’immigrazione.
Le Regioni vengono chiamate dal Viminale ad assumersi la responsabilità
di gestire la fase 2 dell’accoglienza, la Puglia a che punto è?
«Noi
abbiamo già finanziato alcuni comuni, Bari in testa, in connessione con
i cosiddetti Sprar, i progetti di accoglienza appunto. E abbiamo
condotto, fino a oggi in modo solitario, una battaglia contro il
caporalato per l’integrazione dei lavoratori che vengono a lavorare in
agricoltura. Fortunatamente qualche settimana fa il ministro Minniti ha
nominato un commissario straordinario per la gestione della situazione
nella provincia di Foggia e di questo lo ringrazio. In Puglia abbiamo
creato delle “foresterie”. I braccianti stranieri potrebbero integrarsi
facilmente perché da noi sono indispensabili. Sa cos’è importante?
Uscire dal circuito degli hotspot dei centri di identificazione, dei
campi per richiedenti asilo. Quel meccanismo deve diventare molto più
veloce, altrimenti l’esasperazione cresce, si creano abusi e illegalità
devastanti».
Lei che soluzione propone?
«Noi abbiamo in molti
settori la necessità di lavoratori migranti. Il governo deve consentire
il flusso regolare dei migranti. È come per le inondazioni, se l’acqua
arriva tutta insieme distrugge. Se arriva in modo regolato si chiama
irrigazione ».
L’intolleranza in Italia cresce fino al razzismo?
«Non
siamo più capaci di posizioni razionali. Le strategie politiche si
costruiscono sulla base dell’orientamento dell’opinione pubblica deciso
tra piazza e media. Salvini l’ha capito e attacca anche papa Francesco
che chiede di rafforzare il sistema dell’accoglienza. Ma lucra così dal
punto di vista elettorale. E i 5Stelle lisciano il pelo all’insofferenza
della gente. Dicono ai cittadini: state male? Colpa degli uomini neri. E
la sinistra sta inseguendo la destra».
Quali sono gli errori?
«Ad
esempio sostenere che vanno fermate le navi in mare. Come si fa a
limitare l’attività delle Ong come vorrebbe il codice Minniti? Non si
può, non lo dico solo io, anche il ministro Delrio. Da magistrato vorrei
segnalare che se salvo una persona in mare a bordo di un gommone
qualsiasi tipo di reato abbia commesso non sono perseguibile ».
il manifesto 2.9.17
Sicilia, incubo centrodestra. E Micari perde quota
Regionali.
Tensione in Ap. La palla a Renzi, che ha incontrato Crocetta. Ma i dem
prendono tempo. Anche Tabacci (Campo democratico) chiede le pimarie. Ma
il rettore non ci sta
di Alfredo Marsala
Dieci anni cancellati
con uno scatto. Un’istantanea che fa ripiombare la Sicilia in un
trapassato che sembrava sepolto negli archivi politici. La foto della
restaurazione del centrodestra, che ritrova l’unità attorno al candidato
governatore Nello Musumeci, riporta indietro le lancette dell’orologio
come se nulla fosse successo. Una immagine plastica che sta facendo
tremare i polsi al Pd, intrappolato in una discussione infinita sul
candidato e sulla coalizione e che ha allontanato la sinistra che a
fatica sta cercando a sua volta l’unità. E che preoccupa soprattutto
chi, come i piddini Beppe Lumia e Antonello Cracolici, otto anni fa
riuscì, con un’operazione di bisturi politico, a rompere il fronte del
centrodestra facendo leva sul Mpa di Raffaele Lombardo, e a distruggere
quella macchina da guerra che nel 2001 aveva consentito a Silvio
Berlusconi e ai suoi alleati di conquistare alle politiche 61 seggi
nell’isola, lasciando a zero un centrosinistra con le ossa rotte e
comatoso.
MA QUESTA SEMBRA preistoria. Ci sono proprio tutti nella
foto del revival: mancava solo Totò Cuffaro anche se c’erano i suoi.
Volti di cera di una vecchia classe dirigente che ritorna e sogna i
fasti di 16 anni fa: Renato Schifani, Ignazio La Russa, Gianfranco
Miccichè, Saverio Romano. Ma ci sono anche politici rimasti in questi
anni nelle retrovie e che ora si ritrovano nella falange di Musumeci,
pronta a disarcionare le truppe avversarie: ex missini e An in prima
linea che fanno pendere la coalizione decisamente verso destra per la
gioia di Giorgia Meloni, Francesco Storace e Matteo Salvini.
Nella
coalizione ci sono Forza Italia, Lega, Fdi, Udc, Cantiere popolare (ex
cuffariani), Cdu, autonomisti del Mpa, alcuni movimenti tra cui quello
dei ‘sicilianiIndignati’ di Gaetano Armao, pupillo di Berlusconi e vice
governatore in pectore. In extremis è stato recuperato anche Roberto
Lagalla, l’ex rettore di Palermo, che fu assessore nel governo Cuffaro e
di recente cooptato nel Cnr in quota Pd; doveva essere proprio Lagalla
il candidato del centrosinistra prima del patto Renzi-Alfano in un
progetto di grosse koalition che doveva tenere dentro centrosinistra e
centrodestra per sconfiggere i 5stelle. Gli ex cuffariani sono riusciti a
riportare l’ex rettore di Palermo, da mesi in giro per l’isola con il
suo movimento ‘IdeaSicilia’, nell’alveo che gli appartiene.
AL GRUPPO
POTREBBERO associarsi anche pezzi di Ap in dissenso con la linea di
Alfano, soprattutto ex An. Al partito non piace il nome di Fabrizio
Micari e per tamponare i malumori crescenti Alfano ha nominato Giovanni
La Via responsabile della campagna elettorale anche se i suoi pressano
per un ticket proprio tra il rettore e l’eurodeputato; Ap ha rilanciato
la palla a Renzi, aspetta che il Pd ufficializzi il candidato prima di
pronunciarsi. Al Nazareno però prendono tempo. Il problema è tenere
dentro Rosario Crocetta: a prendere l’impegno col governatore su una
soluzione condivisa è stato Renzi in persona, nel corso di un colloquio
col presidente della Regione, tenuto segreto ma sul quale il manifesto
trova conferme. I renziani vorrebbero coinvolgere il presidente nel
progetto ma il governatore, che non vuole rompere col suo partito,
rimane fermo sulla sua posizione: «Facciamo le primarie». E fa
l’ennesimo appello, stavolta rivolgendosi anche alla sinistra. «Per
amore dell’unità non ho riproposto l’automatismo della mia
ricandidatura, ma il percorso per un confronto unitario e democratico su
programmi e candidati – osserva Crocetta – Questo percorso, nella mia
proposta, si concretizza con le primarie da svolgersi il 17 settembre». E
«mi addolora pensare che le forze a sinistra del Pd abbiano già scelto
un percorso separato. Ho sempre pensato all’unita come un grande valore –
prosegue Crocetta – Io non ho mai detto ’o me o nessun altro’. Ho
detto: confrontiamoci, diciamocele tutte, rimarchiamo le nostre
diversità, ma diamo un senso forte a ciò che ci unisce: il sogno di
liberazione della Sicilia, bloccando il ritorno dei potenti di sempre al
governo della regione o che la regione finisca in mano di soggetti
incapaci di ogni azione di governo». «Unità, unità, unità dentro un
percorso di primarie democratiche. spero tanto che la sinistra
aderisca», conclude.
UN APPELLO SUBITO raccolto da Bruno Tabacci,
leader del centro democratico che ha aderito al Campo progressista di
Pisapia. «L’unità del centrosinistra, indispensabile per scongiurare il
pericolo populista grillino o della destra sovranista di
Musumeci-Meloni-Salvini, venga attraverso le primarie di coalizione».
Primarie
su cui c’è un’apertura anche da parte di Ap, pronta a schierare La Via,
mentre il no ai gazebo arriva proprio dal candidato ufficioso , il
rettore di Palermo Fabrizio Micari, pronto a tirarsi indietro perché
liquida come «una questione di partiti» le consultazioni pre-elettorali.
il manifesto 2.9.17
Il Pd ci riprova con il «listone»
Verso le elezioni. Campo progressista: non ci interessano i posti. Bersani: presto vedrò Pisapia
Alla
vigilia del ritorno di Matteo Renzi live, da questa mattina con una
serie di comizi alle feste dell’Unità, cominciando da Bologna, due
interviste gli preparano il terreno. I renzianissimi Matteo Richetti e
Andrea Marcucci lanciano (o meglio ri-lanciano) l’idea del listone unico
da Carlo Calenda a Giuliano Pisapia passando per Angelino Alfano per le
prossime elezioni politiche. La tempistica non è delle migliori, visto
che nelle stesse ore rischia di colare a picco la candidatura di
Fabrizio Micari a governatore della Sicilia. Ma in particolare Marcucci è
netto rispetto a Alfano: «E’ nei fatti che chi ha sostenuto i governi
Renzi-Gentiloni pensi ad una collaborazione anche in futuro. Come è nei
fatti, direi naturale e quasi scontato, che la nuova forza politica di
Pisapia collabori con il Pd».
L’ex sindaco di Milano sarà in vacanza
ancora per qualche giorno, ma non pare aver gradito la nuova offerta,
tantopiù che nemmeno in Sicilia i giochi sono ancora fatti. E’ comunque
l’ex Sel Marco Furfaro, a Pisapia vicinissimo, a ribadire il no di Campo
progressista: «Noi non faremo la stampella di nessuno, a Pisapia una
somma di sigle senza politica non interessa. Noi abbiamo messo in campo
tre punti: unità del centrosinistra, discontinuità nelle politiche degli
ultimi anni e contendibilità della leadership. Quello che vediamo oggi
invece è solo contabilità della politica, somma di sigle in chiave
elettoralistica. Non siamo in cerca di posti».
Ovviamente anche
Pierluigi Bersani, intervenuto ieri alla festa del Fatto quotidiano a
Marina di Pietrasanta, boccia seccamente l’ipotesi: «Noi costruiamo il
centrosinistra, Alfano è un’altra cosa». Ma l’ex segretario del Pd parla
anche dei rapporti tra la sua attuale formazione, Mdp, e appunto
Pisapia. Rapporti che la partita per le elezioni siciliane ultimamente
aveva di nuovo fatto virare verso la turbolenza. Nei prossimi giorni,
spiega Bersani, lui stesso incontrerà l’ex sindaco di Milano: «Sono
sicuro che io e lui la pensiamo allo stesso modo». Insomma, è ottimista
sulla ripresa delle comunicazioni.
Ma la proposta di listone unico
porta scompiglio anche in casa Ap, dove la tensione è già alta
sull’alleanza con in Pd in Sicilia. Per tranquillizzare i suoi dunque
Alfano tira il freno: «Le alleanze di Ap che ci saranno in Sicilia,
saranno alleanze in Sicilia, alleanze siciliane. Con un programma sulla
Sicilia. Non sono alleanze nazionali».
