sabato 2 settembre 2017

Corriere 2.9.17
Le sedute di psicanalisi del giovane Bergoglio e la Chiesa che perde l’esclusiva del conforto
di Pierluigi Battista

La rivelazione: a 42 anni si rivolse a una terapeuta
Dunque viene confermata un’altra intuizione di Nanni Moretti suggerita in «Habemus Papam». La prima era la profezia delle dimissioni di papa Ratzinger, rappresentata con qualche anno di anticipo dal cardinale interpretato nel film da Michel Piccoli, piegato e tormentato da una responsabilità per lui insopportabile, talmente insopportabile da indurlo a una clamorosa, e dolorosa, rinuncia. La seconda intuizione trova riscontro nella rivelazione dello stesso papa Francesco in un libro di prossima pubblicazione in Francia di aver cercato sostegno e cura tutte le settimane per sei mesi con una psicanalista ebrea.
Aveva 42 anni, il Bergoglio non ancora Papa in terapia analitica. Ma è difficile non pensare al Pontefice appena eletto da un Conclave ispirato dallo Spirito Santo che nel film di Moretti, in fuga dal Vaticano e travolto dall’angoscia, si rivolge in incognito alla psicanalista Margherita Buy per arginare le sofferenze di un implacabile «deficit di accudimento».
E il cinema e la letteratura, del resto, dicono con forme espressive di grande efficacia immaginativa ciò che riesce difficile ammettere nella vita ordinaria, e non solo nell’immenso gregge dei credenti: e cioè che i sacerdoti, e lo stesso Papa, sono anche loro creature umane tormentate dalle debolezze, dal senso di inadeguatezza che perseguita il cardinale che non se la sente di salire al Soglio pontificio di «Habemus Papam» scritto da Moretti insieme a Federica Pontremoli e Francesco Piccolo, dal dolore di una perdita, di un abbandono, di una atroce vergogna del disamore che tortura The Young Pope interpretato da Jude Law nella serie di Paolo Sorrentino.
E fino a qui la scoperta potrebbe anche non essere sconvolgente. Ma non è scontato, e la confessione di papa Francesco ne è una conferma esplicita, che i dolori, i tormenti, la fatica del vivere, il disagio disertino il lessico della fede in senso stretto da parte di chi addirittura dovrebbe custodirne il deposito in questa valle di lacrime per abbracciare le categorie e le liturgie, proprio di liturgie si tratta in qualche modo, della scienza psicanalitica. E non è solo perché il lascito di Sigmund Freud è sempre stato liquidato come inammissibile ed eretica deviazione di tipo «pansessualistico» nella descrizione della condizione umana. O anche perché l’avversione della Chiesa verso la psicanalisi, solo parzialmente bilanciata dall’attenzione critica ma non demolitoria di un Papa intellettuale come Paolo VI, è sfociata addirittura nel 1962, in un «Monito» del Sant’Uffizio che impediva tassativamente ai sacerdoti più esposti alle tempeste della vita di ricorrere alle terapie messe a punto da Freud o da altre scuole psicanalitiche. Ma soprattutto perché questo ricorso alla psicanalisi testimonia di un’incertezza culturale, una non granitica fiducia sulla solidità di un’intera tradizione in cui la Chiesa, sostenuta da intere legioni di confessori, preparatori spirituali, docenti di seminari, maestri di dottrina, è letteralmente la «pietra» su cui si regge un edificio che ha resistito alle intemperie mondane di secoli e millenni.
Un edificio in cui la sofferenza, il tormento, il disagio psichico trovavano nei ministri della fede, e figuriamoci se poteva mancare il sostegno più prezioso e più prestigioso nel vertice papale, una risposta, un rimedio, una medicina, un conforto spirituale.
Questa pretesa di esclusività esistenziale sulle questioni della vita e della psiche umana, come raccontano i film di Moretti e Sorrentino, è semplicemente venuta meno. E il ricorso a pratiche su cui la Chiesa ha esercitato da sempre la cultura del sospetto parla di un cattolicesimo, certamente più aperto agli influssi del mondo ma anche meno saldamente certo di sé.
L’inconscio, si diceva negli ambienti più conservatori della Chiesa, è la voce del demonio. Molto è cambiato, nel frattempo. Già quando il Papa non era ancora Papa, ma la psicanalisi aveva già vinto la sua battaglia.D’Alema: una volta si pensava a salvare ora a respingere Il patto con la Libia? Grande cinismo
LIVORNO È stato un suo ministro, Marco Minniti, e un compagno di partito già ai tempi del Pci e Massimo D’Alema non nega le doti dell’uomo e la sua capacità di stare fuori dalle correnti. «È tecnicamente bravo e si è sempre occupato di sicurezza», spiega durante un’iniziativa organizzata da Mdp a Livorno. Ma sull’immigrazione e l’accordo con la Libia non risparmia le critiche. «Siamo passati da una politica nella quale la priorità era salvare le persone a un’altra in cui la priorità è respingerle. Minniti ha firmato un accordo simile a quello che sottoscrisse Berlusconi con Gheddafi e che precedentemente il governo Prodi aveva respinto perché non dava garanzie sui diritti umani».
Secondo D’Alema, fermando i flussi dei migranti in mare aumenta enormemente il numero delle persone che muoiono nel deserto. «E quelli che riescono ad avvicinarsi alla costa sono rinchiusi dai libici in campi di concentramento nei quali non esistono diritti e le donne vengono violentate. È stato fatto un accordo facendo finta di non guardare, con grande cinismo». Infine una stoccata al segretario del Pd: «Quando Renzi parla di aiutare i migranti a casa loro dice una cosa falsa. Noi non li aiutiamo a casa loro ma diamo soldi ai libici per fermarli nel deserto e rinchiuderli in campi di concentramento».

La Stampa 2.9.17
Perché la “confessione” del Pontefice è rivoluzionaria
In Italia la Chiesa spinse per mettere Freud fuorilegge
di Fabio Martini

C’è qualcosa di rivoluzionario nella confessione di papa Francesco di essere andato in analisi, di averne tratto giovamento e di essersi fatto curare da una psicoanalista. Sin dai primi del Novecento la Chiesa ha sempre osteggiato con tutti i mezzi, anche “illegali”, la psicoanalisi, avvertita come pericolosa concorrente, come “colpevole” di aver infranto il monopolio cattolico nel confessionale e nella introspezione delle anime. Certo il capo di accusa non è mai stato dichiarato esplicitamente, ma per almeno 50 anni si è sviluppata una guerra senza quartiere contro una disciplina “eretica” fondata dall’ebreo Sigmund Freud.
La psicoanalisi è stata disciplina, almeno in Italia, vissuta come destabilizzante da tutti i poteri costituiti. Agli albori la contrastano non solo la Chiesa, ma anche il fascismo, l’idealismo crociano e nel secondo dopoguerra il Pci di influenza sovietica. E infatti all’inizio degli Anni Trenta i pionieri, non per caso, sono due ebrei - Edoardo Weiss ed Emilio Servadio - e due antifascisti socialisti, Cesare Musatti e Nicola Perrotti.
Il Vaticano è ostile perché intuisce nella psicoanalisi una pericolosa concorrente. Ne denuncia il «pansessualismo» e il «materialismo», ma di quelle teorie ancora più inquieta l’ambizione «totalitaria», un’attitudine che finisce col sottrarre alla Chiesa il monopolio dell’anima e i tanti segreti personali, fino a quel momento custoditi in confessionale. E crolla persino il monopolio sull’attività onirica, rispetto alla quale la Chiesa aveva elaborato, ben prima di Freud, una sua «Interpretazione», per la quale attraverso i sogni è il diavolo che vuole catturare l’anima. Ecco perché la Chiesa nel 1934 chiede a Mussolini – e ottiene – la soppressione della “Rivista italiana di psicoanalisi”, alla quale seguirà cinque anni dopo lo scioglimento della pur piccola Società italiana di psicoanalisi. Soffocata sul nascere con l’accordo del fascismo, la psicoanalisi italiana nel secondo dopoguerra subisce la ripresa di ostilità da parte della Chiesa, al punto che nel 1952, sul Bollettino del clero romano, si arriva a qualificare addirittura come «peccato mortale» ogni pratica psicoanalitica. Una scomunica apparentemente senza appello, ma che negli anni successivi via via si scioglie grazie a piccole aperture di papi come Paolo VI e Giovanni XXIII. Ora Francesco non soltanto ha “sdoganato” la psicoanalisi ma l’ha elevata a “compagna” dell’anima umana.

Repubblica 2.8.17
La Prozac generation che adora il dio farmaco
di Marco Belpoliti

In principio, nei primi anni Sessanta, fu il Valium. Poi toccò a Tagamet e Xanax E adesso, col boom della pillola blu e dell’antidepressivo più diffuso di sempre, siamo entrati nell’era delle droghe mediche
Il Valium, creazione di un chimico croato, Leo Sternbach, dipendente della Hoffmann-La Roche, è un tranquillante basato su una molecola, il diazepam. Entra nelle farmacie americane nel 1963 soppiantando i
tradizionali barbiturici nelle sindromi ansioso-depressive; tra il 1969 e il 1982 è il farmaco più prescritto negli Stati Uniti; nel 1974 il suo nome figura infatti in ben 70 milioni di ricette stilate da medici di famiglia, ginecologi, pediatri. Cura l’ansia e la tensione associata a stati di stress. Lo spodesta un farmaco antiulcera, Tagamet. Nel 1982 la Upjohn Company realizza invece un ansiolitico a base di alprazolam, molecola appartenente alle benzodiazepine: lo Xanax, che diventa uno dei farmaci più utilizzati contro gli attacchi di panico, sebbene sviluppi una dipendenza sia psicologica che fisica. Nel 1974 tre chimici della Eli Lilly stanno conducendo ricerche su un composto con effetti analoghi agli antidepressivi triciclici; dal loro laboratorio nel 1987 nasce un nuovo farmaco: Prozac. In poco tempo diventa lo psicofarmaco più prescritto dagli psichiatri americani; dopo quattro anni è il farmaco più venduto nel mondo. Il Prozac è il più diffuso inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina, neurotrasmettitore del cervello, che regola sonno e veglia, ipotalamo, ipofisi e varie importanti pulsioni umane. Sulla serotonina agiscono sia le droghe tradizionali, derivate da erbe e piante, sia quelle chimiche sintetizzate a partire dagli anni Quaranta del XX secolo.
Che differenza c’è tra psicofarmaci e droghe? Entrambi contengono sostanze psicoattive. Il farmaco, come sostanza
Come spiega Franca Ongaro Basaglia per noi hanno un alone magico-religioso
che allevia le sofferenze dell’uomo, è sempre esistito, così come in tutte le culture sono presenti droghe, sostanze inebrianti cui gli uomini si sono affidati nella speranza di uscire dai limiti delle proprie conoscenze o per annullare le sofferenze, come scrive Franca Ongaro Basaglia. L’evoluzione storica del farmaco procede con l’avanzamento stesso della scienza, che dissolve progressivamente il mondo magico. Il farmaco risponde al problema della sofferenza e della morte, la droga a quella del superamento delle costrizioni imposte dalla vita quotidiana. A parere del sociologo tedesco Günter Amendt, esperto dell’uso di sostanze psicoattive, oggi «le caratteristiche chimiche del corpo non sono più sufficienti per adattare l’organismo sia psichicamente sia fisicamente alla velocità delle macchine e dei processori. L’uomo vive in una condizione di permanente sovraccarico e cronica sovreccitazione». Come aveva pronosticato il filosofo Günter Anders all’inizio degli anni Sessanta, in L’uomo è antiquato, la trasformazione iniziata in quel periodo esige qualcosa di eccessivo e con questa pretesa provoca «uno stato patologico collettivo».
Sotto forma di stimolanti, ma anche di tranquillanti, le sostanze chimiche sono entrate a far parte del nostro orizzonte quotidiano. Sono i farmaci consumati quotidianamente da milioni di persone in America e in Europa a indicare che la barriera che separava ancora farmaci e droghe è stata abbattuta. Del resto, la parola “farmaco” nella sua origine greca — pharmacos — descrive sia il rimedio che il veleno, duplice significato che è presente nella parola inglese drug: farmaco e anche droga. Esistono le “droghe da lavoro”, come le anfetamine, sintetizzate in Germania nel 1887, meno potenti della cocaina, ma più della caffeina, entrate in commercio nel 1932, e le “droghe del divertimento”, spesso sintetiche (Mdma, Mda, Mdea, Mbdb, Mdoh). Un settore farmacologico in grande espansione, il cosiddetto lifestyle segment, comprende il Viagra, le “happy pill” e le “pillola del dopotutto”.
Molte persone nella loro farmacia casalinga possiedono una fornitura di ansiolitici. Gli psicofarmaci aiutano a reggere la flessibilità che è oggi richiesta agli individui, e sono sostanze molto prossime alle droghe e ai loro effetti. Inoltre, c’è una questione imposta dalla diffusione delle droghe sintetiche, le cosiddette “droghe da party”: l’uso edonistico delle sostanze psicoattive. Sembra tramontato l’uso della droga quale strumento di conoscenza o d’allargamento della coscienza, come accadeva negli anni Sessanta e Settanta. Le droghe chimiche svolgono oggi una funzione decisiva nell’ambito del divertimento. Il loro abuso poi è affidato a una sorta di autogestione dei singoli, sia per quanto riguarda i farmaci psicotropici, come le benzodiazepine, sia per le sostanze sintetiche. Il rapporto tra farmaci legalmente disponibili e droghe illegali si trova stretto tra due poli: da un lato, l’intensificazione del lavoro, il superamento delle strutture temporali (giorno/notte, feriale/festivo), il dissolvimento dei tradizionali legami sociali e quelli emotivi; dall’altro, la ricerca di divertimento e felicità mediante sostanze stimolanti. Negli ultimi decenni si è inoltre modificata l’idea di sofferenza psichica, grazie alla medicalizzazione di molti dei sintomi provocati dalle trasformazioni sociali in atto. Con l’avvento dell’“era Valium”, com’è definita, l’aspetto medico-psichiatrico e quello afrodisiaco- ricreativo (P. Adamo e S. Benzoni) si sono mescolati e sovrapposti, producendo nuove mitologie di massa. L’idea di benessere individuale è in rapido mutamento, come la stessa idea di “soggetto individuale”.
Negli anni Novanta i romanzi di Bret Easton Ellis, American Psycho ( 1991) e Glamorama (1998), raccontavano in modo estremo e provocatorio la trasformazione in corso: un mondo in cui la psico-farmacologia aveva un’evidente influenza. Un saggista americano, Randolph Nesse, ha ipotizzato che la bolla speculativa americana degli anni Novanta sia spiegabile tenendo conto degli antidepressivi ingeriti dai giovani e rampanti brokers. Venticinque anni prima Philip K. Dick in Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1965), aveva narrato la vicenda di due imprenditori che smerciano droghe ai coloni terrestri che vivono su Marte; il primo diffonde Can-D, sostanza che induce la sensazione di risiedere felicemente sulla Terra; mentre Palmer Eldritch fornisce Chew-Z, sostanza che crea sensazioni più interessanti e coinvolgenti, ma che si rivela la porta d’ingresso in universi strettamente controllati da Eldritch stesso; un modo per evocare i timori di controllo sociale che le droghe sintetiche iniziavano a suscitare. Ci stiamo probabilmente avviando verso un mondo in cui i farmaci-droghe e le droghe- farmaco diventeranno generi voluttuari alla pari del caffè e del tabacco, divenendo legali, com’è accaduto nel corso della prima rivoluzione industriale, come sostiene lo studioso Wolfgang Schivelbusch? Psicofarmaci e droghe sintetiche renderanno più sopportabile la società post-postindustriale,
Furono i romanzi di Bret Easton Ellis a raccontare le nuove dipendenze
in cui ci troviamo a vivere, senza creare dipendenza? Sarà possibile superare il proibizionismo attuale, che contempla l’uso legale di psicofarmaci mentre proibisce e criminalizza le droghe? Come scongiurare l’effetto di controllo che la farmacopea sintetica può assumere sugli individui?
Domande per cui non ci sono risposte, ma che non potranno più essere ignorate a lungo.
Cosa leggere per saperne di più
Piero Adamo e Stefano Benzoni, Psychofarmers ® (Isbn Edizioni) dizionario sugli psicofarmaci; Günter Amendt,
No drugs no future (Feltrinelli) e Droghe in lessico postfordista: dizionario di idee della mutazione (Feltrinelli); Franca Ongaro Basaglia, Farmaco/ droga in Enciclopedia Einaudi, vol. VI); Wolfgang Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari (Bruno Mondadori). 9. Fine


