il manifesto 19.9.17
Il Venezuela si ribella al petrodollaro
di Manlio Dinucci
«A
partire da questa settimana si indica il prezzo medio del petrolio in
yuan cinesi»: lo ha annunciato il 15 settembre il Ministero venezuelano
del petrolio. Per la prima volta il prezzo di vendita del petrolio
venezuelano non è più indicato in dollari.
È la risposta di
Caracas alle sanzioni emanate dall’amministrazione Trump il 25 agosto,
più dure di quelle attuate nel 2014 dall’amministrazione Obama: esse
impediscono al Venezuela di incassare i dollari ricavati dalla vendita
di petrolio agli Stati uniti, oltre un milione di barili al giorno,
dollari finora utilizzati per importare beni di consumo come prodotti
alimentari e medicinali. Le sanzioni impediscono anche la compravendita
di titoli emessi dalla Pdvsa, la compagnia petrolifera statale
venezuelana.
Washington mira a un duplice obiettivo: accrescere in
Venezuela la penuria di beni di prima necessità e quindi il malcontento
popolare, su cui fa leva l’opposizione interna (foraggiata e sostenuta
dagli Usa) per abbattere il governo Maduro; mandare lo Stato venezuelano
in default, ossia in fallimento, impedendogli di pagare le rate del
debito estero, ossia far fallire lo Stato con le maggiori riserve
petrolifere del mondo, quasi dieci volte quelle statunitensi.
Caracas
cerca di sottrarsi alla stretta soffocante delle sanzioni, quotando il
prezzo di vendita del petrolio non più in dollari Usa ma in yuan cinesi.
Lo
yuan è entrato un anno fa nel paniere delle valute di riserva del Fondo
monetario internazionale (insieme a dollaro, euro, yen e sterlina) e
Pechino sta per lanciare contratti futures di compravendita del petrolio
in yuan, convertibili in oro. «Se il nuovo future prendesse piede,
erodendo anche solo in parte lo strapotere dei petrodollari, sarebbe un
colpo clamoroso per l’economia americana», commenta il Sole 24 Ore.
Ad
essere messo in discussione da Russia, Cina e altri paesi non è solo lo
strapotere del petrodollaro (valuta di riserva ricavata dalla vendita
di petrolio), ma l’egemonia stessa del dollaro. Il suo valore è
determinato non dalla reale capacità economica statunitense ma dal fatto
che esso costituisce quasi i due terzi delle riserve valutarie mondiali
ed è la moneta con cui si stabilisce il prezzo del petrolio, dell’oro e
in genere delle merci. Ciò permette alla Federal Reserve, la Banca
centrale (che è una banca privata), di stampare migliaia di miliardi di
dollari con cui viene finanziato il colossale debito pubblico Usa –
circa 23 mila miliardi di dollari – attraverso l’acquisto di
obbligazioni e altri titoli emessi dal Tesoro. In tale quadro, la
decisione venezuelana di sganciare il prezzo del petrolio dal dollaro
provoca una scossa sismica che, dall’epicentro sudamericano, fa tremare
l’intero palazzo imperiale fondato sul dollaro.
Se l’esempio del
Venezuela si diffondesse, se il dollaro cessasse di essere la principale
moneta del commercio e delle riserve valutarie internazionali, una
immensa quantità di dollari verrebbe immessa sul mercato facendo
crollare il valore della moneta statunitense.
Questo è il reale
motivo per cui, nell’Ordine esecutivo del 9 marzo 2015, il presidente
Obama proclamava «l’emergenza nazionale nei confronti della inusuale e
straordinaria minaccia posta alla sicurezza nazionale e alla politica
estera degli Stati uniti dalla situazione in Venezuela».
Lo stesso
motivo per cui il presidenre Trump annuncia una possibile «opzione
militare» contro il Venezuela. La sta preparando lo U.S. Southern
Command, nel cui emblema c’è l’Aquila imperiale che sovrasta il Centro e
Sud America, pronta a piombare con i suoi artigli su chi si ribella
all’impero del dollaro.