Repubblica 2.9.17
Numero chiuso, atenei a rischio caos pioggia di ricorsi, allarme dei rettori
Gli
studenti: dopo lo stop del Tar a Milano la battaglia si estende in
tutte le università La Statale sospende i test: “Ma non ci fermiamo, il
Consiglio di Stato ci darà ragione”
di Luca De Vito e Ilaria Venturi
«LA
conseguenza dell’ordinanza del Tar? È che l’95% dei corsi a numero
programmato dagli atenei sono illegittimi». Non ha dubbi Michele
Bonetti, il legale dell’Unione degli universitari che ha bloccato il
numero chiuso nei corsi umanistici della Statale di Milano. È scoppiato
il caso. Ed ora gli Atenei temono l’effetto domino. «Il governo
intervenga», è la voce della Conferenza dei rettori.
L’associazione
studentesca promette battaglia, con nuovi ricorsi. Sul tavolo
dell’avvocato ci sono già i due nuovi corsi a numero programmato decisi
quest’anno dall’ateneo di Firenze. «Andremo a spulciare tutte le
delibere per impugnare quelle che non fanno riferimento alla legge sul
numero chiuso: è sbagliato chiudere l’accesso all’università, dunque
andiamo avanti», spiega la coordinatrice Elisa Marchetti.
L’università
Statale ha deciso di ricorrere contro la decisione del Tar del Lazio,
cercando di stringere i tempi: con l’appello al consiglio di Stato,
infatti, l’ateneo chiederà una decretazione d’urgenza. L’obbiettivo è
quello di riuscire a forzare la mano e fare i test per l’accesso ai
corsi, i cui iscritti sono più di 4.300, in questo anno accademico.
Intanto il destino delle aspiranti matricole è sospeso. «Si è creata una
situazione paradossale – commenta il rettore dell’ateneo Gianluca Vago –
da una parte abbiamo un decreto ministeriale che ci chiede di stare
dentro i parametri, dall’altro il Tar che ci impedisce di regolare il
numero di studenti. Di fatto è una sorta di commissariamento, così le
università non sono in grado di decidere la propria strategia, mentre
dovremmo avere autonomia».
Ed è proprio questo il punto. «Ora ci
vuole un chiarimento legislativo », reclama il presidente della Crui
Gaetano Manfredi, rettore della Federico II a Napoli. «L’obiettivo dei
rettori è fornire un’offerta allargata, ma esistono criteri molto severi
di accreditamento dei corsi, proprio per evitare studenti seduti per
terra nelle aule e senza professori. Ne abbiamo persi il 20% negli
ultimi otto anni, ne abbiamo un terzo della Germania. Il dibattito
allora non deve essere ideologico: l’Italia ha bisogno di più laureati.
Ma non dobbiamo ingannare gli studenti: non diamo un pezzo di carta, ma
una formazione di qualità. E per farlo ci vogliono investimenti. Se si
vuole allargare la platea occorrono infrastrutture e risorse umane».
In
Italia i corsi a numero programmato decisi dagli atenei, soprattutto a
economia e ingegneria, ma ci sono casi anche nelle discipline
umanistiche a Trento, Roma Tre e Pisa, sono aumentati in virtù di
criteri più severi per la loro sostenibilità. Alla Statale e alla
Bicocca sono passati da 73 a 92 dal 2012 al 2016. A Bologna da 56 a 107
dal 2012 ad oggi: un corso su due non è a libero accesso. Sbarramenti
(solo quelli a livello locale) ora a rischio.
il manifesto 2.9.17
«Numero chiuso da abolire ovunque», la sfida dell’Udu
Intervista.
L’avvocato Bonetti che ha vinto il ricorso contro la Statale di Milano:
«L’università torni aperta, così crea solo una elite impreparata. Il
ricorso del rettore al Consiglio di Stato è basato su una balla
giuridica: il Tar ha sospeso l’intera normativa. Va cambiata la legge
264 del 1999 e il decreto accreditamenti»
di Massimo Franchi
«Il
diritto allo studio e l’accesso all’università sono l’ultimo motore per
risollevare il Paese. È il numero chiuso che ha impoverito i nostri
atenei producendo la precarietà e la disoccupazione dei laureati, non
viceversa: dobbiamo tornare ad essere un modello di apertura come siamo
storicamente cambiando la legge 264 del 1999 all’origine di tutto. Che
un ministro possa decidere se le università sono o meno a numero chiuso è
per noi un pericolo per la democrazia. Per noi va annullato il numero
chiuso in tutti i corsi». La battaglia della Statale di Milano – dopo la
sentenza del Tar di giovedì che ha cancellato i test di ingresso per i
corsi a numero programmato nelle discipline umanistiche, ieri il rettore
Vago ha annunciato ricorso – vede come protagonista Michele Bonetti, da
anni avvocato dell’Unione degli universitari.
Avvocato Bonetti,
partiamo dall’attualità. Il rettore della Statale di Milano Gianluca
Vago annuncia ricorso d’urgenza al Consiglio di Stato sostenendo che «da
una parte il Tar dice di prendere tutti gli studenti ma dall’altra,
secondo la normativa 240 sull’accreditamento, dovrei assumere docenti
per far partire i corsi» motivo stesso della delibera per cui ha deciso i
test d’ingresso: la carenza di docenti.
Michele Bonetti, avvocato dell'Udu
Sbaglia
e racconta una balla giuridica. Il giudizio del Tar che permetterà a
mille studenti della Statale di non fare il test d’ingresso costoso e
con speculazioni private – vogliamo un chiarimento formale su questo
punto: l’università deve risarcire immediatamente queste somme – è
espresso in maniera inequivocabile: il decreto sull’accreditamento
presentato dalla Giannini nel suo ultimo giorno da ministro e poi
firmato dalla Fedeli è sospeso. In più la legge prevedeva già una deroga
annuale per far partire i corsi anche senza rispettare i criteri sul
rapporto studenti-docenti: sono stati impugnati anche i decreti
ministeriali seguiti alla legge 240».
Lei e l’Udu però avete altri
ricorsi pendenti in altri atenei. Si può sperare che si arrivi ad un
giudizio di costituzionalità della legge?
I giudizi sono in fieri a
l’Aquila, a Catania e a Firenze e coinvolgono circa 50mila studenti
matricole, compresi i 18enni che si sono spostati verso atenei che non
prevedono i test di ingresso. Nel ricorso sulla delibera del Senato
accademico della Statale avevo espresso come subordinata la richiesta
che in caso di mancato accoglimento il Tar di Roma promuovessero un
giudizio di costituzionalità. Non escludo che lo faccia in futuro. Noi
abbiamo sempre cercato di evitare i ricorsi facendo un’azione preventiva
ma i rettori non ci hanno ascoltato. Speriamo lo facciano ora (l’Udu
ieri ha chiesto al rettore il ritiro del ricorso e ha chiesto al
ministro Fedeli di aprire un tavolo tecnico, ndr).
I ricorsi riguardano le facoltà umanistiche ma lei e l’Udu criticate l’intero modello universitario attuale.
Sì,
se il numero chiuso o programmato può avere un senso per medicina, per
le altre facoltà sta provocando danni incalcolabili. Così come il
sistema di accreditamento: i finanziamenti del ministero agli atenei
sono basati sul numero dei laureati in corso e così i docenti sono
portati a garantire questi standard a scapito totale della preparazione:
la selezione in itinere è assente così come gli abbandoni. In questo
modo abbiamo un imbuto chiuso in entrata e una elite impreparata in
uscita. Non vorrei che si sottovalutasse come ormai per una famiglia
anche non ricca costi di meno mandare il proprio figlio a studiare
medicina od odontoiatria in Romania e Bulgaria rispetto a Parma o Pavia.
E nel frattempo i posti riservati per legge agli studenti
extracomunitari rimangono sempre vuoti perché non siamo più attrattivi e
perdiamo cervelli prima che si formino.
È ancora possibile cambiare le cose? Qual è la vostra ricetta per rilanciare l’università in Italia?
La
legge 264 del 1999 è stata accettata anche dai governi di
centrosinistra senza battere ciglio: per questo siamo arrivati alla
decisione della Statale e di altri atenei di introdurre i test di
ingresso perfino nelle facoltà umanistiche. Anche il M5s pare essere per
il numero programmato nella sua versione francese. Io invece penso che
abbiamo bisogno di una università la più aperta possibile su cui
investire fortemente per alzare il numero di laureati che in Italia è
ormai bassissimo costruendo poli che creino anche indotti economici.
Bisogna rivoltare l’idea che nelle università ci siano posti solo per
chi troverà lavoro: alziamo il livello di istruzione in modo forte e
inventeremo anche nuove professioni e tanti brevetti, cambiando il mondo
del lavoro e tutta la società.
Repubblica 2.9.17
Vecchio e
nuovo ordinamento a confronto: fallito l’obiettivo di anticipare l’età
di uscita dall’università. I docenti: non ha funzionato soprattutto il
triennio iniziale che offre pochi sbocchi professionali
Laureati sempre in calo e titolo dopo i 27 anni il flop della riforma 3+2
di Salvo Intravaia
MENO
laureati e titolo “completo” che arriva sempre dopo i 27 anni. La
riforma universitaria Berlinguer/ Zecchino, meglio conosciuta come
quella del “3+2”, ha mancato due dei suoi obiettivi principali. Secondo i
dati, i giovani che oggi riescono a concludere l’intero percorso
quinquennale o quello a ciclo unico sono addirittura meno rispetto ai
laureati del 2000, ultimo anno del vecchio ordinamento. E per acquisire i
due titoli (quello triennale più quello biennale, detto anche
magistrale) si va ancora fuoricorso. Nel 2016, i laureati magistrali o
con percorso a ciclo unico (Architettura, Odontoiatria, Medicina,
Veterinaria, Giurisprudenza, Farmacia) sono stati 130mila. Sedici anni
prima, i laureati quadriennali, quinquennali e dei percorsi di sei anni
furono quasi 144mila. Va aggiunto che oggi però abbiamo anche 175mila
laureati triennali, che però non sono sovrapponibili per molte ragioni
ai vecchi laureati.
L’altra criticità riguarda la durata dei percorsi
di studio: chi ha pensato che con l’introduzione della laurea triennale
e di quella specialistica nei nostri atenei i tempi d’uscita si
sarebbero accorciati ha sbagliato i suoi calcoli. Perché nel 2000, ai
tempi del cosiddetto “vecchio ordinamento”, ci si laureava in media a
27,6 anni, sedici anni dopo siamo scesi a 27,1. Un piccolo passo avanti
che, per molti, non giustifica la rivoluzione del “3+2”. Anche perché,
per completare il percorso triennale occorre mediamente studiare 4,9
anni: a fare più fatica i ragazzi che frequentano le facoltà del gruppo
letterario (Filosofia, Storia, Lettere), che mediamente impiegano 5,2
anni. Anni che diventano 7,4 anni per i percorsi a ciclo unico di cinque
anni e oltre.