Repubblica 2.9.17
La scuola e i limiti della democrazia
di Guido Crainz

È REALMENTE democratica la nostra università? Questa domanda chiama in causa nel suo insieme la nostra istruzione pubblica: aiuta realmente a rimuovere le differenze sociali e culturali di partenza? Due interrogativi suggeriti dalla sentenza dell’onnipresente Tar del Lazio che ha dichiarato illegittimo il “numero chiuso” alle facoltà umanistiche della Università Statale di Milano.
Un “numero chiuso” o “programmato” è normalmente previsto per Medicina e altre facoltà nelle quali siano centrali i laboratori o altri strumenti, ed era stato motivato invece in questo caso dalla carenza di docenti (in coerenza anche con le indicazioni ministeriali sul rapporto docenti- studenti). Per molti versi la scelta che era stata compiuta fra tanti contrasti dall’ateneo milanese chiama in realtà in causa un insieme di nodi che vanno ben al di là di essa.
RINVIA al più generale ridursi del numero dei docenti (oltre che alla carenza di strutture e spazi adeguati, soprattutto nei grandi atenei) ma costringe a una riflessione molto più profonda.
È stata ricordata quest’anno la Lettera a una professoressa di don Milani di cinquant’anni fa, e le parti più efficaci di quel testo erano le tabelle che traducevano in modo “visivo” i risultati di un’indagine del Censis appena compiuta. Risultava così in modo icastico che la presenza dei “figli di papà” (quello era il linguaggio e quella era l’epoca) cresceva in maniera esponenziale nel corso degli studi e altrettanto drasticamente diminuivano i ragazzi di famiglie povere. Ampliando almeno un po’ le categorie (e inserendovi ad esempio l’istituto superiore frequentato) le conclusioni non sarebbero oggi molto diverse: il che significa che la nostra istruzione pubblica disattende ancora i dettami del terzo articolo della Costituzione, secondo il quale è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la reale uguaglianza dei cittadini.
Di questo stiamo parlando, e anche discutere della decisione presa a suo tempo dall’Università Statale di Milano ci costringe a misurarci con nodi immensamente più grandi e assolutamente ineludibili. Senza ignorare naturalmente gli elementi più diretti sottesi in questo caso alle opposte opzioni: da un lato il “principio di democrazia” che verrebbe incrinato dal “numero chiuso” o “programmato” (pur presente, come s’è detto, in altre facoltà), e sul versante opposto la necessità appunto di una “programmazione” che renda effettiva e fungibile (o perlomeno, un po’ meno aleatoria e precaria) la partecipazione degli iscritti alla vita dell’università. Un’utopia assoluta, certo, ove si pensi alla realtà dei grandi atenei, e certamente non risolvibile con l’adozione o meno del numero chiuso (ma forse in questo più generale scenario anche questa scelta potrebbe cessare di essere un tabù).
In realtà sarebbero oggi fuori luogo disfide o tenzoni su questo singolo aspetto, e anche questa vicenda potrebbe favorire invece una riflessione che guardi al futuro e al tempo stesso vada a fondo sul passato. Ci si interroghi cioè senza reticenze sul percorso che ha portato alla situazione attuale. E si inizi da lontano: dalla mancata riforma universitaria degli anni Sessanta, e dalla “liberalizzazione degli accessi” all’università che ne costituì il disastroso surrogato, sino alla inerzia degli anni Ottanta e poi alle vicende più recenti (ivi compresa la disattenzione per quegli aspetti che la bistrattata “riforma Berlinguer” pur richiamava: in primo luogo la necessità di sostegni didattici integrativi capaci di attenuare le carenze di partenza).
È cresciuto così in modo abnorme il numero di giovani che si sono iscritti all’università ma non sono riusciti a completare gli studi: in questo modo un numero crescente di cittadini ha avuto un’esperienza negativa della nostra massima istituzione culturale, e non possono sfuggire le conseguenze civili di questa delusione. E come in Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, in questa storia non vi è un unico colpevole ma tutti gli attori vi appaiono in varie forme responsabili: dal ceto politico a quello accademico e sino alle rappresentanze studentesche. A esser chiamate in causa dunque non sono solo le scelte realmente compiute, le riforme rinviate o combattute, ma anche i silenzi e le inerzie. Di questo stiamo parlando: o perlomeno, di questo dovremmo parlare.

il manifesto 2.9.17
Liceo breve, fare 4 anni di scuola per anticipare il precariato a vita
di Roberto Ciccarelli

Maturità in quattro anni, poi al lavoro o, per chi potrà, all’università. La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ieri ha firmato un decreto che avvia un «Piano nazionale di sperimentazione» che coinvolgerà dal 2018 in poi 100 classi in tutto il paese. Al momento la «sperimentazione» coinvolge solo 11 scuole, sei pubbliche e cinque paritarie, dunque al Nord, due al Centro, quattro al Sud, per un totale di 60 classi.
Sono numeri modesti quelli del «liceo breve», e la sperimentazione va presa per quello che è. Tuttavia ieri il decreto è stato presentato come l’anticipazione di una riforma auspicata da qualche anno a questa parte dagli ultimi titolari di Viale Trastevere. È la chiusura del cerchio della professionalizzazione dell’istruzione pubblica già segnata dall’obbligo dell’«alternanza scuola-lavoro»; della sostituzione dei saperi con le «competenze», in nome di un fantomatico allineamento della scuola italiana a quella «europea». Dove, invece, le soglie sono diverse e non esiste un orientamento omogeneo.
Questi discorsi, e le conseguenti deliberazioni, sembrano ignorare la situazione del mercato del lavoro che penalizza, più di tutti gli altri, proprio i giovani compresi nella fascia anagrafica tra i 15 e i 24 anni. Senza contare che la riduzione di un anno della scuola evidenzierà un’altra tendenza registrata, da ultimi, dai rapporti Almadiploma e Almalaurea: la differenza tra gli studenti che provengono da famiglie abbienti e dove i genitori sono laureati e quindi in grado di garantire ai figli esperienze, cultura, conoscenze e gli studenti che queste possibilità non hanno., indebolendo ulteriormente il ruolo di ascensore sociale che la scuola pubblica e statale ha avuto per molti anni. La combinazione di questi fattori – una didattica orientata alla professionalizzazione e al teaching to test (insegnamento finalizzato alle risposte ai test) e l’anticipo dell’ingresso nella precarietà generalizzata – rischia di ridurre il tempo-scuola e produrre cittadini specializzati, ma non abituati al pensiero critico. Orientamenti che portano l’Usb scuola a chiedere ai collegi docenti di bocciare una sperimentazione priva «di valore pedagogico, ma utile al progetto di smantellamento del sistema scolastico pubblico e statale in favore della scuola azienda funzionale al mercato».
Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, invita i collegi dei docenti a «esprimere un voto che tenga conto di tutte le criticità e delle ricadute che l’accorciamento del percorso di studi potrebbe avere sulla preparazione degli alunni e sull’organico del corpo docente». Per la Gilda il liceo breve è uno specchietto per le allodole: «ridurre di un anno l’iter formativo dei ragazzi non significa garantire automaticamente un posto di lavoro appena terminata la scuola superiore». C’è anche un motivo di preoccupazione: «Tagliando di un anno il percorso di studi, si ridurrebbe anche il corpo docenti. Si tratta di un aspetto che inevitabilmente suscita preoccupazione»-

Repubblica 2.9.17
Come zittire la lingua indecente del razzismo
di Giancarlo Bosetti

QUANDO si parla di immigrazione è difficile oggi in Europa che la discussione si mantenga nei limiti della decenza. Il fatto che siano parte ordinaria del discorso pubblico i “suprematisti” biondi come l’olandese Geert Wilders o i “sovranisti” padani come Salvini, rende difficile mantenere un perfetto aplomb deliberativo, come si conviene di fronte a problemi assai complessi: siano le occupazioni abusive cronicizzate, la lotta contro i criminali scafisti, le necessarie azioni europee per lo sviluppo dei paesi africani o la sempre rinviata legge sulla cittadinanza.
CON un magnifico eufemismo, l’arcivescovo di Bologna monsignor Zuppi spiegava ieri su queste pagine che, quando si accumulano delusioni per una politica che ha il respiro corto dei sondaggi mentre i problemi sono di dimensioni epocali, «diventano tutti più elettrici, più offensivi, più difensivi».
Questa “elettricità” peraltro non è un male temporaneo, ha una estensione globale e tutta l’aria di durare. Negli Stati Uniti le provocazioni sull’immigrazione e sui messicani — il muro a loro spese, i bad hombres da cacciare fuori dagli Stati Uniti — distribuite da Trump in campagna elettorale, e a seguire, hanno come acciecato i suoi avversari, che si sono involontariamente adagiati ad apparire come una specie di caricatura del più superficiale, ideologico cosmopolitismo, quando è noto che il Partito democratico, da Kennedy a Obama, ha sempre avuto nella gestione dell’immigrazione, liberale, generosa ma oculata — e sempre connessa con il lavoro e le qualità professionali dei nuovi arrivati — uno dei suoi punti di forza.
Trump ha reso impronunciabili parole pertinenti intorno a politiche ragionevoli di regolazione dei flussi di immigrati. I democratici hanno come “perso la bussola” di fronte alle oscenità suprematiste; lo ha scritto il liberal Peter Beinart su The Atlantic. Vittime di quello che era ed è quasi un trucco consapevole, come ha confessato lo stratega Steve Bannon, al momento di lasciare la Casa Bianca: vi abbiamo schiacciati con il nostro nazionalismo economico, voi costretti a difendere sempre i diritti “degli altri”, avete lasciato per noi “i nostri”. Eppure era letteratura liberal, quella di Paul Krugman, per esempio, il quale ha sempre saputo e scritto sul New York Times che l’ingresso di migranti privi di qualificazione professionale produce un doloroso conflitto con i lavoratori di casa, che sentono il peso fiscale dei nuovi arrivati.
Qualcuno immagina che in America come in Europa questo sia un conflitto da non gestire? O che il tema sia un monopolio dell’estrema destra sovranista? Solo nel mondo utopico (o distopico) di Milton Friedman si poteva pensare di sopprimere ogni forma di assistenza statale e dare il via libera a tutta l’immigrazione del mondo, a piacere, purché restasse illegale. Ma il padre dei “Chicago Boys” apparteneva appunto a quella vena neoliberale, imparentata con l’anarchia, (There is no such thing as society, vero? amici della Thatcher).
Analogamente in Europa una destra furiosa ed estremista, guidata dagli «imprenditori della paura», denunciati qui da Emma Bonino, e particolarmente poveri di qualche plausibile e responsabile agenda di governo, si scatena su qualunque episodio di cronaca per generalizzare il suo sciovinismo, con l’effetto di scatenare una contabilità etnica degli episodi di violenza, ma anche di paralizzare un possibile e necessario confronto pubblico sulle cose che si possono e debbono fare.
In questo contesto violentemente “elettrizzato” è apparso quasi sorprendente che il ministro degli Interni italiano sia riuscito a realizzare, mantenendo un profilo molto sobrio, e d’intesa, si capisce, col primo ministro, una serie di azioni concertate: la collaborazione delle navi del volontariato con la magistratura nella lotta contro gli scafisti, il dialogo con la Conferenza episcopale per la difesa della legalità, il coordinamento delle operazioni con autorità libiche nazionali e locali, l’intesa con l’Unione e con i partner europei, con l’Unhcr e i libici per gli aiuti e la gestione dei campi, e per un’azione di più lungo periodo. Azioni concertate che di fatto hanno provocato un blocco dei flussi e un positivo collasso della contabilità delle vite perse in mare. Si tratta di una inversione di tendenza, che può giovare a qualche più serena riflessione. E si spera anche che un clima migliore favorisca l’approvazione al Senato del benedetto Ius soli, un debito italiano che ha una storia molto lunga, di morosità.
Ma anche il ministro Minniti ha pagato pedaggio alle tensioni partigiane in circolo: per giustificare il suo operato ha parlato di un rischio per «la tenuta democratica del Paese».
Questo è un concetto che appartiene al linguaggio e alla storia della sinistra dalla quale Minniti proviene, dal Pci al Pd, come ha ricordato lui stesso. E quelle parole, un po’ demodé, appartengono a tempi di forte preoccupazione per l’unità della nazione, per la difesa delle istituzioni repubblicane, di fronte al terrorismo o al rischio di avventure golpiste. È stata giudicata una potenziale concessione all’allarmismo apocalittico dei sovranisti. Forse, ma diversi severi censori delle sue parole, appartenenti allo stesso partito, hanno riconosciuto di condividere e approvare l’operato del ministro.
Questi avrebbe potuto più semplicemente ricordare che il diritto all’immigrazione non è illimitato, ma trova il suo limite, in una prospettiva liberale e democratica, nel diritto di una comunità a difendere le condizioni della propria riproduzione sociale, della propria continuità civile e amministrativa, anche in situazioni di rapido mutamento. Diverso naturalmente il caso delle emergenze umanitarie, dei rifugiati politici, dei profughi forzati da circostanze eccezionali, ma è evidente nella fase più recente che, rispetto a questi, è netta la prevalenza dei migranti economici. Sulla difficoltà di tracciare queste distinzioni (di fronte a situazioni estreme dovute non solo alla guerra e alle persecuzioni ma anche al clima e alla povertà) e sull’estensione dei limiti di questi diritti in conflitto è legittima e necessaria una discussione civile, per quanto inevitabilmente appassionata.
È certo in ogni caso che il diritto all’immigrazione non può essere riconosciuto come proporzionale soltanto alla capacità produttiva delle organizzazioni criminali che trasportano migranti. E questa era la situazione dalla quale forse stiamo uscendo.

il manifesto 2.9.17
Diritti civili, un’Italia in cui non ci riconosciamo più
Fascismo. Di fronte a quello che sta accadendo, in Italia ci vorrebbero dieci, cento, mille manifestazioni contro l’odio razzista e fascista. Esiste un mondo di persone, associazioni, ong che non si riconoscono più nell’Italia che attacca e insulta le Organizzazioni non governative, la presidente della Camera Laura Boldrini, Roberto Saviano o Christian Raimo
di Patrizio Gonnella

Lo scorso fine settimana in California ci sono state manifestazioni contro l’odio. Prima a San Francisco e poi a Berkeley. Dopo i fatti di Charlottesville in Virginia dello scorso 12 agosto la destra razzista bianca, nascosta dietro sigle religiose e nazionaliste, ha continuato nelle sue provocazioni.
Erano annunciate due conferenze del Patriot Prayers Group a San Francisco e a Berkeley. Uno dei tanti gruppi dietro i quali si camuffano i suprematisti bianchi. Nelle due città sono state organizzate due contro-manifestazioni, tenute in piedi anche quando le autorità locali hanno vietato le conferenze del gruppo razzista per motivi di ordine pubblico. Un Rally spontaneo, colorato.
A San Francisco la manifestazione è partita dalla Harvey Milk Square, nel quartiere di Castro. La comunità Lgbt e le sue bandiere erano tutte schierate in prima fila contro l’odio bianco razzista. Insieme a loro la gente comune progressista che vive a Mission, Castro, Height-Asbury. Ma anche artisti come MC Hammer.
L’AMERICA DEI DIRITTI civili è tornata in piazza, rumorosamente e orgogliosamente. Sin dalla mattina presto si potevano incontrare persone che nel lento e assolato fine settimana si dirigevano con i propri cartelli all’appuntamento.
Con Trump i razzisti hanno alzato la testa. Trump che ha graziato l’ex sceriffo dell’Arizona Joe Arpayo, suo sostenitore, condannato per le violenze e gli abusi nei confronti degli immigrati di origine latinoamericana e per violazioni ripetute dei diritti umani. Tra i manifestanti nessuno aveva timore di associare razzismo e fascismo.
DOVE C’È RAZZISMO c’è sempre fascismo, anche quando il razzismo è patinato, elegante, tacito. C’è chi manifestava per i diritti dei rom, chi contro la violenza bianca di polizia, chi contro Donald Trump.
A Berkeley, in prossimità della University of California, migliaia di persone hanno invaso di domenica le strade cittadine. È l’Università dove insegna Löic Wacquant che ha raccontato al mondo come l’intero sistema della giustizia penale americana fosse selettivo, razzista. Un’ipertrofia diretta a incarcerare la povertà e le differenze di razza.
La manifestazione di Berkeley era family friendly, come la chiamavano le signore, sin dal treno Bart, quando mi hanno voluto rassicurare che non ci sarebbero stati rischi per i miei tre bimbi. Più tardi, però, ci sono stati scontri dovuti alla presenza non autorizzata di Joey Gibson, leader del Patriot Prayer Group, ugualmente sceso in piazza nonostante il divieto.
La colpa sarebbe stata degli anarchici, secondo la polizia. Tutto inizia quando un uomo di origine ispanica alza un cartello dove è scritto: «God bless Donald Trump». La gente gli si rivolta contro cantando «Nazi go home».
È complessa la società americana capace di esprimere tutto e il contrario di tutto. In quelle manifestazioni si respirava una società spaccata in due, come le elezioni del 2016 hanno certificato. Negli Usa la base democratica non ha paura però di scendere in piazza e dare del razzista e del fascista al loro presidente.
Le grandi firme dei grandi giornali sono tutte schierate contro la deriva bianca, pseudo-religiosa, razzista e fascista. C’è una contrapposizione tra il popolo democratico e la destra razzista. Barack Obama, prima di finire il suo mandato, aveva tentato di ammorbidire la legge sull’immigrazione.
IN ITALIA NELLE ULTIME settimane è stato combinato un capolavoro politico da parte del ministro dell’Interno Marco Minniti, legittimato dal premier Paolo Gentiloni. In sequenza abbiamo assistito ai decreti sulla sicurezza e sull’immigrazione con evidenti riduzioni di garanzie, all’attacco concentrico alle Ong costrette a stare ai patti del Governo, agli accordi con le milizie libiche per trattenere i migranti in una terra di torture e morte, agli sgomberi inumani di famiglie lasciate per strada. Il ministro lo avrebbe fatto perché avrebbe avuto timore per la tenuta della democrazia.
Il ragionamento ha dell’incredibile: per evitare il fascismo bisogna dare un contentino al popolo che vuole la testa degli immigrati. Nel frattempo la destra fascista e razzista italiana ha alzato la testa, legittimata dalle posizioni governative. Usa solo un linguaggio più crudo. Ma nulla più. I social dimostrano come si sia scoperchiato il vaso di Pandora e, senza autocensure, si insultano liberamente coloro che esprimono posizioni autenticamente democratiche.
Di fronte a quello che sta accadendo, in Italia ci vorrebbero dieci, cento, mille manifestazioni contro l’odio razzista e fascista. Esiste un mondo di persone, associazioni, ong che non si riconoscono più nell’Italia che attacca e insulta le Organizzazioni non governative, la presidente della Camera Laura Boldrini, Roberto Saviano o Christian Raimo.
Bisogna alzare la testa. Stand up for human rights.

