sabato 2 settembre 2017

Corriere 2.9.17
Le sedute di psicanalisi del giovane Bergoglio e la Chiesa che perde l’esclusiva del conforto
di Pierluigi Battista

La rivelazione: a 42 anni si rivolse a una terapeuta
Dunque viene confermata un’altra intuizione di Nanni Moretti suggerita in «Habemus Papam». La prima era la profezia delle dimissioni di papa Ratzinger, rappresentata con qualche anno di anticipo dal cardinale interpretato nel film da Michel Piccoli, piegato e tormentato da una responsabilità per lui insopportabile, talmente insopportabile da indurlo a una clamorosa, e dolorosa, rinuncia. La seconda intuizione trova riscontro nella rivelazione dello stesso papa Francesco in un libro di prossima pubblicazione in Francia di aver cercato sostegno e cura tutte le settimane per sei mesi con una psicanalista ebrea.
Aveva 42 anni, il Bergoglio non ancora Papa in terapia analitica. Ma è difficile non pensare al Pontefice appena eletto da un Conclave ispirato dallo Spirito Santo che nel film di Moretti, in fuga dal Vaticano e travolto dall’angoscia, si rivolge in incognito alla psicanalista Margherita Buy per arginare le sofferenze di un implacabile «deficit di accudimento».
E il cinema e la letteratura, del resto, dicono con forme espressive di grande efficacia immaginativa ciò che riesce difficile ammettere nella vita ordinaria, e non solo nell’immenso gregge dei credenti: e cioè che i sacerdoti, e lo stesso Papa, sono anche loro creature umane tormentate dalle debolezze, dal senso di inadeguatezza che perseguita il cardinale che non se la sente di salire al Soglio pontificio di «Habemus Papam» scritto da Moretti insieme a Federica Pontremoli e Francesco Piccolo, dal dolore di una perdita, di un abbandono, di una atroce vergogna del disamore che tortura The Young Pope interpretato da Jude Law nella serie di Paolo Sorrentino.
E fino a qui la scoperta potrebbe anche non essere sconvolgente. Ma non è scontato, e la confessione di papa Francesco ne è una conferma esplicita, che i dolori, i tormenti, la fatica del vivere, il disagio disertino il lessico della fede in senso stretto da parte di chi addirittura dovrebbe custodirne il deposito in questa valle di lacrime per abbracciare le categorie e le liturgie, proprio di liturgie si tratta in qualche modo, della scienza psicanalitica. E non è solo perché il lascito di Sigmund Freud è sempre stato liquidato come inammissibile ed eretica deviazione di tipo «pansessualistico» nella descrizione della condizione umana. O anche perché l’avversione della Chiesa verso la psicanalisi, solo parzialmente bilanciata dall’attenzione critica ma non demolitoria di un Papa intellettuale come Paolo VI, è sfociata addirittura nel 1962, in un «Monito» del Sant’Uffizio che impediva tassativamente ai sacerdoti più esposti alle tempeste della vita di ricorrere alle terapie messe a punto da Freud o da altre scuole psicanalitiche. Ma soprattutto perché questo ricorso alla psicanalisi testimonia di un’incertezza culturale, una non granitica fiducia sulla solidità di un’intera tradizione in cui la Chiesa, sostenuta da intere legioni di confessori, preparatori spirituali, docenti di seminari, maestri di dottrina, è letteralmente la «pietra» su cui si regge un edificio che ha resistito alle intemperie mondane di secoli e millenni.
Un edificio in cui la sofferenza, il tormento, il disagio psichico trovavano nei ministri della fede, e figuriamoci se poteva mancare il sostegno più prezioso e più prestigioso nel vertice papale, una risposta, un rimedio, una medicina, un conforto spirituale.
Questa pretesa di esclusività esistenziale sulle questioni della vita e della psiche umana, come raccontano i film di Moretti e Sorrentino, è semplicemente venuta meno. E il ricorso a pratiche su cui la Chiesa ha esercitato da sempre la cultura del sospetto parla di un cattolicesimo, certamente più aperto agli influssi del mondo ma anche meno saldamente certo di sé.
L’inconscio, si diceva negli ambienti più conservatori della Chiesa, è la voce del demonio. Molto è cambiato, nel frattempo. Già quando il Papa non era ancora Papa, ma la psicanalisi aveva già vinto la sua battaglia.D’Alema: una volta si pensava a salvare ora a respingere Il patto con la Libia? Grande cinismo
LIVORNO È stato un suo ministro, Marco Minniti, e un compagno di partito già ai tempi del Pci e Massimo D’Alema non nega le doti dell’uomo e la sua capacità di stare fuori dalle correnti. «È tecnicamente bravo e si è sempre occupato di sicurezza», spiega durante un’iniziativa organizzata da Mdp a Livorno. Ma sull’immigrazione e l’accordo con la Libia non risparmia le critiche. «Siamo passati da una politica nella quale la priorità era salvare le persone a un’altra in cui la priorità è respingerle. Minniti ha firmato un accordo simile a quello che sottoscrisse Berlusconi con Gheddafi e che precedentemente il governo Prodi aveva respinto perché non dava garanzie sui diritti umani».
Secondo D’Alema, fermando i flussi dei migranti in mare aumenta enormemente il numero delle persone che muoiono nel deserto. «E quelli che riescono ad avvicinarsi alla costa sono rinchiusi dai libici in campi di concentramento nei quali non esistono diritti e le donne vengono violentate. È stato fatto un accordo facendo finta di non guardare, con grande cinismo». Infine una stoccata al segretario del Pd: «Quando Renzi parla di aiutare i migranti a casa loro dice una cosa falsa. Noi non li aiutiamo a casa loro ma diamo soldi ai libici per fermarli nel deserto e rinchiuderli in campi di concentramento».