Ma, nonostante le novità introdotte, i due mondi sono
rimasti abbastanza immutati, con poco meno di un milione e 700mila
iscritti e 280/290mila immatricolati. «Il difetto maggiore di quella
riforma è stato quello di adottare un sistema top-down: uguale per tutte
le facoltà», dice Eugenio Gaudio, rettore dell’università La Sapienza
di Roma. Che aggiunge: «A mio avviso, andavano differenziate le lauree
triennali che avevano un chiaro profilo professionalizzante dalle altre.
Ma non parlerei di fallimento totale. Le lauree triennali delle
Professioni sanitarie, ad esempio, non sono un mero riassunto della
laurea in medicina. Rappresentano una novità, come la laurea
Infermieristica, che ha prodotto un innalzamento della qualità del
sistema sanitario». Aggiunge Gaetano Manfredi, presidente della
Conferenza dei rettori: «Lo spirito era quello di creare una base molto
larga di laureati triennali, i cui profili professionali avrebbero
dovuto trovare riscontro immediato nel mercato del lavoro, e una fascia
minore di laureati magistrali. Ma le cose sono andate diversamente.
Oggi, il 79/80 per cento dei triennalisti prosegue e consegue la laurea
magistrale. La laurea triennale, che avrebbe dovuto attirare i diplomati
provenienti dagli istituti tecnici e professionali, non è sempre
professionalizzante e spesso non trova riscontro nel mercato del lavoro.
Il vero tema è questo: riconquistare i giovani dei tecnici e dei
professionali che oggi si iscrivono sempre meno all’università».
Un
occhio attento sul sistema universitario è quello di Almalaurea, il
consorzio nazionale di 74 atenei. «È difficile paragonare due sistemi
così diversi. Qualcosa però è migliorato: nel vecchio ordinamento si
laureava in regola il 9 per cento degli iscritti, oggi siamo a quota 35
per cento. Un dato che comunque non ci soddisfa, soprattutto al cospetto
delle altre nazioni», spiega Francesco Ferrante, membro del Comitato
scientifico del consorzio con sede a Bologna. Ma non solo. «I laureati
sono pochi perché il mercato del lavoro, in maniera anomala, ne richiede
pochi per un paese avanzato. E in Italia non ci sono abbastanza
incentivi per convincere i giovani a proseguire gli studi: all’estero le
cose sono completamente diverse, specialmente nei paesi nordici. E Poi —
conclude — non dimentichiamo che in Italia l’università ha subito un
consistente taglio di risorse: un laureato italiano costa la metà di uno
tedesco».
Repubblica 2.9.17
In fila per imparare se il festival diventa lezione collettiva
di Raffaella De Santis
SARZANA
Tutti in fila per Elena Cattaneo. La scienziata, biologa di fama
mondiale, parlerà della Corea di Huntington. Di che cosa? Il tema, per
la maggior parte delle persone che pazientemente aspettano di entrare
alla conferenza inaugurale della XIV edizione del Festival della Mente
di Sarzana, è misterioso. «Non ho idea di cosa andrò a sentire», dicono i
più. Però ci sono, vogliono partecipare all’ignoto. Pochissimi di
quelli che affolleranno il tendone al centro di piazza Matteotti, la
piazza del Comune, sanno che la Corea di cui la Cattaneo parlerà non ha
niente a che vedere col missile nucleare lanciato verso il Giappone da
Kim-Jong-un, né si tratta di un revival dello scontro di civiltà di
Samuel P. Huntington. Ma è una malattia genetica, quella che comunemente
chiamiamo Ballo di San Vito, un disturbo neurodegenerativo raro che
spinge chi ne è colpito a movimenti inconsulti, ad essere preso da una
sorta di frenesia danzante ( chorea in greco vuol dire danza e san Vito è
il patrono dei ballerini): «In Italia colpisce cinquemila persone. In
altri tempi chi ne era colpito era bollato come matto, indemoniato,
posseduto, pazzo. I malati erano emarginati, condannati, rinchiusi »,
spiega Cattaneo.
Dentro il tendone (un migliaio di persone, molti in
piedi), cala il silenzio. Fa caldo, ci si aspettava la pioggia e invece
c’è una grande afa. Qualche signora si sventola col ventaglio. Ci sono
molte donne, l’età media matura, qualche ragazzo sta in piedi per
lasciare il posto ai più anziani. Tutti disposti all’ascolto di ciò che
ignorano. Qualcuno ha letto sul depliant che si tratta di una “brutta
malattia”. Franca Pantaleo è tra le più motivate. Ammette entrando che
non ne sa niente, ma vuole imparare: «A me piacciono i convegni,
soprattutto quelli di scienza. Vengo da una paese qui vicino, da
Caniparola. Vengo per imparare. Da giovane non ho potuto studiare, i
miei non avevano i soldi. Ho fatto la pantalonaia per quasi tutta la mia
vita. Poi mi sono stancata, mi sono iscritta all’università della terza
età e ora sono qui». Sorride, indica un’amica: «Lei ne sa di più, è
maestra».
Nessuno che si muova, nessuno che desista. Elena Cattaneo è
bravissima. Sentendola parlare, la storia della frenesia di Huntington
diventa una specie di giallo alla Sherlock Holmes, con scienziati che la
scoprono, altri che la inseguono in Venezuela, diapositive di geni che
sembrano fantasie di Miró. S’imparano nomi: George Huntington fu il
medico che la scoprì per la prima volta nel 1872 e Nancy Wexler la
scienziata che andò a studiarla a Maracaibo partendo da Los Angeles.
Nessuno prende appunti, ma nessuno sembra annoiarsi. C’è chi, come Luca,
uno studente di Lerici, si dice «appassionato di malattie rare». E in
effetti dentro sembra realizzarsi una sorta di catarsi collettiva delle
ipocondrie comuni. Anche la voglia di liberarsi delle proprie paure può
essere un buon motivo per venire. Quest’anno il tema del festival è la
Rete. Qui però la Rete è fatta di storie e facce in carne ed ossa, più
che di foto profilo social o pensierini da 140 caratteri. Si parla a
bassa voce, si misurano anche gli applausi. Tanta gente e neanche un
suono. Miracolo dei festival, l’immagine di un’altra Italia, senza
slogan, frasi d’odio, protagonismi inutili. Semmai, la riscoperta
dell’ascolto. Un passo indietro, parla l’altro. Al festival di Sarzana
vengono molti maestri, professori di scuola che vogliono “aggiornarsi”
prima della ripresa delle lezioni, altri che considerano questa la vera
festa, il momento in cui la scuola si fa vita, scende tra i vicoli
medievali della città, mischia i ragazzi e gli adulti, gli intellettuali
e le persone comuni.
Paola Longari, 60 anni, viene al festival ogni
anno, dopo una vita passata a insegnare storia e filosofia. Lo fa, dice,
perché essere qui non è la stessa cosa che stare a scuola: «Voglio
tenere i contatti con la cultura viva, con quello che accade. Voglio
partecipare». Paola arriva da Viadana, vicino a Mantova, e assicura che
la prossima settimana sarà al Festivaletteratura. Non è la sola
viandante festivaliera. I pellegrini dei festival si riconoscono, si
salutano, ricordano le edizioni precedenti. C’è chi le conta, come i
timbri sul passaporto. Qualcuno tra i più giovani scatta qualche selfie,
ma sono pochi. Altro miracolo.
Una delle ultime diapositive mostra
il soffitto illusionistico della Stanza degli sposi a Mantova: «La
scienza non è solo una lista di fatti, ma un modo diverso di guardare le
cose. Un modo per riconoscere la nostra ignoranza », dice Cattaneo. È
sicuramente questo il motivo per cui mille persone sono venute sotto un
tendone bollente a sentire parlare di qualcosa che ignoravano: forse
sapevano che dopo avrebbero guardato il mondo con altri occhi.
A Sarzana la rassegna sulla mente argomenti difficili, ma nessuno si annoia
“Volevo studiare, non ho potuto e ho lavorato tutta la vita. Adesso finalmente recupero”
Repubblica 2.9.17
La statua di Colombo e la storia riscritta
di Alexander Stille
SI
TOGLIERÀ la statua di Cristoforo Colombo che domina Columbus Circle,
uno dei principali crocevia di New York? Dopo la violenza razzista a
Charlottesville e la decisione di spostare la statua del generale Robert
E. Lee da un parco pubblico, il sindaco italo- americano di New York
Bill de Blasio ha proposto di nominare un comitato per la rivalutazione
di tutti i «simboli dell’odio». (Ha menzionato il bisogno di togliere
una targa di Philippe Pétain, il presidente della Francia di Vichy che
ha collaborato con il nazismo). Ma la reazione iniziale è stata
estremamente negativa. «Sarebbe una specie di Inquisizione alla storia
in chiave politicamente corretta», ha detto lo storico Kenneth Jackson.
Sul caso Colombo, de Blasio ha promesso che avrebbe partecipato (come
fanno tutti i sindaci ogni anno) alla parata annuale di Columbus Day il
mese prossimo. Poi, per quanto riguarda la statua di Colombo, de Blasio
ha detto che in molti casi basterebbe una targa esplicativa per dare un
più ampio contesto storico alla scultura, piuttosto che toglierla. Nel
frattempo, qualcuno ha decapitato una statua di Colombo vicino a New
York.
La mossa goffa di de Blasio riapre un dibattito più generale
sui monumenti e la storia e sul fatto che sculture che rappresentavano
la gloria per alcuni recano offesa a minoranze che non hanno potuto
costruire statue. E rischia di fare il gioco di Donald Trump che accusa i
suoi critici di volere «cancellare la storia». «Vogliamo togliere le
statue di George Washington e Thomas Jefferson? Anche loro erano
proprietari di schiavi», ha detto. L’università di Yale ha recentemente
modificato un bassorilievo con un colone puritano che puntava un fucile
verso un indiano. Può sembrare una parodia della correttezza politica,
ma il dibattito sui monumenti è serio, anche se può portare a eccessi
comici e perfino aggravare ancora di più le divisioni etno-razziali
fomentate da Trump.
È importante capire che per i primi 200 anni la
storia americana è stata scritta e presentata al pubblico dai
“vincitori”, uomini bianchi di origine europea. Anche se togliere la
statua di Colombo sarebbe assurdo, è essenziale comprendere che per quel
che resta degli indiani americani Columbus Day è un giorno di lutto, il
giorno in cui la loro civiltà ha cominciato a morire, un fatto ignorato
o minimizzato nei manuali di storia fino a 40 o 50 anni fa.