il manifesto 2.9.17
La grande bugia sull’immigrazione
Ero straniero. Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare
di Riccardo Magi

È disumana, totalitaria e persino autolesionista la distinzione, fatta propria da quasi tutte le forze politiche italiane – da Salvini a Renzi, passando per i Cinque stelle – e recentemente anche dalla totalità degli stati dell’Unione europea, tra i rifugiati politici a cui sono dovute l’accoglienza e la protezione internazionale e i migranti economici: i «cattivi» che, invece, abbiamo la facoltà di respingere con tutti i mezzi, anche militari, anche illeciti, e ai quali non riconosciamo il diritto universale di fuggire da una vita di stenti e aspirare a un’esistenza migliore. Una logica alla quale come Radicali ci opponiamo con forza.
Da sempre, e non solo quando era terra di milioni di migranti, l’Italia ha difeso la libertà delle persone di attraversare i confini tra gli stati – di migrare per salvarsi dalla guerra, dalla fame, dalla povertà estrema – come diritto inalienabile, prima del diritto ormai affermato di libertà di movimento di merci, servizi, capitali.
Del resto la ricca Europa, con mezzo miliardo di abitanti, non solo ha bisogno – e ne avrà sempre di più negli anni a venire – di stranieri che vengano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei nostri cantieri, nelle nostre famiglie, ma sarebbe in grado di gestire agevolmente, solo se lo volessero tutti gli Stati membri, anche flussi straordinari di profughi causati da carestie o guerre.
Invece proprio su iniziativa del nostro Paese e sulla base di un intollerabile alibi – «aiutiamoli a casa loro», alcuni Stati membri dell’Ue con l’avallo dell’Alto Rappresentante per gli Affari esteri Federica Mogherini, hanno deciso per la seconda volta e di nuovo senza nessuno dei passaggi formali necessari, di appaltare ad altri la soluzione, prevalentemente con mezzi militari, del problema. Senza curarsi delle inaudite violenze a cui saranno sottoposti i migranti e di cui saremo complici.
L’Italia ha stipulato patti e ha negoziato accordi economici per il controllo della frontiera esterna dell’Unione, se possibile, ancora peggiori di quelli con il governo turco, poiché stretti direttamente con le tribù libiche – cioè i «sindaci» ricevuti dal ministro Marco Minniti al Viminale – che probabilmente sono le stesse che hanno gestito e si sono contese il lucroso traffico dei migranti e i lager nel deserto nei quali vengono derubati, torturati, uccisi i profughi. Non si spiegherebbe altrimenti l’improvvisa interruzione degli sbarchi verso le nostre coste, che non può essere dovuta solo all’attivismo delle motovedette italiane donate ai militari libici.
Di fronte a questo grave sovvertimento dei valori in atto, come Radicali Italiani ribadiamo l’urgenza di sconfiggere la grande bugia sull’immigrazione. Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare «Ero straniero – L’umanità che fa bene» per superare la Bossi-Fini.
Una legge che, mentre i nostri governi sono impegnati ad alzare muri nel Mediterraneo e ai confini dell’Europa, chiede invece di aprire varchi: canali legali e sicuri di ingresso in Italia per i migranti per motivi di lavoro, di studio o di protezione internazionale e la loro accoglienza e inclusione nelle nostre società. Alla base nessuna odiosa distinzione tra chi fugge da guerre e persecuzioni e chi fugge dalla fame e dalla povertà, ma diritti e doveri chiari per tutti.
La stessa legge offre anche la soluzione al problema dei 500 mila migranti irregolari presenti in Italia introducendo un permesso di soggiorno temporaneo, condizionato all’integrazione attraverso il lavoro. Come ha lucidamente sottolineato il capo della polizia Gabrielli, «ci sono etnie che non otterranno mai lo status di rifugiati e sono destinati a restare illegalmente: per impedirlo, se non si riesce a ottenere i rimpatri, non resta che l’integrazione, che peraltro è un’opportunità da utilizzare per salvaguardarci dalla criminalità e dal terrorismo».
Nei prossimi giorni come Radicali Italiani insieme a Emma Bonino, all’ampia «coalizione» di organizzazioni che promuovono con noi la campagna «Ero straniero» e con il sostegno di centinaia di sindaci che hanno aderito, rilanceremo con nuove iniziative la raccolta firme su questa legge popolare: la sola proposta oggi in campo per rispondere al ricatto della paura con la fermezza della ragione, della legalità e dell’umanità.
* segretario di Radicali Italiani

La Stampa 2.9.17
Il gelo di D’Alema su Pisapia
“Noi coerenti, lui speriamo”
E attacca Minniti: “È un tecnico della sicurezza, serve la politica”
di Andrea Carugati

Pisapia è ancora il suo leader dopo lo strappo in Sicilia? Massimo D’Alema interrompe per un istante i selfie e le strette di mano con i compagni seduti al ristorante della prima festa di Mdp a Buti, sulle colline vicino a Pisa. «Io sono rimasto alla piazza del primo luglio, a quello che ci siamo detti lì. Poi sono andato in vacanza e non ho più seguito...».
Il sorriso è beffardo ma l’intenzione di lasciare aperto un filo con l’ex sindaco di Milano traspare in modo chiaro: «La Sicilia? Io non ho ancora sentito dichiarazioni di Pisapia su questa vicenda. Ho letto una nota di Campo progressista a favore di un’alleanza civica e di centrosinistra che non comprende Alfano. Questo è quello che sosteniamo come Mdp». Bersani poche ore prima, dalla Versilia, aveva espresso fiducia verso Pisapia: «Noi vogliamo fare il centrosinistra, Alfano è un’altra cosa. Io e Pisapia la pensiamo allo stesso modo». Nei prossimi giorni con il leader di Campo progressista si incontreranno per tentare di ricucire. «Mi fa piacere che si vedano - osserva D’Alema senza nascondere una certa freddezza -, ad oggi non vedo una rottura del percorso comune tra noi e Pisapia». E non sottoscrive la dichiarazione molto dura di Claudio Fava, candidato per le sinistre in Sicilia, che ha definito ieri sul Fatto l’ex sindaco di Milano un leader «evaporato».
Sul ministro degli Esteri invece il giudizio è tranchant: «In Sicilia lui e Renzi hanno stretto un accordo di potere per garantire ad Ap una ventina di senatori. Mi chiedo come qualcuno potesse pensare che noi avallassimo questo fatto». Cercate di far perdere il Pd in Sicilia? «La responsabilità - risponde - è di Renzi, che si doveva fare gli affari suoi. In Sicilia ci sarebbe stata un’alleanza di centrosinistra e Alfano sarebbe andato per la sua strada. Lui ha scelto il Pd quando Lega e Fratelli d’Italia hanno messo il veto su Ap. È uno scarto del centrodestra». «Meno male - aggiunge - che i nostri compagni siciliani si sono tirati fuori da questo pasticcio. Erano consapevoli che i nostri elettori non li avrebbero mai seguiti. Se avessimo sostenuto Renzi e Alfano ci saremmo uniti a una compagnia destinata al fallimento. Non siamo usciti dal Pd per metterci a pasticciare per fare accordi con loro. In Sicilia, come alle prossime politiche, serve una voce autonoma della sinistra che esprima i nostri valori». Voi siete solo antirenziani? «Risponderò citando l’ineffabile avvocato Pisapia, che non è accusabile di essere rancoroso come me. Lui ha detto che serve una “netta discontinuità” di contenuti e leadership per un nuovo centrosinistra e ha escluso alleanze con Alfano. Io mi definisco un seguace di Pisapia. In Sicilia stiamo facendo questo, speriamo che lo faccia anche lui...».
L’ex premier è molto duro anche con Gentiloni: «Certo, governa un pochino meglio di Renzi. ma davvero ci voleva poco». Bordate anche verso il suo ex fedelissimo Marco Minniti sul tema migranti: «È un tecnico della sicurezza, questa purtroppo è invece una grande questione politica. Prima l’Italia aveva come priorità quella di salvare vite umane, ora è evitare che gli immigrati arrivino da noi. Queste persone ora o muoiono nel deserto o finiscono nei campi di concentramento in Libia, dove non sono garantiti i minimi diritti umani». Prima di avallare questo «blocco navale», conclude D’Alema, «Minniti si sarebbe dovuto accertare che fosse l’Onu e non le milizie libiche a gestire i campi».

Corriere 2.9.17
Il Pd alla battaglia del «voto utile» con Mdp. Ma salva Pisapia
di Maria Teresa Meli

ROMA Mancano diversi mesi alle elezioni, ma il Pd è già in modalità campagna elettorale. Renzi e i massimi dirigenti del Nazareno danno per scontato che Berlusconi abbia già stretto un patto con Salvini e che quindi Forza Italia e Lega si presenteranno in un unico listone alle elezioni. Poi c’è l’altro avversario: Beppe Grillo con il suo Movimento 5 Stelle.
Due formazioni entrambe populiste — è il ragionamento che viene fatto al Nazareno — perché accordandosi con Salvini, inevitabilmente, anche Berlusconi si farà schiacciare su quel versante. A entrambi il Pd si dovrà contrapporre puntando sui «contenuti», si è raccomandato Renzi con i suoi parlamentari. E i contenuti, oltre le proposte che verranno dalla Conferenza programmatica prevista per il sei ottobre a Napoli, sono i risultati ottenuti finora.
Cioè, la crescita del Pil, la diminuzione degli sbarchi, e, soprattutto i posti di lavoro in più. Stando ai sondaggi commissionati dal Nazareno, infatti, la prima richiesta degli italiani riguarda proprio il lavoro. Sono le questioni economiche che stanno a cuore ai cittadini più ancora dell’immigrazione. Perciò Renzi ha intenzione di battere su questo tasto e per questo motivo è andato l’altro ieri al Tg1 a rivendicare i risultati del Jobs act. E sempre per la stessa ragione il Pd sosterrà Gentiloni in modo deciso sulla legge di Bilancio.
Sono i successi dei due governi del Partito democratico — quello Renzi e quello Gentiloni — che vanno esaltati. E, del resto, il leader e il premier si sentono con regolarità e concordano insieme i passi da compiere. Ormai per Renzi è «il gioco di squadra» che conta. Il che significa coinvolgere tutto il Pd, anche la minoranza guidata da Orlando. Non è per una fortuita coincidenza, infatti, che l’organizzazione della Conferenza programmatica sia stata affidata al tandem Martina-Orlando.
«Contro gli estremismi noi siamo la nuova forza tranquilla e solida del Paese», sono le parole che Renzi ripete più spesso in questi giorni. Una forza che può contendere a un Berlusconi che va in lista con Salvini i voti moderati e di centro. Per questa ragione il leader del Pd raccomanda ai suoi di evitare «lo scontro», che pure gli avversari del partito, soprattutto a sinistra cercheranno.
Puntare sul fatto che gli attori della contesa sono tre — il centrodestra, il Pd e i grillini — ha una diretta conseguenza. E questo sarà un punto importante della campagna elettorale del Partito democratico. Come spiega efficacemente il senatore Andrea Marcucci in un’intervista all’ Avvenire : «Il voto ad altre liste non collegate sarà buttato via, sarà di fatto un favore agli avversari». Torna quindi per il Pd il tema del voto utile. E le elezioni in Sicilia, paradossalmente, potrebbero aiutare in questo senso. Se la decisione di Mdp di non allearsi con il Pd nell’isola dovesse avere come effetto quello di consegnare la vittoria al centrodestra, i dirigenti del Nazareno avrebbero gioco facile a insistere sul voto utile nelle elezioni politiche.
Un discorso, questo, che riguarda gli scissionisti ma non Pisapia. Come precisa ancora una volta Marcucci: «È normale che la nuova forza politica dell’ex sindaco di Milano collabori con il Pd». Ma di alleanze Renzi preferisce far parlare ufficialmente i suoi dirigenti. Lui lascia le alchimie politiche ad altri e pensa a «ripartire dalla gente».

Repubblica 2.9.17
Sicilia, sondaggio dà l’allarme a sinistra
Per Ghisleri i candidati di centrodestra e M5S doppiano sia Micari sia Crocetta. Pisapia prepara il vertice con Mdp per mediare con il Pd: sul tavolo anche la proposta di resuscitare le primarie per arrivare a un candidato unitario

ROMA. Giuliano Pisapia torna a Milano e affronterà lunedì un primo chiarimento con i suoi di Campo progressista. Ma il giorno dopo a Roma lo attende il vertice spinoso con Pierluigi Bersani, Roberto Speranza e Massimo D’Alema, i leader di Mdp con i quali la distanza rischia di diventare ormai una frattura.
Sul tavolo il dossier-Sicilia che sta creando anche nel Pd un cortocircuito di contestazioni e “distinguo” sul candidato civico, il rettore dell’università di Palermo Fabrizio Micari, voluto soprattutto dal sindaco Leoluca Orlando per riproporre l’alleanza larga che risultò vincente alle amministrative ma che adesso non tiene più. I sondaggi sono univoci: il centrosinistra è messo malissimo nella partita per le regionali del 5 novembre in Sicilia. L’ultimo, commissionato da Forza Italia a “Euromedia Research”, la società di Alessandra Ghisleri, misura il consenso dei candidati e Nello Musumeci, su cui tutto il centrodestra punta, è in testa con un 34% incalzato dal candidato dei 5Stelle, Giancarlo Cancelleri (33%). Micari viene comunque doppiato da entrambi perché raccoglie solo il 16 per cento dei gradimenti. Claudio Fava, che Mdp e Sinistra vorrebbero mettere in campo, è dato al 9,5 per cento.
Per sbrogliare il nodo dei veti e cercare l’unità crescono gli appelli per le primarie. Rosario Crocetta, il governatore uscente - che nel sondaggi Ghisleri è dato al 18,4% se rappresentasse l’area del centrosinistra - lo ha già comunicato a Renzi nei giorni scorsi: «O primarie o io mi candido».
Ma ora a insistere per primarie potrebbe essere proprio il gruppo di Pisapia. Bruno Tabacci, che con Centro democratico aderisce a Campo progressista, ieri e oggi in Sicilia per una convention, ritiene «le primarie l’unico metodo ragionevole per uscire dalla impasse. Lo dirò a Giuliano. Trovo inoltre abbastanza incomprensibile che Micari si voglia sottrarre alle primarie. Perché? Ha vinto forse qualche concorso?».
I malumori crescono, l’unità del centrosinistra su cui Pisapia ripete di puntare, è lontana nel test siciliano giudicato una prova generale delle alleanze per le politiche. Alla festa del Fatto quotidiano in Versilia, è Bersani a mettere paletti e a rassicurare sul nuovo partito della sinistra con Pisapia: «Con Giuliano ci vediamo nei prossimi giorni, sono certo che la pensiamo allo stesso modo. La sinistra è in costruzione, non in frantumi, Alfano è altro». E sempre sulle regionali siciliane l’ex segretario dem ora leader dei demoprogressisti, invita al Pd a cambiare rotta: « Chiediamo che il Pd si renda disponibile alla discontinuità e a cercare candidature fuori dal suo recinto anche in Sicilia». E Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia, rincara: «Se il Pd in Sicilia si allea con Alfano, allora credo che la candidatura di Fava sia interessante ». Il coordinatore dem, Lorenzo Guerini per ora rinvia ogni dubbio su Micari ai mittenti: «Micari garantisce discontinuità, è candidato autorevole», e rilancia su un listone unico con Pisapia e i centristi alle politiche. Gelo da Campo progressista. «A Pisapia una somma di sigle non interessa» replica Marco Furfaro, attaccando Fava: «Dice che Pisapia è evaporato? Casomai saranno evaporati loro».
(g. c.)