Può
essere positivo e sano riaprire il dibattito storico e guardarlo da un
altro punto di vista. È bene che si sappia che i monumenti della
Confederazione separatista hanno proliferato negli Stati del Sud proprio
quando stavano togliendo quasi tutti i diritti civili ai loro cittadini
neri. Non è storia antica. Nel 1983 molti membri del Sul del Congresso
hanno resistito all’idea di fare un giorno di festa nell’anniversario di
Martin Luther King, e in tre Stati hanno creato una festa doppia,
onorando Lee insieme a King, nato a quattro giorni di distanza. Una
specie di beffa alla comunità nera: onoriamo il vostro leader insieme a
uno che ha difeso la schiavitù e si è opposto al voto per i neri dopo la
guerra civile.
Ma è altrettanto importante evitare atteggiamenti
dogmatici da entrambe le parti e valutare caso per caso. L’università di
Yale ha cambiato il nome al Calhoun College, mentre Princeton ha
resistito all’idea di togliere il nome dal centro Woodrow Wilson,
entrambi tacciati di razzismo. Ma forse avevano ragione: Calhoun non ha
avuto un ruolo centrale nella vita dell’università ed era noto
soprattutto per la sua difesa particolarmente accesa della schiavitù. Il
caso di Wilson è più complesso: ha cacciato i dipendenti neri
dell’amministrazione pubblica degli Usa ma è stato un ottimo rettore di
Princeton, come presidente degli Stati Uniti ha fatto del bene e del
male. Ha sostenuto l’idea della auto-determinazione dei popoli, seppur
solo in Europa e non nelle loro colonie. L’università di Oxford ha
deciso di tenere una statua di Cecil Rhodes mentre l’università di Città
del Capo ha tolto la sua. La storia non è unica né immutabile, cambia
con il contesto e il tempo. Rhodes ha un significato diverso nei due
luoghi: a Oxford ha fondato una famosa borsa di studio che porta il suo
nome, mentre a Città del Capo lo stesso nome è sinonimo per la
maggioranza nera di conquista, oppressione, apartheid.
La soluzione
spesso è utilizzare questi casi per approfondire la storia e conoscere
meglio le figure sui piedistalli nella loro imperfezione: sarebbe bene,
per esempio, che gli studenti di Oxford sapessero che la borsa di Rhodes
è stata creata per rendere Oxford “il centro educativo della razza
inglese”.
Conoscere meglio significa fare distinzioni. C’è una
differenza tra Washington, Jefferson e Lee. Washington e Jefferson hanno
fondato il Paese che Lee ha cercato di distruggere. Il caso di
Jefferson è una somma di tutte le contraddizioni della nostra storia: è
stato schiavista ma anche autore della Dichiarazione d’indipendenza
americana che stabiliva che «tutti gli esseri umani sono stati creati
uguali». Grazie alla ricerca genetica, ora sappiamo che Jefferson ha
avuto diversi figli con la sua schiava Sally Hemings che era, a sua
volta, figlia mista del suocero di Jefferson. Ora i discendenti della
Hemings sono stati ammessi alle riunioni della famiglia Jefferson e
tutti hanno imparato qualcosa sull’estrema complessità della razza negli
Stati Uniti.
Allo stesso modo, non si può dire che togliere un
momento sia sempre un’offesa alla storia. Ridare il nome San Pietroburgo
a quella che era Leningrado è una cancellazione della storia o una
restaurazione. In Germania è impensabile una statua commemorativa di
Hitler: toglierle è stata una forma di presa di coscienza, non di
amnesia. In Russia si conserva il corpo imbalsamato di Lenin, ma non
quello di Stalin. Ci sono delle ragioni, ma bisogna riconoscere che la
commemorazione pubblica è un’arte inesatta e non una scienza. Abbattere
le statue di Mussolini sembrava giusto, ma cancellare tutta
l’iconografia fascista al Foro Italico sembra un attacco alla storia.
Perché? Questione di pancia, di giudizio e di intuizione. Roma ha tenuto
l’obelisco di Axum, un trofeo di Mussolini tolto all’Etiopia nel 1937, e
l’Italia democratica l’ha conservato per 60 anni dopo la guerra per poi
restituirlo nel 2005. Perché quello che non sembra offensivo in un
momento può sembrarlo in un altro. Negli Stati Uniti di Trump rischia di
diventare un’arma per polarizzare ancora di più il Paese e fare dei
Democratici (se non stanno attenti) il partito delle minoranze e dei
Repubblicani il partito dei bianchi.
il manifesto 2.9.17
La (nuova) provocazione di Orban
Unione
europea. Il primo ministro ungherese chiede che la Ue paghi la metà dei
costi delle barriere anti-rifugiati, costruite nel 2015 al confine con
la Serbia. Bruxelles ironizza: prendiamo nota che Budapest considera la
solidarietà un principio comunitario. Il 6 settembre è attesa la
sentenza della Corte di Giustizia per la mancanza di solidarietà
dell'Ungheria nel piano di ricollocazione dei rifugiati da Grecia e
Italia.
di Anna Maria Merlo
PARIGI Le provocazioni di Viktor
Orban stanno diventando surrealiste. Il primo ministro ungherese,
giovedi’, ha inviato una lettera al presidente della Commissione,
Jean-Claude Juncker, dove pretende che Bruxelles paghi la metà dei costi
sostenuti dal suo paese per costruire le barriere anti-immigrati
nell’estate del 2015. Una spesa che Orban calcola di 270 milioni di
fiorini, 883 milioni di euro, 440 dei quali dovrebbero essere a carico
della Ue. Una proposta che Orban definisce “ragionevole”, perché “non è
esagerato dire che la sicurezza dei cittadini della Ue è stata
finanziata dai contribuenti ungheresi”. Nella lettera Orban insiste
sulla “qualità” dell’intervento di chiusura, con barriere “made in
Hungary”, video-camere, tecniche per intercettare movimenti, un grosso
investimento high tech, “il nostro paese non protegge solo se stesso ma
tutta la Ue”, contro “l’ondata di immigranti illegali”. Nell’estate
2015, Orban aveva deciso di costruire le barriere al confine con la
Serbia, dopo l’arrivo di circa 100mila rifugiati, che avevano sperato di
transitare per l’Ungheria per raggiungere la Germania e l’Europa del
nord.
Risposta ironica della Ue alla richiesta di “solidarietà” da
parte di Orban: Bruxelles assicura che esaminerà al più presto la
richiesta di Budapest, ricordando che l’Europa “non finanzia costruzioni
di chiusure o barriere alle nostre frontiere esterne”, sottolineando
pero’ di aver “preso nota” che d’ora in avanti l’Ungheria considera la
solidarietà come “un principio importante” nella Ue. L’Ungheria, con la
Polonia, ha rifiutato di partecipare al programma di ricollocamento dei
160mila migranti sbarcati in Grecia e in Italia. La lettera di Orban a
Juncker arriva del resto proprio qualche giorno prima del 6 settembre,
data in cui è attesa la sentenza della Corte di Giustizia Ue su quel
rifiuto (oggi in Ungheria ci sono solo 680 richiedenti asilo).
L’Ungheria potrebbe subire delle sanzioni per essere venuta meno al
principio di solidarietà. Contro Budapest (come contro Varsavia) è stata
più volte evocata la possibilità di far ricorso all’articolo 7, cioè di
sospendere il diritto di voto al Consiglio Ue. In causa sono alcune
decisioni, prese a Budapest come a Varsavia, che limitano i poteri della
giustizia (Polonia) e della Corte costituzionale (Ungheria). Ieri la
Commissione ha ricordato che nella Ue non esiste “un’opzione à la carte,
grazie alla quale si puo’ scegliere un piatto per la gestione delle
frontiere e rifiutarne un altro che riguarda la redistribuzione dei
rifugiati”. Giovedi’ si è anche riunito a Budapest il gruppo di Visegrad
(Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), per far fronte “ai
tentativi della Ue di dividere il gruppo”: a far scattare la reazione
irritata di Visegrad è stato soprattutto il recente viaggio di Emmanuel
Macron nell’Europa dell’est e in Austria. Il presidente francese ha
incontrato i dirigenti cechi e slovacchi, ma ha ignorato ungheresi e
polacchi (con cui c’è stato un braccio di ferro, con accuse da parte di
Varsavia di essere “un giovane presidente inesperto”).
Viktor Orban e
la Fidesz stanno creando un caso di coscienza nella Ue. La Fidesz è
membro del Ppe (partiti popolari), affiliazione che solleva critiche al
Parlamento europeo e nel centro-destra. Orban è abbonato alle
provocazioni, sui migranti ma non solo (si vanta di difendere una
tendenza “illiberale”, è su posizioni nazionaliste estreme, in economia
ha imposto una flat tax al 16% per ricchi e poveri, reprime minoranze e
stampa). Nel 2016 ha per esempio organizzato un referendum sulle
ricollocazioni dei rifugiati, vinto con il 98% di “no”. A marzo di
quest’anno ha continuato con un questionario spedito agli elettori,
intitolato “Fermiamo Bruxelles”.
Il Sole 2.9.17
Se la Cina diventa leader nell’intelligenza artificale
di Adriana Castagnoli
La
tecnologia si sta rivelando il principale campo di battaglia per Cina e
Usa. Pechino è stata esplicita in merito alle sue aspirazioni di
dominio tecnologico e sullo sforzo del governo cinese per diventare
leader globale in campi d’avanguardia come auto elettriche, intelligenza
artificiale, robotica e altre cruciali tecnologie del futuro.
La
Cina ha accelerato lo sviluppo di questi settori iniettando enormi
risorse pubbliche. Con il piano “Made in China 2025”, punta alle
industrie globali a rapida crescita che possono creare milioni di posti
di lavoro ben retribuiti per una generazione di giovani cinesi dotati di
una formazione sempre più sofisticata.
Il trasferimento di
tecnologia diviene perciò una questione nevralgica, da un lato, per gli
obiettivi di sviluppo di Pechino e, dall’altro, per la difesa e la
sopravvivenza dell’industria occidentale. Ma, nel momento in cui
l’amministrazione Trump si muove per affrontare la Cina sulle violazioni
della proprietà intellettuale e il trasferimento di tecnologia - e
anche in Europa si cerca di individuare misure per tutelare l’industria
innovativa - Washington scoprirà di avere poche munizioni. Perché le
regole del commercio mondiale potrebbero favorire la Cina.
Le attuali
frizioni in materia di scambi risalgono all’amministrazione Clinton.
Quando la Cina entrò nella Wto nel 2001, i negoziatori americani
concessero a Pechino una certa libertà d’azione, una posizione che più
tardi fu supportata anche dall’amministrazione di George W. Bush. Come
Paese in via di sviluppo, alla Cina fu permesso di limitare l’accesso al
suo mercato per le compagnie americane che non fossero impegnate in
joint venture con partner locali. Pechino promise di togliere tali norme
man mano che la sua economia fosse divenuta matura. Ma non lo ha fatto.
Così, adesso a Washington e Bruxelles si cerca di correre ai ripari e di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.
La
capacità della Cina, specialmente nelle nuove tecnologie, è stata a
lungo indietro rispetto a quella delle economie avanzate in Europa e
America. Alcuni decenni di sviluppo industriale per raggiungerle hanno
pagato il loro dividendo, specialmente nelle tecnologie d’avanguardia.
Ma la partnership tecnologica con Pechino è assai problematica e
rischiosa.
Il punto è che, quando si ha a che fare con uno Stato
autocratico e che non è un’economia di mercato, come la Cina, si
dovrebbe avere la visione strategica di considerare anche il potenziale
distruttivo per l’Occidente, il suo sistema di valori e del diritto che
esso può comportare. Si prenda il caso dell’intelligenza artificiale che
dominerà il futuro. Pechino ha predisposto un piano per divenire il
leader mondiale della AI entro il 2030, mirando a superare i suoi
competitor e a creare un’industria nazionale che valga almeno 150
miliardi di dollari. Secondo alcune fonti, la Cina ha già più dei 2/5
degli scienziati esperti in AI del mondo; il numero dei brevetti in
questo campo è cresciuto del 200% negli ultimi anni, anche se gli Usa
sono ancora primi.
Se la Cina riesce nell’intento, il futuro della
intelligenza artificiale mondiale sarà concentrato in gran parte nei
laboratori del Dragone. E Pechino avrà in mano le chiavi per essere una
grande potenza economica. Con i suoi 1,4 miliardi di abitanti e 730
milioni di persone connesse al web, la Cina genera dati più di qualunque
altro Paese. Un enorme volume di informazioni che costituiscono il più
importante ingrediente della intelligenza artificiale perché consentono
alle macchine di imparare. Senza dire che Pechino è già leader in campi
strategici per la sicurezza nazionale come le tecnologie per la
trasmissione quantistica (ossia, di messaggi cifrati inviolabili), e
nella fabbricazione di droni che sono stati usati pure dall’esercito
Usa.
La questione è che l’intelligenza artificiale cinese
rispecchierà inevitabilmente l’influenza dello Stato. E Pechino è uno
Stato autocratico. Si parla di piani per la creazione di un “credito
sociale” che attribuirebbe valutazioni ai cittadini in base al loro
comportamento. Lo scenario distopico di algoritmi che aiuteranno le
autorità a controllare il comportamento degli individui è più prossimo
di quanto non si pensi. Ed è realistico immaginare che questi algoritmi
vengano esportati come servizi a tutti gli Stati autoritari del mondo.
I
giganti del web occidentali, da Facebook a Google, non sono certo
incolpevoli nella manipolazione delle informazioni. Ma sono impegnati in
un dibattito aperto sulle implicazioni etiche della AI e sono limitati,
almeno in parte, dalle istituzioni democratiche. Se uno Stato
autocratico, come quello cinese, avrà il controllo sull’intelligenza
artificiale, esso ne sarà anche il maggior beneficiario.
Corriere 2.9.17
Lo scontro per l’egemonia sarà tra Stati Uniti e Cina
di Paolo Valentino
Il
codice di condotta e perfino il vocabolario appartengono interamente
alla Guerra fredda. La chiusura di tre uffici consolari russi negli
Stati Uniti (fra i quali quello di San Francisco) decisa dalla Casa
Bianca, è un altro episodio nella faida delle ritorsioni diplomatiche
tra Mosca e Washington, una risposta studiata e proporzionata al taglio
di 755 persone nello staff diplomatico americano in Russia, ordinato dal
Cremlino in luglio.
Abbandonata ogni prospettiva di un grand bargain
, frutto dell’empatia reciproca tra i due leader (confermata meno di
due mesi fa al G20 di Amburgo) e della comune visione di un mondo
gestito da uomini forti, Trump e Putin si preparano, loro malgrado, a
una stagione di conflittualità permanente.
La percezione di una nuova
Guerra fredda è infatti destinata a rafforzarsi a partire dalla metà di
settembre, quando Mosca inizierà la più grande manovra militare degli
ultimi 30 anni sui suoi confini europei. Denominata Zapad, Occidente in
russo, proprio come quelle che l’Armata Rossa conduceva ai tempi
dell’Urss, l’esercitazione coinvolgerà non meno di 18 mila soldati tra
Russia, Bielorussia e Kaliningrad. Nonostante il Cremlino ne sottolinei
il carattere difensivo, Zapad si configura come un impressionante
spiegamento di capacità operativa, osservato con preoccupazione dai
comandi dell’Alleanza Atlantica.
C’è un fondo di verità ma anche una
suggestione ingannevole nell’evocare l’immagine di un ritorno al gelo
tra Mosca e Washington, all’epoca in cui l’equazione strategica divideva
l’intero pianeta tra «noi» e «loro».
Il confronto tra Russia e Stati
Uniti è sicuramente denso di pericoli. Paradossalmente proprio perché
non esistono più, o sono stati ridimensionati, quei meccanismi di
trasparenza, controllo e gestione delle crisi, che per mezzo secolo
impedirono alle tensioni tra i due blocchi il superamento dei livelli di
guardia e spesso contribuirono a recuperare il dialogo. Ogni crisi,
durante la Guerra fredda, portava sempre a un rilancio dei rapporti tra
Cremlino e Casa Bianca, a un vertice, a un nuovo negoziato. Dall’arresto
a Mosca di Nick Daniloff, corrispondente di Newsweek , nacque nel 1986
il summit di Reykjavik tra Reagan e Gorbaciov, che aprì la strada agli
accordi sui missili nucleari. Oggi di tutto ciò non v’è traccia e invece
di un vertice tra Trump e Putin, nei prossimi mesi probabilmente
vedremo solo nuove ritorsioni.
Eppure la Guerra fredda non tornerà.
Putin è un leader autoritario, al quale prendere le misure, ma non ha
ambizioni egemoniche universali sorrette da un’ideologia come i leader
dell’Urss. Soprattutto, il mondo non è più bipolare e una nuova
Superpotenza già rivendica il suo posto negli equilibri globali.
In
realtà ciò che rende improprio parlare di nuova Guerra fredda tra Mosca e
Washington è proprio la marginalità del loro scontro. Detto altrimenti,
non è in questa mini-replica della Storia che si giocano la partita
decisiva dei futuri equilibri mondiali e in ultima analisi le grandi
questioni della pace e della guerra.
È la penisola coreana, oggi, il
teatro del conflitto che può sconvolgere il mondo. È lì che le pulsioni
alla Dottor Stranamore di Kim Jong-un rischiano di far precipitare il
vero scontro in fieri per l’egemonia mondiale, quello tra Stati Uniti e
Cina. È quella che Graham Allison chiama la «trappola di Tucidide»,
nella quale, come nelle Guerre del Peloponneso tra Atene e Sparta, una
potenza in ascesa e una affermata spesso cadono anche senza volerlo. Lo
ha capito Vladimir Putin, tattico di talento anche in assenza di
strategia, che si è già invitato al tavolo: la prossima settimana
incontrerà a Vladivostok il presidente sudcoreano Moon Jae-in. E intanto
fa sapere che «Russia e Cina hanno creato una tabella di marcia per la
soluzione della crisi nella penisola coreana». Da Washington c’è solo il
silenzio assordante di un tweet di Donald Trump: «Non è più il tempo di
nego-ziare». L’America è non pervenuta.
Repubblica 2.9.17
Il
leader cinese apre l’assise degli emergenti a Xiamen dove arrivano Modi e
Putin a “omaggiarlo”. Nel partito non ha più rivali, ha collezionato
tutte le cariche e in ottobre sarà incoronato per altri 5 anni
Xi Jinping, l’ultimo imperatore si prende i Brics e tutto il partito
Angelo Aquaro
PECHINO.
A omaggiarlo a Xiamen, in questo summit dei Brics apparecchiato di
fronte a Taiwan, l’isola che si illude di non piegarsi al Dragone,
arrivano Vladimir Putin e Narendra Modi: lo zar di tutte le Russia e il
maharaja di tutte le Indie. Nella Grande Sala del Popolo, entro Natale,
sfilerà Donald Trump: gliel’ha promesso di persona, malgrado la guerra
commerciale. Tra i due show, il 18 ottobre, ecco il vero evento clou. Il
Congresso numero 19 del Partito comunista lo rieleggerà segretario
generale, permettendogli così di risprofondare per (almeno) altri cinque
anni sulla poltrona che è ormai la più alta del mondo, grazie anche
alle imbottiture conquistate: il cuscino di presidente della Repubblica
popolare, quello di presidente della commissione militare, della
commissione economia, riforme etc etc. Compagno Xi Jinping: da
presidente di tutto a ultimo imperatore?
La laica alleanza dei Brics
(Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) oggi è l’ombra del cartello
degli emergenti che fu, e per Pechino gli scambi con i quattro partner
valgono meno della metà di quelli con gli Usa. Ma che importa? A
contare, per Xi, è l’ennesima vetrina per rivendere il concetto
enunciato prima a Davos e ribadito alla Belt and Road Initiative, il
forum sulla nuova via della seta che ha richiamato a Pechino più di
trenta tra capi di Stato e di governo, attirati dai mille miliardi
gentilmente offerti dalla casa: la Cina c’est moi, accomodatevi tra le
braccia della nuova potenza globalizzatrice. Tra le braccia del nuovo
Mao?
«Mao ha dato il potere al popolo, Deng ha indicato la strada
dello sviluppo e Xi quella per superare la diseguaglianza sociale »,
dice a Repubblica Luo Hongbo dell’Accademia cinese di scienze sociali.
Superare la diseguaglianza vuol dire cancellare la povertà entro tre
anni: è la promessa che Xi Dada, Zio Xi, secondo l’affettuoso soprannome
di regime, rilancerà al congresso. Mission possible? Intanto, per
sopraggiunti limiti di età, cancellerà quel che resta dell’opposizione,
si fa per dire, disegnandosi un Comitato permanente a sua immagine e
somiglianza. L’ascesa accanto al “padre” Mao e al “figlio” Deng verrà
quindi certificata nella costituzione del partito che eleverà la sua
filosofia a dottrina – onore finora riconosciuto solo ai primi due. E
poi lasciamo lavorare il culto della personalità.
«Il frenetico
programma degli incontri all’estero spinge Xi a saltare spesso i pasti.