Repubblica 2.9.17
Michele Emiliano.
Il governatore della Puglia “Nell’isola bisogna lavorare per unire il centrosinistra Errori sull’immigrazione: inseguiamo destra e 5 Stelle ”
“Renzi organizzi le primarie è il solo modo per salvarci Migranti? No limiti alle Ong”
Pisapia deve decidere se stare con il segretario del Pd o con D’Alema
di Giovanna Casadio

ROMA. «Do un consiglio a Renzi: facciamo le primarie in Sicilia. Sta sostenendo un candidato che non conosce, non ha scelto e ci porterà a perdere se imposto dall’alto». Michele Emiliano, il governatore della Puglia, è uno dei leader della minoranza dem. «Ma non spero in un flop di Renzi in Sicilia, perché in questo modo perdiamo tutti». E sui migranti, l’altro tema politico scottante insieme alle regionali siciliane, avverte: «Non si liscia il pelo alle paure, il governo deve promuovere flussi di migranti regolari».
Emiliano, non apprezza il modo in cui Renzi sta conducendo la partita siciliana?
«Non spetta a me prendere decisioni. Ma non capisco perché non facciamo le primarie in Sicilia, visto che non abbiamo un candidato così prevalente. Mandiamo in giro i militanti, coinvolgiamo i simpatizzanti. A Renzi do questo suggerimento: organizzi le primarie, e salvi anche se stesso. Perché imporre un candidato che divide il centrosinistra, dal momento che pezzi di sinistra non lo votano? Dobbiamo tenere insieme tutti invece, dalla sinistra al centro e provare a vincere».
A partire dal dialogo con Giuliano Pisapia?
«Pisapia deve decidere se stare con Renzi o con D’Alema. Io penso che una sinistra che si dibatte su questo dilemma è messa male».
Sull’immigrazione. Le Regioni vengono chiamate dal Viminale ad assumersi la responsabilità di gestire la fase 2 dell’accoglienza, la Puglia a che punto è?
«Noi abbiamo già finanziato alcuni comuni, Bari in testa, in connessione con i cosiddetti Sprar, i progetti di accoglienza appunto. E abbiamo condotto, fino a oggi in modo solitario, una battaglia contro il caporalato per l’integrazione dei lavoratori che vengono a lavorare in agricoltura. Fortunatamente qualche settimana fa il ministro Minniti ha nominato un commissario straordinario per la gestione della situazione nella provincia di Foggia e di questo lo ringrazio. In Puglia abbiamo creato delle “foresterie”. I braccianti stranieri potrebbero integrarsi facilmente perché da noi sono indispensabili. Sa cos’è importante? Uscire dal circuito degli hotspot dei centri di identificazione, dei campi per richiedenti asilo. Quel meccanismo deve diventare molto più veloce, altrimenti l’esasperazione cresce, si creano abusi e illegalità devastanti».
Lei che soluzione propone?
«Noi abbiamo in molti settori la necessità di lavoratori migranti. Il governo deve consentire il flusso regolare dei migranti. È come per le inondazioni, se l’acqua arriva tutta insieme distrugge. Se arriva in modo regolato si chiama irrigazione ».
L’intolleranza in Italia cresce fino al razzismo?
«Non siamo più capaci di posizioni razionali. Le strategie politiche si costruiscono sulla base dell’orientamento dell’opinione pubblica deciso tra piazza e media. Salvini l’ha capito e attacca anche papa Francesco che chiede di rafforzare il sistema dell’accoglienza. Ma lucra così dal punto di vista elettorale. E i 5Stelle lisciano il pelo all’insofferenza della gente. Dicono ai cittadini: state male? Colpa degli uomini neri. E la sinistra sta inseguendo la destra».
Quali sono gli errori?
«Ad esempio sostenere che vanno fermate le navi in mare. Come si fa a limitare l’attività delle Ong come vorrebbe il codice Minniti? Non si può, non lo dico solo io, anche il ministro Delrio. Da magistrato vorrei segnalare che se salvo una persona in mare a bordo di un gommone qualsiasi tipo di reato abbia commesso non sono perseguibile ».

il manifesto 2.9.17
Sicilia, incubo centrodestra. E Micari perde quota
Regionali. Tensione in Ap. La palla a Renzi, che ha incontrato Crocetta. Ma i dem prendono tempo. Anche Tabacci (Campo democratico) chiede le pimarie. Ma il rettore non ci sta
di Alfredo Marsala

Dieci anni cancellati con uno scatto. Un’istantanea che fa ripiombare la Sicilia in un trapassato che sembrava sepolto negli archivi politici. La foto della restaurazione del centrodestra, che ritrova l’unità attorno al candidato governatore Nello Musumeci, riporta indietro le lancette dell’orologio come se nulla fosse successo. Una immagine plastica che sta facendo tremare i polsi al Pd, intrappolato in una discussione infinita sul candidato e sulla coalizione e che ha allontanato la sinistra che a fatica sta cercando a sua volta l’unità. E che preoccupa soprattutto chi, come i piddini Beppe Lumia e Antonello Cracolici, otto anni fa riuscì, con un’operazione di bisturi politico, a rompere il fronte del centrodestra facendo leva sul Mpa di Raffaele Lombardo, e a distruggere quella macchina da guerra che nel 2001 aveva consentito a Silvio Berlusconi e ai suoi alleati di conquistare alle politiche 61 seggi nell’isola, lasciando a zero un centrosinistra con le ossa rotte e comatoso.
MA QUESTA SEMBRA preistoria. Ci sono proprio tutti nella foto del revival: mancava solo Totò Cuffaro anche se c’erano i suoi. Volti di cera di una vecchia classe dirigente che ritorna e sogna i fasti di 16 anni fa: Renato Schifani, Ignazio La Russa, Gianfranco Miccichè, Saverio Romano. Ma ci sono anche politici rimasti in questi anni nelle retrovie e che ora si ritrovano nella falange di Musumeci, pronta a disarcionare le truppe avversarie: ex missini e An in prima linea che fanno pendere la coalizione decisamente verso destra per la gioia di Giorgia Meloni, Francesco Storace e Matteo Salvini.
Nella coalizione ci sono Forza Italia, Lega, Fdi, Udc, Cantiere popolare (ex cuffariani), Cdu, autonomisti del Mpa, alcuni movimenti tra cui quello dei ‘sicilianiIndignati’ di Gaetano Armao, pupillo di Berlusconi e vice governatore in pectore. In extremis è stato recuperato anche Roberto Lagalla, l’ex rettore di Palermo, che fu assessore nel governo Cuffaro e di recente cooptato nel Cnr in quota Pd; doveva essere proprio Lagalla il candidato del centrosinistra prima del patto Renzi-Alfano in un progetto di grosse koalition che doveva tenere dentro centrosinistra e centrodestra per sconfiggere i 5stelle. Gli ex cuffariani sono riusciti a riportare l’ex rettore di Palermo, da mesi in giro per l’isola con il suo movimento ‘IdeaSicilia’, nell’alveo che gli appartiene.
AL GRUPPO POTREBBERO associarsi anche pezzi di Ap in dissenso con la linea di Alfano, soprattutto ex An. Al partito non piace il nome di Fabrizio Micari e per tamponare i malumori crescenti Alfano ha nominato Giovanni La Via responsabile della campagna elettorale anche se i suoi pressano per un ticket proprio tra il rettore e l’eurodeputato; Ap ha rilanciato la palla a Renzi, aspetta che il Pd ufficializzi il candidato prima di pronunciarsi. Al Nazareno però prendono tempo. Il problema è tenere dentro Rosario Crocetta: a prendere l’impegno col governatore su una soluzione condivisa è stato Renzi in persona, nel corso di un colloquio col presidente della Regione, tenuto segreto ma sul quale il manifesto trova conferme. I renziani vorrebbero coinvolgere il presidente nel progetto ma il governatore, che non vuole rompere col suo partito, rimane fermo sulla sua posizione: «Facciamo le primarie». E fa l’ennesimo appello, stavolta rivolgendosi anche alla sinistra. «Per amore dell’unità non ho riproposto l’automatismo della mia ricandidatura, ma il percorso per un confronto unitario e democratico su programmi e candidati – osserva Crocetta –  Questo percorso, nella mia proposta, si concretizza con le primarie da svolgersi il 17 settembre». E «mi addolora pensare che le forze a sinistra del Pd abbiano già scelto un percorso separato. Ho sempre pensato all’unita come un grande valore – prosegue Crocetta – Io non ho mai detto ’o me o nessun altro’. Ho detto: confrontiamoci, diciamocele tutte, rimarchiamo le nostre diversità, ma diamo un senso forte a ciò che ci unisce: il sogno di liberazione della Sicilia, bloccando il ritorno dei potenti di sempre al governo della regione o che la regione finisca in mano di soggetti incapaci di ogni azione di governo».  «Unità, unità, unità dentro un percorso di primarie democratiche. spero tanto  che la sinistra aderisca», conclude.
UN APPELLO SUBITO raccolto da Bruno Tabacci, leader del centro democratico che ha aderito al Campo progressista di Pisapia. «L’unità del centrosinistra, indispensabile per scongiurare il pericolo populista grillino o della destra sovranista di Musumeci-Meloni-Salvini, venga attraverso le primarie di coalizione».
Primarie su cui c’è un’apertura anche da parte di Ap, pronta a schierare La Via, mentre il no ai gazebo arriva proprio dal candidato ufficioso , il rettore di Palermo Fabrizio Micari, pronto a tirarsi indietro perché liquida come «una questione di partiti» le consultazioni pre-elettorali.

il manifesto 2.9.17
Il Pd ci riprova con il «listone»
Verso le elezioni. Campo progressista: non ci interessano i posti. Bersani: presto vedrò Pisapia

Alla vigilia del ritorno di Matteo Renzi live, da questa mattina con una serie di comizi alle feste dell’Unità, cominciando da Bologna, due interviste gli preparano il terreno. I renzianissimi Matteo Richetti e Andrea Marcucci lanciano (o meglio ri-lanciano) l’idea del listone unico da Carlo Calenda a Giuliano Pisapia passando per Angelino Alfano per le prossime elezioni politiche. La tempistica non è delle migliori, visto che nelle stesse ore rischia di colare a picco la candidatura di Fabrizio Micari a governatore della Sicilia. Ma in particolare Marcucci è netto rispetto a Alfano: «E’ nei fatti che chi ha sostenuto i governi Renzi-Gentiloni pensi ad una collaborazione anche in futuro. Come è nei fatti, direi naturale e quasi scontato, che la nuova forza politica di Pisapia collabori con il Pd».
L’ex sindaco di Milano sarà in vacanza ancora per qualche giorno, ma non pare aver gradito la nuova offerta, tantopiù che nemmeno in Sicilia i giochi sono ancora fatti. E’ comunque l’ex Sel Marco Furfaro, a Pisapia vicinissimo, a ribadire il no di Campo progressista: «Noi non faremo la stampella di nessuno, a Pisapia una somma di sigle senza politica non interessa. Noi abbiamo messo in campo tre punti: unità del centrosinistra, discontinuità nelle politiche degli ultimi anni e contendibilità della leadership. Quello che vediamo oggi invece è solo contabilità della politica, somma di sigle in chiave elettoralistica. Non siamo in cerca di posti».
Ovviamente anche Pierluigi Bersani, intervenuto ieri alla festa del Fatto quotidiano a Marina di Pietrasanta, boccia seccamente l’ipotesi: «Noi costruiamo il centrosinistra, Alfano è un’altra cosa». Ma l’ex segretario del Pd parla anche dei rapporti tra la sua attuale formazione, Mdp, e appunto Pisapia. Rapporti che la partita per le elezioni siciliane ultimamente aveva di nuovo fatto virare verso la turbolenza. Nei prossimi giorni, spiega Bersani, lui stesso incontrerà l’ex sindaco di Milano: «Sono sicuro che io e lui la pensiamo allo stesso modo». Insomma, è ottimista sulla ripresa delle comunicazioni.
Ma la proposta di listone unico porta scompiglio anche in casa Ap, dove la tensione è già alta sull’alleanza con in Pd in Sicilia. Per tranquillizzare i suoi dunque Alfano tira il freno: «Le alleanze di Ap che ci saranno in Sicilia, saranno alleanze in Sicilia, alleanze siciliane. Con un programma sulla Sicilia. Non sono alleanze nazionali».

Repubblica 2.9.17
Numero chiuso, atenei a rischio caos pioggia di ricorsi, allarme dei rettori
Gli studenti: dopo lo stop del Tar a Milano la battaglia si estende in tutte le università La Statale sospende i test: “Ma non ci fermiamo, il Consiglio di Stato ci darà ragione”
di Luca De Vito e Ilaria Venturi

«LA conseguenza dell’ordinanza del Tar? È che l’95% dei corsi a numero programmato dagli atenei sono illegittimi». Non ha dubbi Michele Bonetti, il legale dell’Unione degli universitari che ha bloccato il numero chiuso nei corsi umanistici della Statale di Milano. È scoppiato il caso. Ed ora gli Atenei temono l’effetto domino. «Il governo intervenga», è la voce della Conferenza dei rettori.
L’associazione studentesca promette battaglia, con nuovi ricorsi. Sul tavolo dell’avvocato ci sono già i due nuovi corsi a numero programmato decisi quest’anno dall’ateneo di Firenze. «Andremo a spulciare tutte le delibere per impugnare quelle che non fanno riferimento alla legge sul numero chiuso: è sbagliato chiudere l’accesso all’università, dunque andiamo avanti», spiega la coordinatrice Elisa Marchetti.
L’università Statale ha deciso di ricorrere contro la decisione del Tar del Lazio, cercando di stringere i tempi: con l’appello al consiglio di Stato, infatti, l’ateneo chiederà una decretazione d’urgenza. L’obbiettivo è quello di riuscire a forzare la mano e fare i test per l’accesso ai corsi, i cui iscritti sono più di 4.300, in questo anno accademico. Intanto il destino delle aspiranti matricole è sospeso. «Si è creata una situazione paradossale – commenta il rettore dell’ateneo Gianluca Vago – da una parte abbiamo un decreto ministeriale che ci chiede di stare dentro i parametri, dall’altro il Tar che ci impedisce di regolare il numero di studenti. Di fatto è una sorta di commissariamento, così le università non sono in grado di decidere la propria strategia, mentre dovremmo avere autonomia».
Ed è proprio questo il punto. «Ora ci vuole un chiarimento legislativo », reclama il presidente della Crui Gaetano Manfredi, rettore della Federico II a Napoli. «L’obiettivo dei rettori è fornire un’offerta allargata, ma esistono criteri molto severi di accreditamento dei corsi, proprio per evitare studenti seduti per terra nelle aule e senza professori. Ne abbiamo persi il 20% negli ultimi otto anni, ne abbiamo un terzo della Germania. Il dibattito allora non deve essere ideologico: l’Italia ha bisogno di più laureati. Ma non dobbiamo ingannare gli studenti: non diamo un pezzo di carta, ma una formazione di qualità. E per farlo ci vogliono investimenti. Se si vuole allargare la platea occorrono infrastrutture e risorse umane».
In Italia i corsi a numero programmato decisi dagli atenei, soprattutto a economia e ingegneria, ma ci sono casi anche nelle discipline umanistiche a Trento, Roma Tre e Pisa, sono aumentati in virtù di criteri più severi per la loro sostenibilità. Alla Statale e alla Bicocca sono passati da 73 a 92 dal 2012 al 2016. A Bologna da 56 a 107 dal 2012 ad oggi: un corso su due non è a libero accesso. Sbarramenti (solo quelli a livello locale) ora a rischio.

il manifesto 2.9.17
«Numero chiuso da abolire ovunque», la sfida dell’Udu
Intervista. L’avvocato Bonetti che ha vinto il ricorso contro la Statale di Milano: «L’università torni aperta, così crea solo una elite impreparata. Il ricorso del rettore al Consiglio di Stato è basato su una balla giuridica: il Tar ha sospeso l’intera normativa. Va cambiata la legge 264 del 1999 e il decreto accreditamenti»
di Massimo Franchi