La guardia del corpo passa all’interprete una scatola di biscotti e lo
implora: fagli mangiare almeno qualcosa». «Dovunque vada, Xi è un
turbinio di carisma». «Il libro sul governo della Cina è fonte di
ispirazione in patria e all’estero, con 6.42 milioni di copie in 21
lingue». Il nuovissimo e imperdibile bestseller è “Sette anni da
zhiqing”. L’espressione indica i giovani spediti a rieducarsi nelle
campagne negli anni bui della Rivoluzione culturale, un inferno
attraversato anche da Xi, figlio di un principe rosso in disgrazia – ma
con che coraggio: «Non importa quanto il cibo fosse cattivo, Xi aveva
sempre un buon appetito. Non importa quanto una persona fosse povera, Xi
non l’avrebbe mai disprezzata ».
Un documentario tv in sei puntate
racconta ora l’ultima fatica di Ercole-Xi: rivoluzionare la politica
estera. «Nell’era di Mao», dice al Global Times l’esperto Jin Canrong
«la lotta era per la sopravvivenza. Nell’era di Deng, la lotta era per
lo sviluppo. Sotto la leadership di Xi, la lotta è per la dignità». Il
triplice riferimento al concetto marxista di lotta non è un caso – come
non è un caso l’ennesimo riferimento alla trinità dei capi. Sotto la
leadership di Xi si riscrivono i libri di testo per renderli ancora più
rossi. Sotto la leadership di Xi si raccomanda agli 80 milioni di
comunisti con la tessera di sposarsi tra loro: crescete e
moltiplicatevi. Ma che cosa vuol dire «lottare per la dignità»?
Chiarisce al giornale del partito l’ambasciatore Hua Liming: «Finora la
nostra missione era favorire un ambiente pacifico per dedicarci allo
sviluppo. Ma adesso i tempi sono cambiati».
Appunto: i tempi
cambiano. E Xi mette un eroe di guerra a capo dell’esercito, seppellisce
quel che resta del dissenso con il Nobel Liu Xiaobo, rafforza la Grande
Muraglia di Internet cancellando perfino le app per andare, non sia
mai, su Facebook. E mentre incrocia lo sguardo di Modi, giunto alla
corte di Xiamen solo dopo aver ritirato le truppe che al confine
sfidavano quelle cinesi, guarda già al congresso. Il presidente di
tutto, il nuovo Mao, l’ultimo imperatore, è ormai senza rivali: non gli
resta che sbagliare da solo.
il manifesto 2.9.17
La strage dei rohingya: 400 morti nei pogrom dell’esercito birmano
Myanmar.
Il «bilancio» lo dà un generale su Facebook. Ma le vittime sono di più:
altri 15 corpi trovati sulle rive del fiume Naf, undici sono bambini.
Silenzio internazionale mentre l’India di Modi ne espelle 40mila. La
Cina difende il governo birmano al Consiglio di Sicurezza Onu: Pechino
ha interessi nel Rakhine, lo Stato dove vive la scomoda minoranza
di Emanuele Giordana
Tra
i corpi dei 15 rohingya che il colonnello Ariful Islam dice all’agenzia
Reuters di aver trovato venerdì sulle rive del fiume Naf, che divide il
Myanmar dal Bangladesh, ci sono in maggioranza bambini: sono undici a
non avercela fatta.
Ma non sono da annoverare tra i 399 che, con
agghiacciante precisione numerica, i militari birmani hanno fatto sapere
di aver ucciso nella settimana di fuoco che ha seguito il «venerdì
nero» scorso, quando secessionisti rohingya hanno attaccato alcuni posti
di polizia scatenando una ritorsione dal sapore di pulizia etnica.
Non
si tratta di una dichiarazione «ufficiale» ma di un post sulla pagina
Fb di uno dei più importanti generali del Paese. La strage dei rohingya
ridotta a qualche «like» o a condivisione sul social più diffuso. Il
bilancio ufficiale era 108 morti e sembrava già tanto, così come i 3mila
scappati oltre confine. Ma da ieri le cifre sono ben altre: 400 i morti
tra cui, dicono i militari, 29 «terroristi».
E poi ben 38mila
profughi – la cifra aumenta di ora in ora – che si aggiungono agli
87mila già arrivati in Bangladesh dopo il pogrom dell’ottobre 2016 (nel
precedente, nel 2012, i morti erano stati 200 con oltre 100mila sfollati
interni).
I dati li fornisce l’Onu che fino a due giorni fa ne aveva
contati «solo» 3mila. Ma non è ben chiaro dove questa gente si trovi:
secondo fonti locali almeno 20mila sono ancora intrappolati nella terra
di nessuno tra i due Paesi e le guardie di frontiera bangladesi tengono
il piè fermo.
Molti fanno la fine di quelli trovati dal colonnello
Ariful se non riescono ad attraversare il fiume – a nuoto o con barche
dov’è più largo – mentre altri aspettano il momento buono, quando si può
sfuggire alle guardie di frontiera. Quel che è certo è che indietro non
si può tornare.
I rapporti tra i due vicini sono tesi: Dacca ha
protestato per ripetute violazioni dello spazio aereo da parte di
elicotteri birmani in quella che sembra, una volta per tutte, una sorta
di soluzione finale per chiudere il capitolo rohingya, minoranza
musulmana che prima del 2012 contava circa un milione di persone.
Adesso,
di questa comunità cui è negata la cittadinanza in Myanmar, non è
chiaro in quanti siano rimasti in quello che loro considerano, forse
obtorto collo, il proprio Paese mentre per il governo non si tratta che
di immigrati bangladesi.
Lontano dal Mediterraneo, lungo un fiume che
sfocia nel Golfo del Bengala, si consuma lentamente ma con
determinazione la persecuzione di un popolo. I militari agitano lo
spettro di uno «stato islamico», incarnato da un gruppo secessionista
armato responsabile degli attacchi.
E se anche i residenti locali non
musulmani (11mila) sono oggetto di «evacuazione» dalle zone sotto tiro,
Human Rights Watch ha documentato la distruzione di case e villaggi
rohingya con incendi che hanno tutta l’aria di essere dolosi.
Reazione
troppo brutale, come dice la diplomazia internazionale o un piano di
eliminazione? «Siamo ormai in una nuova fase – dice a Radio Popolare il
responsabile Asia di Hrw – e siamo convinti che dietro alle operazioni
dell’esercito ci sia il governo, col piano di chiudere definitivamente
la questione cacciando la popolazione rohingya grazie alla campagna
militare contro gli insorti».
Se la diplomazia resta a guardare, i
vicini non sono da meno. La Thailandia si richiama al principio di «non
ingerenza». Delhi ha deciso l’espulsione di 40mila rohingya illegali e
settimana prossima il premier Modi sarà in Myanmar, Paese strategico per
l’economia del colosso asiatico.
La decisione ha però suscitato
polemiche, editoriali sui giornali e anche il ricorso di due rohingya
alla Corte suprema che, proprio, ieri ha accolto la richiesta: pare che
Delhi intenda espellere persino chi già gode dello status di rifugiato
con l’Acnur (14mila persone).
C’è poi un altro colosso – la Cina –
che difende le ragioni del governo birmano nelle riunioni del Consiglio
di sicurezza dove fa sentire il suo peso perché la questione rohingya
resti al palo. Pechino è il maggior investitore e ha interessi anche nel
Rakhine, lo Stato dove vive la scomoda minoranza.
È interessata al
porto di Kyaukphyu, strategico per i rifornimenti di petrolio. Non solo i
cinesi stanno acquisendo azioni della società portuale ma finanziano
l’oleodotto che dal Rakhine arriva a Kunming, Cina del Sud.
C’è un
altro investimento nella cosiddetta Kyaukphyu Special Economic Zone che
prevede una linea ferroviaria. Un corridoio ritenuto vitale nel suo
progetto One Belt, One Road, meglio noto come «Nuova via della seta».
E
per evitare complicazioni Pechino ha ottimi rapporti con un
parlamentare locale dell’Arakan National Party, ritenuto un bastione del
nazionalismo identitario locale. È il partito che vorrebbe nel Rakhine
lo stato di emergenza.
Corriere 2.9.17
Philip Roth: vi spiego perché non scrivo più
di Livia Manera
«Ecco
perché non scrivo più». Philip Roth, 84 anni, considerato il più
importante scrittore americano vivente, ha rotto il suo riserbo e ha
concesso una densa intervista a «la Lettura» da domani in edicola.
Considerato
il più importante autore americano vivente e uno dei più importanti del
secondo Novecento, ma dotato di un carattere schivo e profondamente
insofferente alle polemiche letterarie e a certa sovraesposizione
mediatica, Philip Roth (Newark, 19 marzo 1933) è sempre stato uno
scrittore difficile da avvicinare. E le sue interviste, già rare, si
sono fatte rarissime dopo l’annuncio dell’addio alla scrittura, che
risale al 2012: a parte qualche commento stringatissimo sulle recenti
vicende politiche americane, da molto tempo non ne concedeva.
Per
questo la densa intervista a Philip Roth con cui si apre il nuovo numero
de «la Lettura», il #301 (in edicola fino a sabato 9 settembre), ha
tutti i crismi dell’evento: nelle tre pagine dedicate all’autore di
Pastorale americana (e altri 30 romanzi, tra cui Lamento di Portnoy , Il
complotto contro l’America o La macchia umana , in Italia editi da
Einaudi), Roth risponde alle domande di Livia Manera raccontando come
vive lontano dalla macchina da scrivere, come ha accolto le critiche,
talvolta entusiastiche, talvolta arrabbiate, ai suoi romanzi
premiatissimi (anche col Pulitzer) ma soprattutto qual è in sostanza il
bilancio personale di una vita trascorsa quasi tutta a scrivere.
Ne
viene il ritratto di una mente lucida di interprete della società
contemporanea, ma anche il profilo di un uomo che ha lavorato molto, che
nuota in piscina per curare il mal di schiena, che deve tener lontani
gli orsi dalla sua casa settecentesca nel Connecticut. E ne vengono,
soprattutto, risposte che fanno riflettere, sul ruolo di uno scrittore e
sul suo lavoro nel mondo d’oggi. Così come fa riflettere anche il
volume di saggi, letto in anteprima e raccontato da Manera su «la
Lettura», che tra poco uscirà negli Stati Uniti, il 12 settembre: Why
write? Collected Nonfiction 1960-2013 (Library of America), un’ opera
omnia saggistica che raccoglie tutta la produzione non romanzesca di
Roth, e illustra molte delle sue posizioni sulla scrittura, sulla
letteratura e sul mondo americano.
Proprio a Philip Roth, tra
l’altro, sarà dedicata la lezione di Alessandro Piperno che si terrà al
Festivaletteratura di Mantova giovedì 7 settembre. Della kermesse
mantovana, che si svolgerà da mercoledì 6 a domenica 10 settembre e che è
giunta alla ventunesima edizione, si occupa un cospicuo speciale nella
sezione «Libri» di questo numero, non solo con la segnalazione di
incontri, eventi e appuntamenti della manifestazione, ma anche con
anticipazioni e contributi di moltissimi degli scrittori e delle
scrittrici ospiti.
A Mantova, ad esempio, si parlerà del «Vocabolario
europeo», l’impresa per la quale Giuseppe Antonelli e Matteo Motolese
hanno chiesto definizioni e parole significative ad autori di 31 lingue
diverse: su «la Lettura» si possono leggere i lemmi di cui si parlerà al
festival, come solitudine o desiderio , firmati da autori come Fernando
Aramburu, Arno Camenish e molti altri.
Attesa al festival e poi in
tour attraverso l’Italia è la scrittrice Elizabeth Strout, premio
Pulitzer: su «la Lettura» l’autrice firma due pagine vibranti in cui
ripercorre, punteggiandole di ritratti, ricordi e riflessioni, tutte le
sue esperienze di scrittura, a partire da Olive Kitteridge (Fazi) fino
al nuovo libro Tutto è possibile (Einaudi). Seguono le firme dello
spagnolo Arturo Pérez-Reverte, che racconta quel simpatico scorretto e
amorale che è il suo personaggio, la spia franchista Lorenzo Falcó ne Il
codice dello scorpione (Rizzoli); e quella dell’indonesiano Eka
Kurniawan, autore di La bellezza è una ferita (Marsilio), che ricorda
per «la Lettura» la figura del padre, e una storia di famiglia che
incarna e riflette in modo singolare quella di un intero Paese.
Tra
le pagine del supplemento, ancora, si scopre l’intervista alla
scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, anche lei attesa al
festival mantovano, che spiega a Serena Danna come vorrebbe fosse
ripensato il concetto di mascolinità; e il dialogo con Marianne Leone,
volto noto della serie I Soprano , che racconta ad Alessia Rastelli il
suo toccante memoir Jesse (Nutrimenti), sul figlio tetraplegico
scomparso a 17 anni; per continuare con l’ampio dialogo con lo scrittore
Yu Hua, in cui uno dei più rappresentativi autori cinesi d’oggi (che
chiuderà il Festivaletteratura domenica 10: il suo romanzo Il settimo
giorno è appena uscito per Feltrinelli) racconta a Marco Del Corona il
proprio sguardo metaforico sul suo Paese. E poi il colloquio di Cristina
Taglietti con Daniel Pennac (che sarà in scena a Mantova domenica 10)
con il suo ricordo del grande fotografo Robert Doisneau.
Molti altri
sono gli spunti e gli interventi nel nuovo numero. Ad esempio, ci offre
le sue riflessioni sul tema degli incipit letterari Alessandro Piperno,
che sull’argomento interverrà sabato 9 settembre al Festival della
Comunicazione di Camogli: un’analisi acuta, e però giocata sul filo
dell’ironia, intorno alle caratteristiche (e ai segreti del mestiere)
che danno all’attacco di un romanzo un tono confidenziale o
cinematografico, oppure addirittura sapienziale, con tanto di esempi
commentati. Mentre Matteo Persivale anticipa la nuova storia di John le
Carré, ottantaseienne maestro della spy story che uscirà negli Stati
Uniti il 5 settembre facendo tornare in campo l’agente Smiley, quello de
La spia che venne dal freddo .
E infine, nelle pagine del
supplemento c’è un’altra esclusiva, questa volta artistica. Milo Manara,
protagonista di una mostra antologica a Bologna raccontata da Vincenzo
Trione, ci propone a tutta pagina una delle sue icone femminili: un
inedito che il disegnatore ha realizzato appositamente per questo numero
de «la Lettura» e che si ispira alla figura intramontabile di una
bellissima dello schermo...
il manifesto 2.9.17
La Storia senza schermi interattivi
Luoghi.
«Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz», un denso
saggio di Piotr M. A. Cywinski. Il direttore del museo-memoriale sarà in
Italia, ospite al Festivaletteratura di Mantova
di Lia Tagliacozzo
Auschwitz
è un luogo che ci interroga: è stato il più grande campo di sterminio
industrializzato della Germania nazista. E pone, oggi, domande immense:
tentare di farne un elenco interpella il nostro essere uomini e donne,
la storia d’Europa, la coscienza individuale, la vita presente e le
responsabilità future. Oggi un aiuto a formulare domande e ipotesi di
risposte lo offre Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz
(Bollati Boringhieri, pp. 148, euro 15) di Piotr M. A. Cywinski che dal
2006 è direttore del museo-memoriale di Auschwitz-Birkenau e che l’8
settembre sarà fra gli ospiti di Festivaletteratura di Mantova (ore 17,
Palazzo del Seminario Vescovile – Auditorium). Il libro è tradotto e
curato da Carlo Greppi che ne scrive anche una bella postfazione rivolta
al pubblico italiano.
Non c’è una fine è un volume che non esaurisce
temi e domande ma che pure lenisce il travaglio di chi sente di doversi
confrontare con l’anus mundi della «civile» Europa che in quel luogo ha
perso, definitivamente, la sua innocenza.
UN LIBRO deliberatamente
di parte, scritto da uno che «rimane qui»: «Ai visitatori servono
quattro ore per visitare Auschwitz, a volte un po’ di più. Noi invece
restiamo qui. Vediamo Auschwitz giorno dopo giorno, nella neve, alla
luce del sole, nella foschia del mattino, prima delle vacanze, nel
giorno del nostro compleanno, subito dopo la nascita di nostro figlio o
al ritorno dal funerale di qualcuno a noi caro». Poche righe più avanti,
spiega come «a noi nessuno domanda al rientro a casa come abbiamo
passato la giornata». Vi è in questo una qualche saggezza: «In fin dei
conti, non tutto deve essere detto. Proprio come non tutto deve essere
sentito.
Occhiali ritrovati ad Auschwitz
CI SONO VERITÀ che non
aumentano affatto la nostra conoscenza. Al contrario ci avvelenano». Ed è
la riflessione su verità, autenticità e conoscenza che accompagna per
intero la lettura del libro.
In un itinerario tra molte domande il
volume ragiona, con garbo e inquietudine, su cosa sia Auschwitz oggi e
sul perché milioni di persone vi si rechino ogni anno: «dopotutto,
sappiamo cosa è successo ad Auschwitz e non ci sono sconosciuti i nomi
di altri luoghi – scrive Cywinski – come Treblinka, Mauthausen,
Buchenwald, Dachau o Gross-Rosen. I fatti li conosciamo dai libri, dai
manuali, dagli insegnanti. Tuttavia crediamo che ad Auschwitz saremo in
grado di capire qualcosa di più». La potenza di quel luogo interroga
ancora se oltre cinquanta milioni di persone vi si sono recate in
visita, omaggio e ricordo nel corso degli anni. Le pagine del libro non
risparmiano domande, a nessuno.
CIASCUNO, in virtù della propria
formazione culturale, politica o umana può trovarvi e aggiungere le
proprie. Quello che è certo – prosegue Cywinski – è che «stando ad
Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione,
giudichiamo l’umanità. Di conseguenza giudichiamo noi stessi». Una
questione di inizio è perché proprio Auschwitz abbia finito con il
rappresentare l’intero dramma della Shoah – la distruzione sistematica
degli ebrei – quando in realtà non è così. La Shoah infatti non si
esaurisce nello sterminio industrializzato – le stragi di massa e le
fosse comuni nell’Europa orientale ebbero altra storia, altre date e, in
parte, altri protagonisti – come Auschwitz non esaurisce tutta la sua
storia «solo» nella Shoah: fu il punto centrale di un sistema
concentrazionario con fabbriche e campi di lavoro. Ed è questo uno dei
motivi per cui ne conosciamo meglio la storia: in quanto campo di lavoro
vi furono più sopravvissuti. Eppure «di tutti i maggiori centri di
assassinio di massa, solo Auschwitz è sopravvissuta in una forma che si
mostra ancora decifrabile. Gli altri luoghi furono smantellati,
distrutti e alterati al punto da essere irriconoscibili (…) per questa
ragione Auschwitz come sito memoriale iniziò ad essere visitato
regolarmente da capi di stato, primi ministri e leader religiosi.
Divenne il centro simbolico di un tutto molto più grande ed esteso».
La
riflessione di Cywinski non si sclerotizza nel simbolo e cerca di
andare oltre. Nella memoria pubblica vi è un’evidenza che rimane celata:
nell’immaginario collettivo Auschwitz è rappresentato dal filo spinato,
dalle torrette di guardia, dall’immondo cancello con la scritta «il
lavoro rende liberi». Lo scopo del museo-memoriale è esattamente il
contrario di quella rappresentazione stereotipata: è invece ricordare le
persone. «Le persone comuni che vennero assassinate in questo Luogo.
Senza questa consapevolezza il lavoro diventerebbe simile a quello che
si fa in qualsiasi museo o sito archeologico», perché è incontrare lo
sguardo delle vittime che costringe ad affrontare l’immensità dello
sterminio. Per questo, spiega ancora Cywinski, «la narrazione della
memoria qui coincide prima di tutto con il Luogo». Il Luogo – la
maiuscola è di Cywinski – è lo spazio fisico attraversato da quelle
vittime, non simbolo ma consistenza. «La voce dei sopravvissuti e il
Memoriale sono i due maggiori pilastri della narrazione di Auschwitz. Si
sostengono l’un l’altro. Uno sarebbe più debole senza l’altro».
LA
PRESENZA FISICA del visitatore che si aggira tra i resti tangibili del
campo mette a confronto «l’immaginazione disorientata con l’inflessibile
realtà». «Le parole e il Luogo si sostengono a vicenda per creare un
tutt’uno. Queste due realtà sono tutto ciò che abbiamo, e non avremo mai
niente di più». Ed è intorno a quel Luogo che il volume si dipana: non
tanto su cosa sia stato ma su cosa debba essere oggi.
Il libro
affronta alcune delle antinomie che la riflessione su Auschwitz pone –
quella tra storia e memoria per esempio – e affronta con determinazione
il dilemma tra conservazione e innovazione: i chilometri di filo spinato
devono essere sostituiti ogni dozzina di anni. «Qualcuno protesta
sostenendo che non si dovrebbe installare del filo spinato moderno in un
luogo in cui il paradigma è l’autenticità. Invece si può e deve essere
fatto. Diversamente, Auschwitz sarebbe circondata da migliaia di pali di
cemento isolati. I visitatori non capirebbero come le SS avevano diviso
il campo in settori delimitati: si troverebbero davanti soltanto
un’incomprensibile foresta di pali». Diverso il dramma posto dalla
conservazione delle tonnellate di capelli che si vanno deteriorando.
Ipotesi di restauro si sono alternate a quelle di seppellirle: per il
momento si è deciso di conservarle così come sono, senza interventi.