«Il diritto allo studio e l’accesso all’università sono l’ultimo motore per risollevare il Paese. È il numero chiuso che ha impoverito i nostri atenei producendo la precarietà e la disoccupazione dei laureati, non viceversa: dobbiamo tornare ad essere un modello di apertura come siamo storicamente cambiando la legge 264 del 1999 all’origine di tutto. Che un ministro possa decidere se le università sono o meno a numero chiuso è per noi un pericolo per la democrazia. Per noi va annullato il numero chiuso in tutti i corsi». La battaglia della Statale di Milano – dopo la sentenza del Tar di giovedì che ha cancellato i test di ingresso per i corsi a numero programmato nelle discipline umanistiche, ieri il rettore Vago ha annunciato ricorso – vede come protagonista Michele Bonetti, da anni avvocato dell’Unione degli universitari.
Avvocato Bonetti, partiamo dall’attualità. Il rettore della Statale di Milano Gianluca Vago annuncia ricorso d’urgenza al Consiglio di Stato sostenendo che «da una parte il Tar dice di prendere tutti gli studenti ma dall’altra, secondo la normativa 240 sull’accreditamento, dovrei assumere docenti per far partire i corsi» motivo stesso della delibera per cui ha deciso i test d’ingresso: la carenza di docenti.
Michele Bonetti, avvocato dell'Udu
Sbaglia e racconta una balla giuridica. Il giudizio del Tar che permetterà a mille studenti della Statale di non fare il test d’ingresso costoso e con speculazioni private – vogliamo un chiarimento formale su questo punto: l’università deve risarcire immediatamente queste somme – è espresso in maniera inequivocabile: il decreto sull’accreditamento presentato dalla Giannini nel suo ultimo giorno da ministro e poi firmato dalla Fedeli è sospeso. In più la legge prevedeva già una deroga annuale per far partire i corsi anche senza rispettare i criteri sul rapporto studenti-docenti: sono stati impugnati anche i decreti ministeriali seguiti alla legge 240».
Lei e l’Udu però avete altri ricorsi pendenti in altri atenei. Si può sperare che si arrivi ad un giudizio di costituzionalità della legge?
I giudizi sono in fieri a l’Aquila, a Catania e a Firenze e coinvolgono circa 50mila studenti matricole, compresi i 18enni che si sono spostati verso atenei che non prevedono i test di ingresso. Nel ricorso sulla delibera del Senato accademico della Statale avevo espresso come subordinata la richiesta che in caso di mancato accoglimento il Tar di Roma promuovessero un giudizio di costituzionalità. Non escludo che lo faccia in futuro. Noi abbiamo sempre cercato di evitare i ricorsi facendo un’azione preventiva ma i rettori non ci hanno ascoltato. Speriamo lo facciano ora (l’Udu ieri ha chiesto al rettore il ritiro del ricorso e ha chiesto al ministro Fedeli di aprire un tavolo tecnico, ndr).
I ricorsi riguardano le facoltà umanistiche ma lei e l’Udu criticate l’intero modello universitario attuale.
Sì, se il numero chiuso o programmato può avere un senso per medicina, per le altre facoltà sta provocando danni incalcolabili. Così come il sistema di accreditamento: i finanziamenti del ministero agli atenei sono basati sul numero dei laureati in corso e così i docenti sono portati a garantire questi standard a scapito totale della preparazione: la selezione in itinere è assente così come gli abbandoni. In questo modo abbiamo un imbuto chiuso in entrata e una elite impreparata in uscita. Non vorrei che si sottovalutasse come ormai per una famiglia anche non ricca costi di meno mandare il proprio figlio a studiare medicina od odontoiatria in Romania e Bulgaria rispetto a Parma o Pavia. E nel frattempo i posti riservati per legge agli studenti extracomunitari rimangono sempre vuoti perché non siamo più attrattivi e perdiamo cervelli prima che si formino.
È ancora possibile cambiare le cose? Qual è la vostra ricetta per rilanciare l’università in Italia?
La legge 264 del 1999 è stata accettata anche dai governi di centrosinistra senza battere ciglio: per questo siamo arrivati alla decisione della Statale e di altri atenei di introdurre i test di ingresso perfino nelle facoltà umanistiche. Anche il M5s pare essere per il numero programmato nella sua versione francese. Io invece penso che abbiamo bisogno di una università la più aperta possibile su cui investire fortemente per alzare il numero di laureati che in Italia è ormai bassissimo costruendo poli che creino anche indotti economici. Bisogna rivoltare l’idea che nelle università ci siano posti solo per chi troverà lavoro: alziamo il livello di istruzione in modo forte e inventeremo anche nuove professioni e tanti brevetti, cambiando il mondo del lavoro e tutta la società.

Repubblica 2.9.17
Vecchio e nuovo ordinamento a confronto: fallito l’obiettivo di anticipare l’età di uscita dall’università. I docenti: non ha funzionato soprattutto il triennio iniziale che offre pochi sbocchi professionali
Laureati sempre in calo e titolo dopo i 27 anni il flop della riforma 3+2
di Salvo Intravaia

MENO laureati e titolo “completo” che arriva sempre dopo i 27 anni. La riforma universitaria Berlinguer/ Zecchino, meglio conosciuta come quella del “3+2”, ha mancato due dei suoi obiettivi principali. Secondo i dati, i giovani che oggi riescono a concludere l’intero percorso quinquennale o quello a ciclo unico sono addirittura meno rispetto ai laureati del 2000, ultimo anno del vecchio ordinamento. E per acquisire i due titoli (quello triennale più quello biennale, detto anche magistrale) si va ancora fuoricorso. Nel 2016, i laureati magistrali o con percorso a ciclo unico (Architettura, Odontoiatria, Medicina, Veterinaria, Giurisprudenza, Farmacia) sono stati 130mila. Sedici anni prima, i laureati quadriennali, quinquennali e dei percorsi di sei anni furono quasi 144mila. Va aggiunto che oggi però abbiamo anche 175mila laureati triennali, che però non sono sovrapponibili per molte ragioni ai vecchi laureati.
L’altra criticità riguarda la durata dei percorsi di studio: chi ha pensato che con l’introduzione della laurea triennale e di quella specialistica nei nostri atenei i tempi d’uscita si sarebbero accorciati ha sbagliato i suoi calcoli. Perché nel 2000, ai tempi del cosiddetto “vecchio ordinamento”, ci si laureava in media a 27,6 anni, sedici anni dopo siamo scesi a 27,1. Un piccolo passo avanti che, per molti, non giustifica la rivoluzione del “3+2”. Anche perché, per completare il percorso triennale occorre mediamente studiare 4,9 anni: a fare più fatica i ragazzi che frequentano le facoltà del gruppo letterario (Filosofia, Storia, Lettere), che mediamente impiegano 5,2 anni. Anni che diventano 7,4 anni per i percorsi a ciclo unico di cinque anni e oltre.
Ma, nonostante le novità introdotte, i due mondi sono rimasti abbastanza immutati, con poco meno di un milione e 700mila iscritti e 280/290mila immatricolati. «Il difetto maggiore di quella riforma è stato quello di adottare un sistema top-down: uguale per tutte le facoltà», dice Eugenio Gaudio, rettore dell’università La Sapienza di Roma. Che aggiunge: «A mio avviso, andavano differenziate le lauree triennali che avevano un chiaro profilo professionalizzante dalle altre. Ma non parlerei di fallimento totale. Le lauree triennali delle Professioni sanitarie, ad esempio, non sono un mero riassunto della laurea in medicina. Rappresentano una novità, come la laurea Infermieristica, che ha prodotto un innalzamento della qualità del sistema sanitario». Aggiunge Gaetano Manfredi, presidente della Conferenza dei rettori: «Lo spirito era quello di creare una base molto larga di laureati triennali, i cui profili professionali avrebbero dovuto trovare riscontro immediato nel mercato del lavoro, e una fascia minore di laureati magistrali. Ma le cose sono andate diversamente. Oggi, il 79/80 per cento dei triennalisti prosegue e consegue la laurea magistrale. La laurea triennale, che avrebbe dovuto attirare i diplomati provenienti dagli istituti tecnici e professionali, non è sempre professionalizzante e spesso non trova riscontro nel mercato del lavoro. Il vero tema è questo: riconquistare i giovani dei tecnici e dei professionali che oggi si iscrivono sempre meno all’università».
Un occhio attento sul sistema universitario è quello di Almalaurea, il consorzio nazionale di 74 atenei. «È difficile paragonare due sistemi così diversi. Qualcosa però è migliorato: nel vecchio ordinamento si laureava in regola il 9 per cento degli iscritti, oggi siamo a quota 35 per cento. Un dato che comunque non ci soddisfa, soprattutto al cospetto delle altre nazioni», spiega Francesco Ferrante, membro del Comitato scientifico del consorzio con sede a Bologna. Ma non solo. «I laureati sono pochi perché il mercato del lavoro, in maniera anomala, ne richiede pochi per un paese avanzato. E in Italia non ci sono abbastanza incentivi per convincere i giovani a proseguire gli studi: all’estero le cose sono completamente diverse, specialmente nei paesi nordici. E Poi — conclude — non dimentichiamo che in Italia l’università ha subito un consistente taglio di risorse: un laureato italiano costa la metà di uno tedesco».

Repubblica 2.9.17
In fila per imparare se il festival diventa lezione collettiva
di Raffaella De Santis

SARZANA Tutti in fila per Elena Cattaneo. La scienziata, biologa di fama mondiale, parlerà della Corea di Huntington. Di che cosa? Il tema, per la maggior parte delle persone che pazientemente aspettano di entrare alla conferenza inaugurale della XIV edizione del Festival della Mente di Sarzana, è misterioso. «Non ho idea di cosa andrò a sentire», dicono i più. Però ci sono, vogliono partecipare all’ignoto. Pochissimi di quelli che affolleranno il tendone al centro di piazza Matteotti, la piazza del Comune, sanno che la Corea di cui la Cattaneo parlerà non ha niente a che vedere col missile nucleare lanciato verso il Giappone da Kim-Jong-un, né si tratta di un revival dello scontro di civiltà di Samuel P. Huntington. Ma è una malattia genetica, quella che comunemente chiamiamo Ballo di San Vito, un disturbo neurodegenerativo raro che spinge chi ne è colpito a movimenti inconsulti, ad essere preso da una sorta di frenesia danzante ( chorea in greco vuol dire danza e san Vito è il patrono dei ballerini): «In Italia colpisce cinquemila persone. In altri tempi chi ne era colpito era bollato come matto, indemoniato, posseduto, pazzo. I malati erano emarginati, condannati, rinchiusi », spiega Cattaneo.
Dentro il tendone (un migliaio di persone, molti in piedi), cala il silenzio. Fa caldo, ci si aspettava la pioggia e invece c’è una grande afa. Qualche signora si sventola col ventaglio. Ci sono molte donne, l’età media matura, qualche ragazzo sta in piedi per lasciare il posto ai più anziani. Tutti disposti all’ascolto di ciò che ignorano. Qualcuno ha letto sul depliant che si tratta di una “brutta malattia”. Franca Pantaleo è tra le più motivate. Ammette entrando che non ne sa niente, ma vuole imparare: «A me piacciono i convegni, soprattutto quelli di scienza. Vengo da una paese qui vicino, da Caniparola. Vengo per imparare. Da giovane non ho potuto studiare, i miei non avevano i soldi. Ho fatto la pantalonaia per quasi tutta la mia vita. Poi mi sono stancata, mi sono iscritta all’università della terza età e ora sono qui». Sorride, indica un’amica: «Lei ne sa di più, è maestra».
Nessuno che si muova, nessuno che desista. Elena Cattaneo è bravissima. Sentendola parlare, la storia della frenesia di Huntington diventa una specie di giallo alla Sherlock Holmes, con scienziati che la scoprono, altri che la inseguono in Venezuela, diapositive di geni che sembrano fantasie di Miró. S’imparano nomi: George Huntington fu il medico che la scoprì per la prima volta nel 1872 e Nancy Wexler la scienziata che andò a studiarla a Maracaibo partendo da Los Angeles. Nessuno prende appunti, ma nessuno sembra annoiarsi. C’è chi, come Luca, uno studente di Lerici, si dice «appassionato di malattie rare». E in effetti dentro sembra realizzarsi una sorta di catarsi collettiva delle ipocondrie comuni. Anche la voglia di liberarsi delle proprie paure può essere un buon motivo per venire. Quest’anno il tema del festival è la Rete. Qui però la Rete è fatta di storie e facce in carne ed ossa, più che di foto profilo social o pensierini da 140 caratteri. Si parla a bassa voce, si misurano anche gli applausi. Tanta gente e neanche un suono. Miracolo dei festival, l’immagine di un’altra Italia, senza slogan, frasi d’odio, protagonismi inutili. Semmai, la riscoperta dell’ascolto. Un passo indietro, parla l’altro. Al festival di Sarzana vengono molti maestri, professori di scuola che vogliono “aggiornarsi” prima della ripresa delle lezioni, altri che considerano questa la vera festa, il momento in cui la scuola si fa vita, scende tra i vicoli medievali della città, mischia i ragazzi e gli adulti, gli intellettuali e le persone comuni.
Paola Longari, 60 anni, viene al festival ogni anno, dopo una vita passata a insegnare storia e filosofia. Lo fa, dice, perché essere qui non è la stessa cosa che stare a scuola: «Voglio tenere i contatti con la cultura viva, con quello che accade. Voglio partecipare». Paola arriva da Viadana, vicino a Mantova, e assicura che la prossima settimana sarà al Festivaletteratura. Non è la sola viandante festivaliera. I pellegrini dei festival si riconoscono, si salutano, ricordano le edizioni precedenti. C’è chi le conta, come i timbri sul passaporto. Qualcuno tra i più giovani scatta qualche selfie, ma sono pochi. Altro miracolo.
Una delle ultime diapositive mostra il soffitto illusionistico della Stanza degli sposi a Mantova: «La scienza non è solo una lista di fatti, ma un modo diverso di guardare le cose. Un modo per riconoscere la nostra ignoranza », dice Cattaneo. È sicuramente questo il motivo per cui mille persone sono venute sotto un tendone bollente a sentire parlare di qualcosa che ignoravano: forse sapevano che dopo avrebbero guardato il mondo con altri occhi.
A Sarzana la rassegna sulla mente argomenti difficili, ma nessuno si annoia
“Volevo studiare, non ho potuto e ho lavorato tutta la vita. Adesso finalmente recupero”

Repubblica 2.9.17
La statua di Colombo e la storia riscritta
di Alexander Stille

SI TOGLIERÀ la statua di Cristoforo Colombo che domina Columbus Circle, uno dei principali crocevia di New York? Dopo la violenza razzista a Charlottesville e la decisione di spostare la statua del generale Robert E. Lee da un parco pubblico, il sindaco italo- americano di New York Bill de Blasio ha proposto di nominare un comitato per la rivalutazione di tutti i «simboli dell’odio». (Ha menzionato il bisogno di togliere una targa di Philippe Pétain, il presidente della Francia di Vichy che ha collaborato con il nazismo). Ma la reazione iniziale è stata estremamente negativa. «Sarebbe una specie di Inquisizione alla storia in chiave politicamente corretta», ha detto lo storico Kenneth Jackson. Sul caso Colombo, de Blasio ha promesso che avrebbe partecipato (come fanno tutti i sindaci ogni anno) alla parata annuale di Columbus Day il mese prossimo. Poi, per quanto riguarda la statua di Colombo, de Blasio ha detto che in molti casi basterebbe una targa esplicativa per dare un più ampio contesto storico alla scultura, piuttosto che toglierla. Nel frattempo, qualcuno ha decapitato una statua di Colombo vicino a New York.
La mossa goffa di de Blasio riapre un dibattito più generale sui monumenti e la storia e sul fatto che sculture che rappresentavano la gloria per alcuni recano offesa a minoranze che non hanno potuto costruire statue. E rischia di fare il gioco di Donald Trump che accusa i suoi critici di volere «cancellare la storia». «Vogliamo togliere le statue di George Washington e Thomas Jefferson? Anche loro erano proprietari di schiavi», ha detto. L’università di Yale ha recentemente modificato un bassorilievo con un colone puritano che puntava un fucile verso un indiano. Può sembrare una parodia della correttezza politica, ma il dibattito sui monumenti è serio, anche se può portare a eccessi comici e perfino aggravare ancora di più le divisioni etno-razziali fomentate da Trump.
È importante capire che per i primi 200 anni la storia americana è stata scritta e presentata al pubblico dai “vincitori”, uomini bianchi di origine europea. Anche se togliere la statua di Colombo sarebbe assurdo, è essenziale comprendere che per quel che resta degli indiani americani Columbus Day è un giorno di lutto, il giorno in cui la loro civiltà ha cominciato a morire, un fatto ignorato o minimizzato nei manuali di storia fino a 40 o 50 anni fa.
Può essere positivo e sano riaprire il dibattito storico e guardarlo da un altro punto di vista. È bene che si sappia che i monumenti della Confederazione separatista hanno proliferato negli Stati del Sud proprio quando stavano togliendo quasi tutti i diritti civili ai loro cittadini neri. Non è storia antica. Nel 1983 molti membri del Sul del Congresso hanno resistito all’idea di fare un giorno di festa nell’anniversario di Martin Luther King, e in tre Stati hanno creato una festa doppia, onorando Lee insieme a King, nato a quattro giorni di distanza. Una specie di beffa alla comunità nera: onoriamo il vostro leader insieme a uno che ha difeso la schiavitù e si è opposto al voto per i neri dopo la guerra civile.
Ma è altrettanto importante evitare atteggiamenti dogmatici da entrambe le parti e valutare caso per caso. L’università di Yale ha cambiato il nome al Calhoun College, mentre Princeton ha resistito all’idea di togliere il nome dal centro Woodrow Wilson, entrambi tacciati di razzismo. Ma forse avevano ragione: Calhoun non ha avuto un ruolo centrale nella vita dell’università ed era noto soprattutto per la sua difesa particolarmente accesa della schiavitù. Il caso di Wilson è più complesso: ha cacciato i dipendenti neri dell’amministrazione pubblica degli Usa ma è stato un ottimo rettore di Princeton, come presidente degli Stati Uniti ha fatto del bene e del male. Ha sostenuto l’idea della auto-determinazione dei popoli, seppur solo in Europa e non nelle loro colonie. L’università di Oxford ha deciso di tenere una statua di Cecil Rhodes mentre l’università di Città del Capo ha tolto la sua. La storia non è unica né immutabile, cambia con il contesto e il tempo. Rhodes ha un significato diverso nei due luoghi: a Oxford ha fondato una famosa borsa di studio che porta il suo nome, mentre a Città del Capo lo stesso nome è sinonimo per la maggioranza nera di conquista, oppressione, apartheid.
La soluzione spesso è utilizzare questi casi per approfondire la storia e conoscere meglio le figure sui piedistalli nella loro imperfezione: sarebbe bene, per esempio, che gli studenti di Oxford sapessero che la borsa di Rhodes è stata creata per rendere Oxford “il centro educativo della razza inglese”.
Conoscere meglio significa fare distinzioni. C’è una differenza tra Washington, Jefferson e Lee. Washington e Jefferson hanno fondato il Paese che Lee ha cercato di distruggere. Il caso di Jefferson è una somma di tutte le contraddizioni della nostra storia: è stato schiavista ma anche autore della Dichiarazione d’indipendenza americana che stabiliva che «tutti gli esseri umani sono stati creati uguali». Grazie alla ricerca genetica, ora sappiamo che Jefferson ha avuto diversi figli con la sua schiava Sally Hemings che era, a sua volta, figlia mista del suocero di Jefferson. Ora i discendenti della Hemings sono stati ammessi alle riunioni della famiglia Jefferson e tutti hanno imparato qualcosa sull’estrema complessità della razza negli Stati Uniti.
Allo stesso modo, non si può dire che togliere un momento sia sempre un’offesa alla storia. Ridare il nome San Pietroburgo a quella che era Leningrado è una cancellazione della storia o una restaurazione. In Germania è impensabile una statua commemorativa di Hitler: toglierle è stata una forma di presa di coscienza, non di amnesia. In Russia si conserva il corpo imbalsamato di Lenin, ma non quello di Stalin. Ci sono delle ragioni, ma bisogna riconoscere che la commemorazione pubblica è un’arte inesatta e non una scienza. Abbattere le statue di Mussolini sembrava giusto, ma cancellare tutta l’iconografia fascista al Foro Italico sembra un attacco alla storia. Perché? Questione di pancia, di giudizio e di intuizione. Roma ha tenuto l’obelisco di Axum, un trofeo di Mussolini tolto all’Etiopia nel 1937, e l’Italia democratica l’ha conservato per 60 anni dopo la guerra per poi restituirlo nel 2005. Perché quello che non sembra offensivo in un momento può sembrarlo in un altro. Negli Stati Uniti di Trump rischia di diventare un’arma per polarizzare ancora di più il Paese e fare dei Democratici (se non stanno attenti) il partito delle minoranze e dei Repubblicani il partito dei bianchi.

il manifesto 2.9.17
La (nuova) provocazione di Orban
Unione europea. Il primo ministro ungherese chiede che la Ue paghi la metà dei costi delle barriere anti-rifugiati, costruite nel 2015 al confine con la Serbia. Bruxelles ironizza: prendiamo nota che Budapest considera la solidarietà un principio comunitario. Il 6 settembre è attesa la sentenza della Corte di Giustizia per la mancanza di solidarietà dell'Ungheria nel piano di ricollocazione dei rifugiati da Grecia e Italia.
di Anna Maria Merlo

PARIGI Le provocazioni di Viktor Orban stanno diventando surrealiste. Il primo ministro ungherese, giovedi’, ha inviato una lettera al presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, dove pretende che Bruxelles paghi la metà dei costi sostenuti dal suo paese per costruire le barriere anti-immigrati nell’estate del 2015. Una spesa che Orban calcola di 270 milioni di fiorini, 883 milioni di euro, 440 dei quali dovrebbero essere a carico della Ue. Una proposta che Orban definisce “ragionevole”, perché “non è esagerato dire che la sicurezza dei cittadini della Ue è stata finanziata dai contribuenti ungheresi”. Nella lettera Orban insiste sulla “qualità” dell’intervento di chiusura, con barriere “made in Hungary”, video-camere, tecniche per intercettare movimenti, un grosso investimento high tech, “il nostro paese non protegge solo se stesso ma tutta la Ue”, contro “l’ondata di immigranti illegali”. Nell’estate 2015, Orban aveva deciso di costruire le barriere al confine con la Serbia, dopo l’arrivo di circa 100mila rifugiati, che avevano sperato di transitare per l’Ungheria per raggiungere la Germania e l’Europa del nord.
Risposta ironica della Ue alla richiesta di “solidarietà” da parte di Orban: Bruxelles assicura che esaminerà al più presto la richiesta di Budapest, ricordando che l’Europa “non finanzia costruzioni di chiusure o barriere alle nostre frontiere esterne”, sottolineando pero’ di aver “preso nota” che d’ora in avanti l’Ungheria considera la solidarietà come “un principio importante” nella Ue. L’Ungheria, con la Polonia, ha rifiutato di partecipare al programma di ricollocamento dei 160mila migranti sbarcati in Grecia e in Italia. La lettera di Orban a Juncker arriva del resto proprio qualche giorno prima del 6 settembre, data in cui è attesa la sentenza della Corte di Giustizia Ue su quel rifiuto (oggi in Ungheria ci sono solo 680 richiedenti asilo). L’Ungheria potrebbe subire delle sanzioni per essere venuta meno al principio di solidarietà. Contro Budapest (come contro Varsavia) è stata più volte evocata la possibilità di far ricorso all’articolo 7, cioè di sospendere il diritto di voto al Consiglio Ue. In causa sono alcune decisioni, prese a Budapest come a Varsavia, che limitano i poteri della giustizia (Polonia) e della Corte costituzionale (Ungheria). Ieri la Commissione ha ricordato che nella Ue non esiste “un’opzione à la carte, grazie alla quale si puo’ scegliere un piatto per la gestione delle frontiere e rifiutarne un altro che riguarda la redistribuzione dei rifugiati”. Giovedi’ si è anche riunito a Budapest il gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), per far fronte “ai tentativi della Ue di dividere il gruppo”: a far scattare la reazione irritata di Visegrad è stato soprattutto il recente viaggio di Emmanuel Macron nell’Europa dell’est e in Austria. Il presidente francese ha incontrato i dirigenti cechi e slovacchi, ma ha ignorato ungheresi e polacchi (con cui c’è stato un braccio di ferro, con accuse da parte di Varsavia di essere “un giovane presidente inesperto”).
Viktor Orban e la Fidesz stanno creando un caso di coscienza nella Ue. La Fidesz è membro del Ppe (partiti popolari), affiliazione che solleva critiche al Parlamento europeo e nel centro-destra. Orban è abbonato alle provocazioni, sui migranti ma non solo (si vanta di difendere una tendenza “illiberale”, è su posizioni nazionaliste estreme, in economia ha imposto una flat tax al 16% per ricchi e poveri, reprime minoranze e stampa). Nel 2016 ha per esempio organizzato un referendum sulle ricollocazioni dei rifugiati, vinto con il 98% di “no”. A marzo di quest’anno ha continuato con un questionario spedito agli elettori, intitolato “Fermiamo Bruxelles”.

Il Sole 2.9.17
Se la Cina diventa leader nell’intelligenza artificale
di Adriana Castagnoli

La tecnologia si sta rivelando il principale campo di battaglia per Cina e Usa. Pechino è stata esplicita in merito alle sue aspirazioni di dominio tecnologico e sullo sforzo del governo cinese per diventare leader globale in campi d’avanguardia come auto elettriche, intelligenza artificiale, robotica e altre cruciali tecnologie del futuro.
La Cina ha accelerato lo sviluppo di questi settori iniettando enormi risorse pubbliche. Con il piano “Made in China 2025”, punta alle industrie globali a rapida crescita che possono creare milioni di posti di lavoro ben retribuiti per una generazione di giovani cinesi dotati di una formazione sempre più sofisticata.
Il trasferimento di tecnologia diviene perciò una questione nevralgica, da un lato, per gli obiettivi di sviluppo di Pechino e, dall’altro, per la difesa e la sopravvivenza dell’industria occidentale. Ma, nel momento in cui l’amministrazione Trump si muove per affrontare la Cina sulle violazioni della proprietà intellettuale e il trasferimento di tecnologia - e anche in Europa si cerca di individuare misure per tutelare l’industria innovativa - Washington scoprirà di avere poche munizioni. Perché le regole del commercio mondiale potrebbero favorire la Cina.
Le attuali frizioni in materia di scambi risalgono all’amministrazione Clinton. Quando la Cina entrò nella Wto nel 2001, i negoziatori americani concessero a Pechino una certa libertà d’azione, una posizione che più tardi fu supportata anche dall’amministrazione di George W. Bush. Come Paese in via di sviluppo, alla Cina fu permesso di limitare l’accesso al suo mercato per le compagnie americane che non fossero impegnate in joint venture con partner locali. Pechino promise di togliere tali norme man mano che la sua economia fosse divenuta matura. Ma non lo ha fatto.
Così, adesso a Washington e Bruxelles si cerca di correre ai ripari e di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.
La capacità della Cina, specialmente nelle nuove tecnologie, è stata a lungo indietro rispetto a quella delle economie avanzate in Europa e America. Alcuni decenni di sviluppo industriale per raggiungerle hanno pagato il loro dividendo, specialmente nelle tecnologie d’avanguardia. Ma la partnership tecnologica con Pechino è assai problematica e rischiosa.
Il punto è che, quando si ha a che fare con uno Stato autocratico e che non è un’economia di mercato, come la Cina, si dovrebbe avere la visione strategica di considerare anche il potenziale distruttivo per l’Occidente, il suo sistema di valori e del diritto che esso può comportare. Si prenda il caso dell’intelligenza artificiale che dominerà il futuro. Pechino ha predisposto un piano per divenire il leader mondiale della AI entro il 2030, mirando a superare i suoi competitor e a creare un’industria nazionale che valga almeno 150 miliardi di dollari. Secondo alcune fonti, la Cina ha già più dei 2/5 degli scienziati esperti in AI del mondo; il numero dei brevetti in questo campo è cresciuto del 200% negli ultimi anni, anche se gli Usa sono ancora primi.
Se la Cina riesce nell’intento, il futuro della intelligenza artificiale mondiale sarà concentrato in gran parte nei laboratori del Dragone. E Pechino avrà in mano le chiavi per essere una grande potenza economica. Con i suoi 1,4 miliardi di abitanti e 730 milioni di persone connesse al web, la Cina genera dati più di qualunque altro Paese. Un enorme volume di informazioni che costituiscono il più importante ingrediente della intelligenza artificiale perché consentono alle macchine di imparare. Senza dire che Pechino è già leader in campi strategici per la sicurezza nazionale come le tecnologie per la trasmissione quantistica (ossia, di messaggi cifrati inviolabili), e nella fabbricazione di droni che sono stati usati pure dall’esercito Usa.
La questione è che l’intelligenza artificiale cinese rispecchierà inevitabilmente l’influenza dello Stato. E Pechino è uno Stato autocratico. Si parla di piani per la creazione di un “credito sociale” che attribuirebbe valutazioni ai cittadini in base al loro comportamento. Lo scenario distopico di algoritmi che aiuteranno le autorità a controllare il comportamento degli individui è più prossimo di quanto non si pensi. Ed è realistico immaginare che questi algoritmi vengano esportati come servizi a tutti gli Stati autoritari del mondo.
I giganti del web occidentali, da Facebook a Google, non sono certo incolpevoli nella manipolazione delle informazioni. Ma sono impegnati in un dibattito aperto sulle implicazioni etiche della AI e sono limitati, almeno in parte, dalle istituzioni democratiche. Se uno Stato autocratico, come quello cinese, avrà il controllo sull’intelligenza artificiale, esso ne sarà anche il maggior beneficiario.

Corriere 2.9.17
Lo scontro per l’egemonia sarà tra Stati Uniti e Cina
di Paolo Valentino

Il codice di condotta e perfino il vocabolario appartengono interamente alla Guerra fredda. La chiusura di tre uffici consolari russi negli Stati Uniti (fra i quali quello di San Francisco) decisa dalla Casa Bianca, è un altro episodio nella faida delle ritorsioni diplomatiche tra Mosca e Washington, una risposta studiata e proporzionata al taglio di 755 persone nello staff diplomatico americano in Russia, ordinato dal Cremlino in luglio.
Abbandonata ogni prospettiva di un grand bargain , frutto dell’empatia reciproca tra i due leader (confermata meno di due mesi fa al G20 di Amburgo) e della comune visione di un mondo gestito da uomini forti, Trump e Putin si preparano, loro malgrado, a una stagione di conflittualità permanente.
La percezione di una nuova Guerra fredda è infatti destinata a rafforzarsi a partire dalla metà di settembre, quando Mosca inizierà la più grande manovra militare degli ultimi 30 anni sui suoi confini europei. Denominata Zapad, Occidente in russo, proprio come quelle che l’Armata Rossa conduceva ai tempi dell’Urss, l’esercitazione coinvolgerà non meno di 18 mila soldati tra Russia, Bielorussia e Kaliningrad. Nonostante il Cremlino ne sottolinei il carattere difensivo, Zapad si configura come un impressionante spiegamento di capacità operativa, osservato con preoccupazione dai comandi dell’Alleanza Atlantica.
C’è un fondo di verità ma anche una suggestione ingannevole nell’evocare l’immagine di un ritorno al gelo tra Mosca e Washington, all’epoca in cui l’equazione strategica divideva l’intero pianeta tra «noi» e «loro».
Il confronto tra Russia e Stati Uniti è sicuramente denso di pericoli. Paradossalmente proprio perché non esistono più, o sono stati ridimensionati, quei meccanismi di trasparenza, controllo e gestione delle crisi, che per mezzo secolo impedirono alle tensioni tra i due blocchi il superamento dei livelli di guardia e spesso contribuirono a recuperare il dialogo. Ogni crisi, durante la Guerra fredda, portava sempre a un rilancio dei rapporti tra Cremlino e Casa Bianca, a un vertice, a un nuovo negoziato. Dall’arresto a Mosca di Nick Daniloff, corrispondente di Newsweek , nacque nel 1986 il summit di Reykjavik tra Reagan e Gorbaciov, che aprì la strada agli accordi sui missili nucleari. Oggi di tutto ciò non v’è traccia e invece di un vertice tra Trump e Putin, nei prossimi mesi probabilmente vedremo solo nuove ritorsioni.
Eppure la Guerra fredda non tornerà. Putin è un leader autoritario, al quale prendere le misure, ma non ha ambizioni egemoniche universali sorrette da un’ideologia come i leader dell’Urss. Soprattutto, il mondo non è più bipolare e una nuova Superpotenza già rivendica il suo posto negli equilibri globali.
In realtà ciò che rende improprio parlare di nuova Guerra fredda tra Mosca e Washington è proprio la marginalità del loro scontro. Detto altrimenti, non è in questa mini-replica della Storia che si giocano la partita decisiva dei futuri equilibri mondiali e in ultima analisi le grandi questioni della pace e della guerra.
È la penisola coreana, oggi, il teatro del conflitto che può sconvolgere il mondo. È lì che le pulsioni alla Dottor Stranamore di Kim Jong-un rischiano di far precipitare il vero scontro in fieri per l’egemonia mondiale, quello tra Stati Uniti e Cina. È quella che Graham Allison chiama la «trappola di Tucidide», nella quale, come nelle Guerre del Peloponneso tra Atene e Sparta, una potenza in ascesa e una affermata spesso cadono anche senza volerlo. Lo ha capito Vladimir Putin, tattico di talento anche in assenza di strategia, che si è già invitato al tavolo: la prossima settimana incontrerà a Vladivostok il presidente sudcoreano Moon Jae-in. E intanto fa sapere che «Russia e Cina hanno creato una tabella di marcia per la soluzione della crisi nella penisola coreana». Da Washington c’è solo il silenzio assordante di un tweet di Donald Trump: «Non è più il tempo di nego-ziare». L’America è non pervenuta.