«Credendo fortemente nella potenza evocativa del Luogo stesso sono
convinto che l’opzione più sensata sia il minimalismo. Proprio come il
silenzio è spesso il miglior compagno di una visita».
RITORNA SPESSO
tra le pagine un appello cocente alla conservazione del Luogo senza
trasformarlo in una sorta di parco multimediale sulla Shoah. L’aspetto
didattico, le visite con l’audioguida aiuterebbero una maggiore
comprensione del Luogo? La risposta di Cywinski è decisa: «Le persone
non vengono qui per vedere lo schermo più interattivo del mondo. Se uno
schermo del genere venisse installato intralcerebbe l’esperienza che è
la cosa più importante. Nasconderebbe la verità e per questo dovrebbe
essere rimosso». Resta, almeno, una questione in sospeso: in alcuni
punti di Birkenau sul terreno vi sono piccoli oggetti bianchi che paiono
sassolini. Si tratta di frammenti di ossa. Che farne? Concedere
sepoltura e riposo? Come non comprendere l’angoscia degli ebrei
ortodossi che li vedono? «Le persone si trovano a confrontarsi con un
enorme problema: cosa fare per ossequiare la Legge in un luogo dove è
stata trascurata. In altre parole come normalizzare qualcosa che è
decisamente insolito».
La risposta migliore «è che questo luogo non
deve essere normalizzato. La differenza è tra impossibilità e divieto.
Nessuno ha diritto di normalizzare questo Luogo. Ma non è più una
risposta religiosa. È un’affermazione ideologica».
È possibile
effettuare una sepoltura ma quei resti perderebbero il loro significato:
«Sarebbero arrivate la pace e la quiete; qualcosa di buono nel caso di
altre morti, ma insostenibile qui».
Corriere 2.9.17
Genesi dello spirito longobardo alle radici del nostro Medioevo
di Francesca Bonazzoli
Il
documento storicamente più importante è il celebre Editto di Rotari,
redatto in latino nel 643 fra le mura del monastero di Bobbio, che
all’epoca fungeva da cancelleria della reggia di Pavia. Le pagine di
pergamena sono arrivate da San Gallo, in Svizzera, e appaiono macchiate e
bruciacchiate, ma sono la prima raccolta scritta delle leggi dei
Longobardi, popolo che prima di arrivare in Italia non conosceva la
scrittura.
Fra i reperti più lussuosi, invece, ci sono i calici in
vetro colorato a forma di corno rinvenuti nelle tombe di duchi sepolti a
Cividale del Friuli, Ascoli Piceno e Nocera Umbra. E poi monili d’oro
arricchiti di paste di vetro colorato; pedine d’avorio di un gioco della
dama; pettini, pugnali e spade, così importanti per un popolo
guerriero, la più preziosa delle quali, ritrovata a Nocera Umbra e
eletta a logo della mostra, ha l’impugnatura d’oro lavorata con le
tipiche decorazioni ad onde geometriche dei popoli barbari.
Sono
oltre 300 le opere esposte provenienti da 80 musei e 58 corredi funerari
per un totale di 32 siti longobardi rappresentati. L’umile vita
quotidiana del popolo dalle lunghe barbe si dispiega accanto a quella
aristocratica di palazzo in otto sezioni tematiche per raccontare la
storia di un’etnia che, nata seminomade, sognò di fermarsi finalmente in
Italia acquisendo a poco a poco lingua, religione, leggi e cultura dei
romani, a loro volta già occupati dai Goti.
«Insediamenti e necropoli
erano dapprima separati. Del resto i Longobardi erano pochi, forse solo
150 mila individui e famiglie che si stanziarono in città e castelli
strategici per il controllo del territorio esteso fino a Benevento»,
spiega Caterina Giostra, collaboratrice scientifica della mostra. «Ma
dopo secoli persino i caratteri fisici si ibridizzarono, come scopriamo
dai ritrovamenti delle tombe».
Anche dai numerosi monili esposti
(anelli, collane, orecchini, fibbie e decorazioni di cinture) possiamo
registrare la graduale trasformazione dal gusto germanico dei primi
tempi, caratterizzato da una predilezione per figure di animali astratti
e scomposti, alle forme più armoniose e alle iconografie del mondo
cristiano e romano. E se a Povegliano Veronese è stato ritrovato uno dei
reperti che più piaceranno ai bambini, e cioè l’impressionante
scheletro di cavallo sepolto accanto a due cani, testimonianza dei riti
pagani con il sacrificio dell’animale più caro accanto al suo guerriero,
in un’altra tomba a fianco del cavallo fu deposta una croce cristiana
in lamina d’oro.
Tuttavia, per riuscire a insinuarsi nell’incrinatura
del sistema bizantino, che aveva ingaggiato un ventennale conflitto
contro i Goti, e per conquistare con una serie di guerre lunga due
secoli un pezzo di territorio dopo l’altro fino a controllare due terzi
dell’Italia, gli invasori dovevano mantenere una forte identità etnica,
legata all’esercito.
«La tesi della mostra è dimostrare che
resistette a lungo», spiega Gian Pietro Brogiolo, curatore della
rassegna assieme a Federico Marazzi. «Per i Longobardi i romani rimasero
i nemici. Esiste un’identità longobarda che persiste fino alla fine del
VII secolo per esigenze di coesione interna, indispensabile per
mantenere uno stato di belligeranza continuo». Per esempio, racconta
Brogiolo, il diritto longobardo dell’Editto di Rotari conviveva con
quello romano e si applicava alla sola popolazione occupante. Ancora nel
VII secolo, verso la fine del regno longobardo, Liutprando ammetteva
che il sistema del duello per redimere le controversie non assegnava
necessariamente la vittoria al giusto, bensì al più forte. Ma, diceva,
non era possibile cambiare quella legge perché apparteneva alla
tradizione del loro popolo.
I video e le didascalie che accompagnano
ogni sezione della mostra aiutano il visitatore a districarsi anche fra
le questioni religiose, con le divisioni fra il culto ariano e
cattolico, che furono fondamentali nel processo di integrazione e
conquista.
Dalla quinta sezione, quando si affronta l’introduzione
della scrittura da parte di un popolo che era stato barbaro fra i più
barbari, di quelli, cioè, che non avevano avuto contatti diretti con
l’Impero romano, si passa dal racconto della vita quotidiana, a quello
sulla gestione del potere che culmina con la fondazione e il controllo
dei monasteri.
«Nei due secoli di dominio, una delle trasformazioni
più radicali è la conversione al cristianesimo», riassume Caterina
Giostra. «L’arrivo dei Longobardi rappresentò una rottura violenta nella
continuità della lunga storia romana e una novità dirompente anche
rispetto all’invasione dei Goti che si erano posti come continuatori
dell’Impero. Però, dopo lo strappo, la loro presenza creò le premesse
per la ricucitura di un nuovo tessuto alla base del nostro Medio Evo».
Corriere 2.9.17
Ora non sono più una parentesi della nostra storia
di Claudio Azzara
Il
periodo della storia d’Italia caratterizzato dalla presenza dei
longobardi, dall’anno della loro migrazione, il 568 o il 569, a quello
della fine del loro regno, il 774, con la significativa prosecuzione nei
principati di Benevento e di Salerno addirittura fino al secolo XI, si è
prestato come pochi altri a letture deformate, preconcette e
anacronistiche sia negli studi specialistici sia nella cultura più
diffusa della nostra nazione. Del resto, esso offre una varietà di temi
che di volta in volta ben si sono prestati a suscitare vaste risonanze e
a suggerire confronti con il presente: la frantumazione politica della
penisola, fra longobardi e bizantini, iniziata allora e destinata a
ricomporsi solo con il Risorgimento; il rapporto fra un’etnia immigrata
minoritaria ma dominante e una larga maggioranza romana ridotta a uno
stato di subordinazione; infine, il primo esercizio di un esplicito
ruolo politico da parte del papato a difesa della romanità cristiana,
contro i longobardi, fino alla chiamata nella penisola dei franchi di
Carlo Magno. Così, ad esempio, negli ambienti cattolico-liberali
antiasburgici dell’Ottocento è risultata prevalente l’interpretazione,
riecheggiata in letteratura dall’ Adelchi di Manzoni, che accostava, con
un cortocircuito cronologico, la lontana sottomissione dei romani ai
longobardi a quella di molti italiani del secolo XIX agli austriaci,
esaltando l’intervento allora compiuto dai pontefici per la salvezza
delle genti italiche. All’opposto, secoli prima, Machiavelli aveva
lamentato come la fine del regno longobardo avesse rappresentato
l’occasione mancata di una precoce unificazione politica della nostra
nazione, inaugurando piuttosto la consuetudine delle ingerenze papali
nelle vicende italiche e degli interventi di popoli stranieri (al tempo,
i franchi) sul nostro suolo. Insomma, siano stati visti quali
potenziali artefici di un regno «italiano» unitario già in pieno
medioevo, oppure, al contrario, come un corpo estraneo, «germanico»,
rispetto alla più genuina identità nazionale d’impronta romana, mai
assimilato e infine rimosso dall’iniziativa della Chiesa, i longobardi
non hanno quasi mai beneficiato di una valutazione storicamente
obiettiva e scientificamente fondata. È dalla metà del ‘900 che la
vicenda longobarda è stata ricondotta a un quadro più ampio della sola
storia nazionale, e affrancata dalla secca contrapposizione fra la
«barbarie» germanica e la «civilitas» romano-cristiana, offrendosi
piuttosto quale significativo caso di incontro fra tradizioni diverse su
una scala europeo-mediterranea. Oggi i secoli dell’Italia longobarda
vengono riletti come un processo di integrazione fra la cultura
dell’etnia immigrata e quella della popolazione autoctona fino alla
creazione di una società nuova e originale. I longobardi non figurano
più come una parentesi nel fluire dalla storia patria, ma come un
tassello costitutivo della stessa, che ha lasciato il suo contributo
(quantitativamente inferiore ad altre esperienze, ma non irrilevante)
alla nostra assai composita identità, da varie tracce linguistiche,
toponomastiche, artistiche, alla lunga persistenza del diritto dei
longobardi, almeno in alcune materie, fino alle soglie dell’età moderna.
E il recente riconoscimento da parte dell’Unesco del sito seriale I
Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.), che tutela
sette monumenti longobardi in diversi luoghi, dal Friuli alla Campania,
ha ulteriormente legittimato la cura della memoria dei longobardi
all’interno dell’immenso patrimonio storico e culturale italiano.
*Docente all’Università di Salerno e autore de I Longobardi (Il Mulino)
Corriere
La Rivoluzione russa
Il quell’agosto del 1917, la rinascita dei bolscevichi
Dopo
la fuga precipitosa da Pietrogrado e la «latitanza» in Finlandia, Lenin
tornò in patria più spregiudicato. E deciso a rovesciare lo Stato
borghese con la forza.
di Fabrizio Dragosei
qui