Repubblica 2.9.17
Il leader cinese apre l’assise degli emergenti a Xiamen dove arrivano Modi e Putin a “omaggiarlo”. Nel partito non ha più rivali, ha collezionato tutte le cariche e in ottobre sarà incoronato per altri 5 anni
Xi Jinping, l’ultimo imperatore si prende i Brics e tutto il partito
Angelo Aquaro

PECHINO. A omaggiarlo a Xiamen, in questo summit dei Brics apparecchiato di fronte a Taiwan, l’isola che si illude di non piegarsi al Dragone, arrivano Vladimir Putin e Narendra Modi: lo zar di tutte le Russia e il maharaja di tutte le Indie. Nella Grande Sala del Popolo, entro Natale, sfilerà Donald Trump: gliel’ha promesso di persona, malgrado la guerra commerciale. Tra i due show, il 18 ottobre, ecco il vero evento clou. Il Congresso numero 19 del Partito comunista lo rieleggerà segretario generale, permettendogli così di risprofondare per (almeno) altri cinque anni sulla poltrona che è ormai la più alta del mondo, grazie anche alle imbottiture conquistate: il cuscino di presidente della Repubblica popolare, quello di presidente della commissione militare, della commissione economia, riforme etc etc. Compagno Xi Jinping: da presidente di tutto a ultimo imperatore?
La laica alleanza dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) oggi è l’ombra del cartello degli emergenti che fu, e per Pechino gli scambi con i quattro partner valgono meno della metà di quelli con gli Usa. Ma che importa? A contare, per Xi, è l’ennesima vetrina per rivendere il concetto enunciato prima a Davos e ribadito alla Belt and Road Initiative, il forum sulla nuova via della seta che ha richiamato a Pechino più di trenta tra capi di Stato e di governo, attirati dai mille miliardi gentilmente offerti dalla casa: la Cina c’est moi, accomodatevi tra le braccia della nuova potenza globalizzatrice. Tra le braccia del nuovo Mao?
«Mao ha dato il potere al popolo, Deng ha indicato la strada dello sviluppo e Xi quella per superare la diseguaglianza sociale », dice a Repubblica Luo Hongbo dell’Accademia cinese di scienze sociali. Superare la diseguaglianza vuol dire cancellare la povertà entro tre anni: è la promessa che Xi Dada, Zio Xi, secondo l’affettuoso soprannome di regime, rilancerà al congresso. Mission possible? Intanto, per sopraggiunti limiti di età, cancellerà quel che resta dell’opposizione, si fa per dire, disegnandosi un Comitato permanente a sua immagine e somiglianza. L’ascesa accanto al “padre” Mao e al “figlio” Deng verrà quindi certificata nella costituzione del partito che eleverà la sua filosofia a dottrina – onore finora riconosciuto solo ai primi due. E poi lasciamo lavorare il culto della personalità.
«Il frenetico programma degli incontri all’estero spinge Xi a saltare spesso i pasti. La guardia del corpo passa all’interprete una scatola di biscotti e lo implora: fagli mangiare almeno qualcosa». «Dovunque vada, Xi è un turbinio di carisma». «Il libro sul governo della Cina è fonte di ispirazione in patria e all’estero, con 6.42 milioni di copie in 21 lingue». Il nuovissimo e imperdibile bestseller è “Sette anni da zhiqing”. L’espressione indica i giovani spediti a rieducarsi nelle campagne negli anni bui della Rivoluzione culturale, un inferno attraversato anche da Xi, figlio di un principe rosso in disgrazia – ma con che coraggio: «Non importa quanto il cibo fosse cattivo, Xi aveva sempre un buon appetito. Non importa quanto una persona fosse povera, Xi non l’avrebbe mai disprezzata ».
Un documentario tv in sei puntate racconta ora l’ultima fatica di Ercole-Xi: rivoluzionare la politica estera. «Nell’era di Mao», dice al Global Times l’esperto Jin Canrong «la lotta era per la sopravvivenza. Nell’era di Deng, la lotta era per lo sviluppo. Sotto la leadership di Xi, la lotta è per la dignità». Il triplice riferimento al concetto marxista di lotta non è un caso – come non è un caso l’ennesimo riferimento alla trinità dei capi. Sotto la leadership di Xi si riscrivono i libri di testo per renderli ancora più rossi. Sotto la leadership di Xi si raccomanda agli 80 milioni di comunisti con la tessera di sposarsi tra loro: crescete e moltiplicatevi. Ma che cosa vuol dire «lottare per la dignità»? Chiarisce al giornale del partito l’ambasciatore Hua Liming: «Finora la nostra missione era favorire un ambiente pacifico per dedicarci allo sviluppo. Ma adesso i tempi sono cambiati».
Appunto: i tempi cambiano. E Xi mette un eroe di guerra a capo dell’esercito, seppellisce quel che resta del dissenso con il Nobel Liu Xiaobo, rafforza la Grande Muraglia di Internet cancellando perfino le app per andare, non sia mai, su Facebook. E mentre incrocia lo sguardo di Modi, giunto alla corte di Xiamen solo dopo aver ritirato le truppe che al confine sfidavano quelle cinesi, guarda già al congresso. Il presidente di tutto, il nuovo Mao, l’ultimo imperatore, è ormai senza rivali: non gli resta che sbagliare da solo.

il manifesto 2.9.17
La strage dei rohingya: 400 morti nei pogrom dell’esercito birmano
Myanmar. Il «bilancio» lo dà un generale su Facebook. Ma le vittime sono di più: altri 15 corpi trovati sulle rive del fiume Naf, undici sono bambini. Silenzio internazionale mentre l’India di Modi ne espelle 40mila. La Cina difende il governo birmano al Consiglio di Sicurezza Onu: Pechino ha interessi nel Rakhine, lo Stato dove vive la scomoda minoranza
di Emanuele Giordana

Tra i corpi dei 15 rohingya che il colonnello Ariful Islam dice all’agenzia Reuters di aver trovato venerdì sulle rive del fiume Naf, che divide il Myanmar dal Bangladesh, ci sono in maggioranza bambini: sono undici a non avercela fatta.
Ma non sono da annoverare tra i 399 che, con agghiacciante precisione numerica, i militari birmani hanno fatto sapere di aver ucciso nella settimana di fuoco che ha seguito il «venerdì nero» scorso, quando secessionisti rohingya hanno attaccato alcuni posti di polizia scatenando una ritorsione dal sapore di pulizia etnica.
Non si tratta di una dichiarazione «ufficiale» ma di un post sulla pagina Fb di uno dei più importanti generali del Paese. La strage dei rohingya ridotta a qualche «like» o a condivisione sul social più diffuso. Il bilancio ufficiale era 108 morti e sembrava già tanto, così come i 3mila scappati oltre confine. Ma da ieri le cifre sono ben altre: 400 i morti tra cui, dicono i militari, 29 «terroristi».
E poi ben 38mila profughi – la cifra aumenta di ora in ora – che si aggiungono agli 87mila già arrivati in Bangladesh dopo il pogrom dell’ottobre 2016 (nel precedente, nel 2012, i morti erano stati 200 con oltre 100mila sfollati interni).
I dati li fornisce l’Onu che fino a due giorni fa ne aveva contati «solo» 3mila. Ma non è ben chiaro dove questa gente si trovi: secondo fonti locali almeno 20mila sono ancora intrappolati nella terra di nessuno tra i due Paesi e le guardie di frontiera bangladesi tengono il piè fermo.
Molti fanno la fine di quelli trovati dal colonnello Ariful se non riescono ad attraversare il fiume – a nuoto o con barche dov’è più largo – mentre altri aspettano il momento buono, quando si può sfuggire alle guardie di frontiera. Quel che è certo è che indietro non si può tornare.
I rapporti tra i due vicini sono tesi: Dacca ha protestato per ripetute violazioni dello spazio aereo da parte di elicotteri birmani in quella che sembra, una volta per tutte, una sorta di soluzione finale per chiudere il capitolo rohingya, minoranza musulmana che prima del 2012 contava circa un milione di persone.
Adesso, di questa comunità cui è negata la cittadinanza in Myanmar, non è chiaro in quanti siano rimasti in quello che loro considerano, forse obtorto collo, il proprio Paese mentre per il governo non si tratta che di immigrati bangladesi.
Lontano dal Mediterraneo, lungo un fiume che sfocia nel Golfo del Bengala, si consuma lentamente ma con determinazione la persecuzione di un popolo. I militari agitano lo spettro di uno «stato islamico», incarnato da un gruppo secessionista armato responsabile degli attacchi.
E se anche i residenti locali non musulmani (11mila) sono oggetto di «evacuazione» dalle zone sotto tiro, Human Rights Watch ha documentato la distruzione di case e villaggi rohingya con incendi che hanno tutta l’aria di essere dolosi.
Reazione troppo brutale, come dice la diplomazia internazionale o un piano di eliminazione? «Siamo ormai in una nuova fase – dice a Radio Popolare il responsabile Asia di Hrw – e siamo convinti che dietro alle operazioni dell’esercito ci sia il governo, col piano di chiudere definitivamente la questione cacciando la popolazione rohingya grazie alla campagna militare contro gli insorti».
Se la diplomazia resta a guardare, i vicini non sono da meno. La Thailandia si richiama al principio di «non ingerenza». Delhi ha deciso l’espulsione di 40mila rohingya illegali e settimana prossima il premier Modi sarà in Myanmar, Paese strategico per l’economia del colosso asiatico.
La decisione ha però suscitato polemiche, editoriali sui giornali e anche il ricorso di due rohingya alla Corte suprema che, proprio, ieri ha accolto la richiesta: pare che Delhi intenda espellere persino chi già gode dello status di rifugiato con l’Acnur (14mila persone).
C’è poi un altro colosso – la Cina – che difende le ragioni del governo birmano nelle riunioni del Consiglio di sicurezza dove fa sentire il suo peso perché la questione rohingya resti al palo. Pechino è il maggior investitore e ha interessi anche nel Rakhine, lo Stato dove vive la scomoda minoranza.
È interessata al porto di Kyaukphyu, strategico per i rifornimenti di petrolio. Non solo i cinesi stanno acquisendo azioni della società portuale ma finanziano l’oleodotto che dal Rakhine arriva a Kunming, Cina del Sud.
C’è un altro investimento nella cosiddetta Kyaukphyu Special Economic Zone che prevede una linea ferroviaria. Un corridoio ritenuto vitale nel suo progetto One Belt, One Road, meglio noto come «Nuova via della seta».
E per evitare complicazioni Pechino ha ottimi rapporti con un parlamentare locale dell’Arakan National Party, ritenuto un bastione del nazionalismo identitario locale. È il partito che vorrebbe nel Rakhine lo stato di emergenza.

Corriere 2.9.17
Philip Roth: vi spiego perché non scrivo più
di Livia Manera

«Ecco perché non scrivo più». Philip Roth, 84 anni, considerato il più importante scrittore americano vivente, ha rotto il suo riserbo e ha concesso una densa intervista a «la Lettura» da domani in edicola.
Considerato il più importante autore americano vivente e uno dei più importanti del secondo Novecento, ma dotato di un carattere schivo e profondamente insofferente alle polemiche letterarie e a certa sovraesposizione mediatica, Philip Roth (Newark, 19 marzo 1933) è sempre stato uno scrittore difficile da avvicinare. E le sue interviste, già rare, si sono fatte rarissime dopo l’annuncio dell’addio alla scrittura, che risale al 2012: a parte qualche commento stringatissimo sulle recenti vicende politiche americane, da molto tempo non ne concedeva.
Per questo la densa intervista a Philip Roth con cui si apre il nuovo numero de «la Lettura», il #301 (in edicola fino a sabato 9 settembre), ha tutti i crismi dell’evento: nelle tre pagine dedicate all’autore di Pastorale americana (e altri 30 romanzi, tra cui Lamento di Portnoy , Il complotto contro l’America o La macchia umana , in Italia editi da Einaudi), Roth risponde alle domande di Livia Manera raccontando come vive lontano dalla macchina da scrivere, come ha accolto le critiche, talvolta entusiastiche, talvolta arrabbiate, ai suoi romanzi premiatissimi (anche col Pulitzer) ma soprattutto qual è in sostanza il bilancio personale di una vita trascorsa quasi tutta a scrivere.
Ne viene il ritratto di una mente lucida di interprete della società contemporanea, ma anche il profilo di un uomo che ha lavorato molto, che nuota in piscina per curare il mal di schiena, che deve tener lontani gli orsi dalla sua casa settecentesca nel Connecticut. E ne vengono, soprattutto, risposte che fanno riflettere, sul ruolo di uno scrittore e sul suo lavoro nel mondo d’oggi. Così come fa riflettere anche il volume di saggi, letto in anteprima e raccontato da Manera su «la Lettura», che tra poco uscirà negli Stati Uniti, il 12 settembre: Why write? Collected Nonfiction 1960-2013 (Library of America), un’ opera omnia saggistica che raccoglie tutta la produzione non romanzesca di Roth, e illustra molte delle sue posizioni sulla scrittura, sulla letteratura e sul mondo americano.
Proprio a Philip Roth, tra l’altro, sarà dedicata la lezione di Alessandro Piperno che si terrà al Festivaletteratura di Mantova giovedì 7 settembre. Della kermesse mantovana, che si svolgerà da mercoledì 6 a domenica 10 settembre e che è giunta alla ventunesima edizione, si occupa un cospicuo speciale nella sezione «Libri» di questo numero, non solo con la segnalazione di incontri, eventi e appuntamenti della manifestazione, ma anche con anticipazioni e contributi di moltissimi degli scrittori e delle scrittrici ospiti.
A Mantova, ad esempio, si parlerà del «Vocabolario europeo», l’impresa per la quale Giuseppe Antonelli e Matteo Motolese hanno chiesto definizioni e parole significative ad autori di 31 lingue diverse: su «la Lettura» si possono leggere i lemmi di cui si parlerà al festival, come solitudine o desiderio , firmati da autori come Fernando Aramburu, Arno Camenish e molti altri.
Attesa al festival e poi in tour attraverso l’Italia è la scrittrice Elizabeth Strout, premio Pulitzer: su «la Lettura» l’autrice firma due pagine vibranti in cui ripercorre, punteggiandole di ritratti, ricordi e riflessioni, tutte le sue esperienze di scrittura, a partire da Olive Kitteridge (Fazi) fino al nuovo libro Tutto è possibile (Einaudi). Seguono le firme dello spagnolo Arturo Pérez-Reverte, che racconta quel simpatico scorretto e amorale che è il suo personaggio, la spia franchista Lorenzo Falcó ne Il codice dello scorpione (Rizzoli); e quella dell’indonesiano Eka Kurniawan, autore di La bellezza è una ferita (Marsilio), che ricorda per «la Lettura» la figura del padre, e una storia di famiglia che incarna e riflette in modo singolare quella di un intero Paese.
Tra le pagine del supplemento, ancora, si scopre l’intervista alla scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, anche lei attesa al festival mantovano, che spiega a Serena Danna come vorrebbe fosse ripensato il concetto di mascolinità; e il dialogo con Marianne Leone, volto noto della serie I Soprano , che racconta ad Alessia Rastelli il suo toccante memoir Jesse (Nutrimenti), sul figlio tetraplegico scomparso a 17 anni; per continuare con l’ampio dialogo con lo scrittore Yu Hua, in cui uno dei più rappresentativi autori cinesi d’oggi (che chiuderà il Festivaletteratura domenica 10: il suo romanzo Il settimo giorno è appena uscito per Feltrinelli) racconta a Marco Del Corona il proprio sguardo metaforico sul suo Paese. E poi il colloquio di Cristina Taglietti con Daniel Pennac (che sarà in scena a Mantova domenica 10) con il suo ricordo del grande fotografo Robert Doisneau.
Molti altri sono gli spunti e gli interventi nel nuovo numero. Ad esempio, ci offre le sue riflessioni sul tema degli incipit letterari Alessandro Piperno, che sull’argomento interverrà sabato 9 settembre al Festival della Comunicazione di Camogli: un’analisi acuta, e però giocata sul filo dell’ironia, intorno alle caratteristiche (e ai segreti del mestiere) che danno all’attacco di un romanzo un tono confidenziale o cinematografico, oppure addirittura sapienziale, con tanto di esempi commentati. Mentre Matteo Persivale anticipa la nuova storia di John le Carré, ottantaseienne maestro della spy story che uscirà negli Stati Uniti il 5 settembre facendo tornare in campo l’agente Smiley, quello de La spia che venne dal freddo .
E infine, nelle pagine del supplemento c’è un’altra esclusiva, questa volta artistica. Milo Manara, protagonista di una mostra antologica a Bologna raccontata da Vincenzo Trione, ci propone a tutta pagina una delle sue icone femminili: un inedito che il disegnatore ha realizzato appositamente per questo numero de «la Lettura» e che si ispira alla figura intramontabile di una bellissima dello schermo...

il manifesto 2.9.17
La Storia senza schermi interattivi
Luoghi. «Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz», un denso saggio di Piotr M. A. Cywinski. Il direttore del museo-memoriale sarà in Italia, ospite al Festivaletteratura di Mantova
di Lia Tagliacozzo

Auschwitz è un luogo che ci interroga: è stato il più grande campo di sterminio industrializzato della Germania nazista. E pone, oggi, domande immense: tentare di farne un elenco interpella il nostro essere uomini e donne, la storia d’Europa, la coscienza individuale, la vita presente e le responsabilità future. Oggi un aiuto a formulare domande e ipotesi di risposte lo offre Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz (Bollati Boringhieri, pp. 148, euro 15) di Piotr M. A. Cywinski che dal 2006 è direttore del museo-memoriale di Auschwitz-Birkenau e che l’8 settembre sarà fra gli ospiti di Festivaletteratura di Mantova (ore 17, Palazzo del Seminario Vescovile – Auditorium). Il libro è tradotto e curato da Carlo Greppi che ne scrive anche una bella postfazione rivolta al pubblico italiano.
Non c’è una fine è un volume che non esaurisce temi e domande ma che pure lenisce il travaglio di chi sente di doversi confrontare con l’anus mundi della «civile» Europa che in quel luogo ha perso, definitivamente, la sua innocenza.
UN LIBRO deliberatamente di parte, scritto da uno che «rimane qui»: «Ai visitatori servono quattro ore per visitare Auschwitz, a volte un po’ di più. Noi invece restiamo qui. Vediamo Auschwitz giorno dopo giorno, nella neve, alla luce del sole, nella foschia del mattino, prima delle vacanze, nel giorno del nostro compleanno, subito dopo la nascita di nostro figlio o al ritorno dal funerale di qualcuno a noi caro». Poche righe più avanti, spiega come «a noi nessuno domanda al rientro a casa come abbiamo passato la giornata». Vi è in questo una qualche saggezza: «In fin dei conti, non tutto deve essere detto. Proprio come non tutto deve essere sentito.
Occhiali ritrovati ad Auschwitz
CI SONO VERITÀ che non aumentano affatto la nostra conoscenza. Al contrario ci avvelenano». Ed è la riflessione su verità, autenticità e conoscenza che accompagna per intero la lettura del libro.
In un itinerario tra molte domande il volume ragiona, con garbo e inquietudine, su cosa sia Auschwitz oggi e sul perché milioni di persone vi si rechino ogni anno: «dopotutto, sappiamo cosa è successo ad Auschwitz e non ci sono sconosciuti i nomi di altri luoghi – scrive Cywinski – come Treblinka, Mauthausen, Buchenwald, Dachau o Gross-Rosen. I fatti li conosciamo dai libri, dai manuali, dagli insegnanti. Tuttavia crediamo che ad Auschwitz saremo in grado di capire qualcosa di più». La potenza di quel luogo interroga ancora se oltre cinquanta milioni di persone vi si sono recate in visita, omaggio e ricordo nel corso degli anni. Le pagine del libro non risparmiano domande, a nessuno.
CIASCUNO, in virtù della propria formazione culturale, politica o umana può trovarvi e aggiungere le proprie. Quello che è certo – prosegue Cywinski – è che «stando ad Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione, giudichiamo l’umanità. Di conseguenza giudichiamo noi stessi». Una questione di inizio è perché proprio Auschwitz abbia finito con il rappresentare l’intero dramma della Shoah – la distruzione sistematica degli ebrei – quando in realtà non è così. La Shoah infatti non si esaurisce nello sterminio industrializzato – le stragi di massa e le fosse comuni nell’Europa orientale ebbero altra storia, altre date e, in parte, altri protagonisti – come Auschwitz non esaurisce tutta la sua storia «solo» nella Shoah: fu il punto centrale di un sistema concentrazionario con fabbriche e campi di lavoro. Ed è questo uno dei motivi per cui ne conosciamo meglio la storia: in quanto campo di lavoro vi furono più sopravvissuti. Eppure «di tutti i maggiori centri di assassinio di massa, solo Auschwitz è sopravvissuta in una forma che si mostra ancora decifrabile. Gli altri luoghi furono smantellati, distrutti e alterati al punto da essere irriconoscibili (…) per questa ragione Auschwitz come sito memoriale iniziò ad essere visitato regolarmente da capi di stato, primi ministri e leader religiosi. Divenne il centro simbolico di un tutto molto più grande ed esteso».
La riflessione di Cywinski non si sclerotizza nel simbolo e cerca di andare oltre. Nella memoria pubblica vi è un’evidenza che rimane celata: nell’immaginario collettivo Auschwitz è rappresentato dal filo spinato, dalle torrette di guardia, dall’immondo cancello con la scritta «il lavoro rende liberi». Lo scopo del museo-memoriale è esattamente il contrario di quella rappresentazione stereotipata: è invece ricordare le persone. «Le persone comuni che vennero assassinate in questo Luogo. Senza questa consapevolezza il lavoro diventerebbe simile a quello che si fa in qualsiasi museo o sito archeologico», perché è incontrare lo sguardo delle vittime che costringe ad affrontare l’immensità dello sterminio. Per questo, spiega ancora Cywinski, «la narrazione della memoria qui coincide prima di tutto con il Luogo». Il Luogo – la maiuscola è di Cywinski – è lo spazio fisico attraversato da quelle vittime, non simbolo ma consistenza. «La voce dei sopravvissuti e il Memoriale sono i due maggiori pilastri della narrazione di Auschwitz. Si sostengono l’un l’altro. Uno sarebbe più debole senza l’altro».
LA PRESENZA FISICA del visitatore che si aggira tra i resti tangibili del campo mette a confronto «l’immaginazione disorientata con l’inflessibile realtà». «Le parole e il Luogo si sostengono a vicenda per creare un tutt’uno. Queste due realtà sono tutto ciò che abbiamo, e non avremo mai niente di più». Ed è intorno a quel Luogo che il volume si dipana: non tanto su cosa sia stato ma su cosa debba essere oggi.
Il libro affronta alcune delle antinomie che la riflessione su Auschwitz pone – quella tra storia e memoria per esempio – e affronta con determinazione il dilemma tra conservazione e innovazione: i chilometri di filo spinato devono essere sostituiti ogni dozzina di anni. «Qualcuno protesta sostenendo che non si dovrebbe installare del filo spinato moderno in un luogo in cui il paradigma è l’autenticità. Invece si può e deve essere fatto. Diversamente, Auschwitz sarebbe circondata da migliaia di pali di cemento isolati. I visitatori non capirebbero come le SS avevano diviso il campo in settori delimitati: si troverebbero davanti soltanto un’incomprensibile foresta di pali». Diverso il dramma posto dalla conservazione delle tonnellate di capelli che si vanno deteriorando. Ipotesi di restauro si sono alternate a quelle di seppellirle: per il momento si è deciso di conservarle così come sono, senza interventi. «Credendo fortemente nella potenza evocativa del Luogo stesso sono convinto che l’opzione più sensata sia il minimalismo. Proprio come il silenzio è spesso il miglior compagno di una visita».
RITORNA SPESSO tra le pagine un appello cocente alla conservazione del Luogo senza trasformarlo in una sorta di parco multimediale sulla Shoah. L’aspetto didattico, le visite con l’audioguida aiuterebbero una maggiore comprensione del Luogo? La risposta di Cywinski è decisa: «Le persone non vengono qui per vedere lo schermo più interattivo del mondo. Se uno schermo del genere venisse installato intralcerebbe l’esperienza che è la cosa più importante. Nasconderebbe la verità e per questo dovrebbe essere rimosso». Resta, almeno, una questione in sospeso: in alcuni punti di Birkenau sul terreno vi sono piccoli oggetti bianchi che paiono sassolini. Si tratta di frammenti di ossa. Che farne? Concedere sepoltura e riposo? Come non comprendere l’angoscia degli ebrei ortodossi che li vedono? «Le persone si trovano a confrontarsi con un enorme problema: cosa fare per ossequiare la Legge in un luogo dove è stata trascurata. In altre parole come normalizzare qualcosa che è decisamente insolito».
La risposta migliore «è che questo luogo non deve essere normalizzato. La differenza è tra impossibilità e divieto. Nessuno ha diritto di normalizzare questo Luogo. Ma non è più una risposta religiosa. È un’affermazione ideologica».
È possibile effettuare una sepoltura ma quei resti perderebbero il loro significato: «Sarebbero arrivate la pace e la quiete; qualcosa di buono nel caso di altre morti, ma insostenibile qui».

Corriere 2.9.17
Genesi dello spirito longobardo alle radici del nostro Medioevo
di Francesca Bonazzoli

Il documento storicamente più importante è il celebre Editto di Rotari, redatto in latino nel 643 fra le mura del monastero di Bobbio, che all’epoca fungeva da cancelleria della reggia di Pavia. Le pagine di pergamena sono arrivate da San Gallo, in Svizzera, e appaiono macchiate e bruciacchiate, ma sono la prima raccolta scritta delle leggi dei Longobardi, popolo che prima di arrivare in Italia non conosceva la scrittura.
Fra i reperti più lussuosi, invece, ci sono i calici in vetro colorato a forma di corno rinvenuti nelle tombe di duchi sepolti a Cividale del Friuli, Ascoli Piceno e Nocera Umbra. E poi monili d’oro arricchiti di paste di vetro colorato; pedine d’avorio di un gioco della dama; pettini, pugnali e spade, così importanti per un popolo guerriero, la più preziosa delle quali, ritrovata a Nocera Umbra e eletta a logo della mostra, ha l’impugnatura d’oro lavorata con le tipiche decorazioni ad onde geometriche dei popoli barbari.
Sono oltre 300 le opere esposte provenienti da 80 musei e 58 corredi funerari per un totale di 32 siti longobardi rappresentati. L’umile vita quotidiana del popolo dalle lunghe barbe si dispiega accanto a quella aristocratica di palazzo in otto sezioni tematiche per raccontare la storia di un’etnia che, nata seminomade, sognò di fermarsi finalmente in Italia acquisendo a poco a poco lingua, religione, leggi e cultura dei romani, a loro volta già occupati dai Goti.
«Insediamenti e necropoli erano dapprima separati. Del resto i Longobardi erano pochi, forse solo 150 mila individui e famiglie che si stanziarono in città e castelli strategici per il controllo del territorio esteso fino a Benevento», spiega Caterina Giostra, collaboratrice scientifica della mostra. «Ma dopo secoli persino i caratteri fisici si ibridizzarono, come scopriamo dai ritrovamenti delle tombe».
Anche dai numerosi monili esposti (anelli, collane, orecchini, fibbie e decorazioni di cinture) possiamo registrare la graduale trasformazione dal gusto germanico dei primi tempi, caratterizzato da una predilezione per figure di animali astratti e scomposti, alle forme più armoniose e alle iconografie del mondo cristiano e romano. E se a Povegliano Veronese è stato ritrovato uno dei reperti che più piaceranno ai bambini, e cioè l’impressionante scheletro di cavallo sepolto accanto a due cani, testimonianza dei riti pagani con il sacrificio dell’animale più caro accanto al suo guerriero, in un’altra tomba a fianco del cavallo fu deposta una croce cristiana in lamina d’oro.
Tuttavia, per riuscire a insinuarsi nell’incrinatura del sistema bizantino, che aveva ingaggiato un ventennale conflitto contro i Goti, e per conquistare con una serie di guerre lunga due secoli un pezzo di territorio dopo l’altro fino a controllare due terzi dell’Italia, gli invasori dovevano mantenere una forte identità etnica, legata all’esercito.
«La tesi della mostra è dimostrare che resistette a lungo», spiega Gian Pietro Brogiolo, curatore della rassegna assieme a Federico Marazzi. «Per i Longobardi i romani rimasero i nemici. Esiste un’identità longobarda che persiste fino alla fine del VII secolo per esigenze di coesione interna, indispensabile per mantenere uno stato di belligeranza continuo». Per esempio, racconta Brogiolo, il diritto longobardo dell’Editto di Rotari conviveva con quello romano e si applicava alla sola popolazione occupante. Ancora nel VII secolo, verso la fine del regno longobardo, Liutprando ammetteva che il sistema del duello per redimere le controversie non assegnava necessariamente la vittoria al giusto, bensì al più forte. Ma, diceva, non era possibile cambiare quella legge perché apparteneva alla tradizione del loro popolo.
I video e le didascalie che accompagnano ogni sezione della mostra aiutano il visitatore a districarsi anche fra le questioni religiose, con le divisioni fra il culto ariano e cattolico, che furono fondamentali nel processo di integrazione e conquista.
Dalla quinta sezione, quando si affronta l’introduzione della scrittura da parte di un popolo che era stato barbaro fra i più barbari, di quelli, cioè, che non avevano avuto contatti diretti con l’Impero romano, si passa dal racconto della vita quotidiana, a quello sulla gestione del potere che culmina con la fondazione e il controllo dei monasteri.
«Nei due secoli di dominio, una delle trasformazioni più radicali è la conversione al cristianesimo», riassume Caterina Giostra. «L’arrivo dei Longobardi rappresentò una rottura violenta nella continuità della lunga storia romana e una novità dirompente anche rispetto all’invasione dei Goti che si erano posti come continuatori dell’Impero. Però, dopo lo strappo, la loro presenza creò le premesse per la ricucitura di un nuovo tessuto alla base del nostro Medio Evo».

Corriere 2.9.17
Ora non sono più una parentesi della nostra storia
di Claudio Azzara

Il periodo della storia d’Italia caratterizzato dalla presenza dei longobardi, dall’anno della loro migrazione, il 568 o il 569, a quello della fine del loro regno, il 774, con la significativa prosecuzione nei principati di Benevento e di Salerno addirittura fino al secolo XI, si è prestato come pochi altri a letture deformate, preconcette e anacronistiche sia negli studi specialistici sia nella cultura più diffusa della nostra nazione. Del resto, esso offre una varietà di temi che di volta in volta ben si sono prestati a suscitare vaste risonanze e a suggerire confronti con il presente: la frantumazione politica della penisola, fra longobardi e bizantini, iniziata allora e destinata a ricomporsi solo con il Risorgimento; il rapporto fra un’etnia immigrata minoritaria ma dominante e una larga maggioranza romana ridotta a uno stato di subordinazione; infine, il primo esercizio di un esplicito ruolo politico da parte del papato a difesa della romanità cristiana, contro i longobardi, fino alla chiamata nella penisola dei franchi di Carlo Magno. Così, ad esempio, negli ambienti cattolico-liberali antiasburgici dell’Ottocento è risultata prevalente l’interpretazione, riecheggiata in letteratura dall’ Adelchi di Manzoni, che accostava, con un cortocircuito cronologico, la lontana sottomissione dei romani ai longobardi a quella di molti italiani del secolo XIX agli austriaci, esaltando l’intervento allora compiuto dai pontefici per la salvezza delle genti italiche. All’opposto, secoli prima, Machiavelli aveva lamentato come la fine del regno longobardo avesse rappresentato l’occasione mancata di una precoce unificazione politica della nostra nazione, inaugurando piuttosto la consuetudine delle ingerenze papali nelle vicende italiche e degli interventi di popoli stranieri (al tempo, i franchi) sul nostro suolo. Insomma, siano stati visti quali potenziali artefici di un regno «italiano» unitario già in pieno medioevo, oppure, al contrario, come un corpo estraneo, «germanico», rispetto alla più genuina identità nazionale d’impronta romana, mai assimilato e infine rimosso dall’iniziativa della Chiesa, i longobardi non hanno quasi mai beneficiato di una valutazione storicamente obiettiva e scientificamente fondata. È dalla metà del ‘900 che la vicenda longobarda è stata ricondotta a un quadro più ampio della sola storia nazionale, e affrancata dalla secca contrapposizione fra la «barbarie» germanica e la «civilitas» romano-cristiana, offrendosi piuttosto quale significativo caso di incontro fra tradizioni diverse su una scala europeo-mediterranea. Oggi i secoli dell’Italia longobarda vengono riletti come un processo di integrazione fra la cultura dell’etnia immigrata e quella della popolazione autoctona fino alla creazione di una società nuova e originale. I longobardi non figurano più come una parentesi nel fluire dalla storia patria, ma come un tassello costitutivo della stessa, che ha lasciato il suo contributo (quantitativamente inferiore ad altre esperienze, ma non irrilevante) alla nostra assai composita identità, da varie tracce linguistiche, toponomastiche, artistiche, alla lunga persistenza del diritto dei longobardi, almeno in alcune materie, fino alle soglie dell’età moderna. E il recente riconoscimento da parte dell’Unesco del sito seriale I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.), che tutela sette monumenti longobardi in diversi luoghi, dal Friuli alla Campania, ha ulteriormente legittimato la cura della memoria dei longobardi all’interno dell’immenso patrimonio storico e culturale italiano. *Docente all’Università di Salerno e autore de I Longobardi (Il Mulino)

Corriere
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Il quell’agosto del 1917, la rinascita dei bolscevichi
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