domenica 17 settembre 2017

il manifesto 17.8.17
Apuleio, quanti agganci nel romanzo iniziatico
Classici pop. Le «Metamorfosi» o «Asino d’oro» sono l’unico romanzo latino giunto a noi integro. Franco Pezzini, da Odoya, ne ripercorre le molte «reincarnazioni», dal Medioevo a Manara a Paolo Poli
di Paolo Lago

Il fascino esercitato dalle Metamorfosi (o Asino d’oro, utilizzando l’indicazione offerta da Sant’Agostino) di Apuleio (II secolo d. C.) è assai vasto: non solo perché si tratta dell’unico ‘romanzo’ latino giunto per intero fino a noi – il Satyricon di Petronio, purtroppo, ci è pervenuto in forma frammentaria – ma anche perché è un’opera letterariamente complessa e raffinata. Si tratta infatti di un romanzo ‘iniziatico’, denso di riferimenti ai misteri religiosi del culto orientale di Iside – stando soprattutto all’interpretazione di Reinhold Merkelbach – ma la sua narrazione deve molto anche a un background più ‘basso’, come le fabulae Milesiae di Aristide di Mileto (salaci novelle di carattere erotico) a cui lo stesso autore riconduce la propria opera, e a tutta una tradizione novellistica nata soprattutto per delectare, per divertire. Si tratta, inoltre, anche e soprattutto di un romanzo di viaggio: la storia è incentrata infatti sulle peripezie del protagonista Lucio, in viaggio in Tessaglia, regione greca nota per streghe e magia (quasi una Transilvania del mondo antico), il quale, avvicinatosi incautamente agli incantesimi di una strega, si ritrova tramutato in asino. Sotto la veste asinina, poi, il personaggio viene condotto, dai più svariati padroni, da un capo all’altro della Grecia, fino a ritrovarsi a Corinto dove, durante una processione sacra a Iside, riuscirà a cibarsi delle rose necessarie per ritrasformarsi in uomo.
Sul romanzo di Apuleio è uscito recentemente un interessante volume di Franco Pezzini nella collana «I classici pop» di Odoya: L’importanza di essere Lucio Eros, magia e mistero ne L’asino d’oro di Apuleio (pp. 332, € 20,00). La collana in questione, curata dallo stesso Pezzini, si pone come «una rilettura divertente e accattivante dei classici» perché «se li chiamiamo “classici” un motivo ci sarà: letti a distanza di tanto tempo non solo mantengono freschezza, ma ci interpellano concretamente, offrono macchine per pensare e fantasia per costruire». L’autore (che per Odoya ha pubblicato anche un denso volume su misteri e curiosità della Londra vittoriana, costituito principalmente dai suoi interventi su «Carmillaonline», riscritti per l’occasione) ci «invita a riprendere in mano l’opera originale senza sostituirsi ad essa, come un amico che racconta una storia suscitando in noi il desiderio di rileggerla». Pezzini ci guida con intelligenza e rigore attraverso le pagine di Apuleio attuando, dietro ogni angolo, cortocircuiti sorprendenti e inaspettati con l’universo moderno e contemporaneo. Il libro di Pezzini, infatti – come lo stesso romanzo di Apuleio, caratterizzato da numerose novelle inserite che aprono diverse digressioni narrative – offre una svariata gamma di digressioni verso altri ‘orizzonti’, realizzate per mezzo di microparagrafi a tema inseriti nel testo. Questi ultimi costituiscono tante vie di ‘uscita’ dall’universo apuleiano per correre rapidamente verso suggestioni di carattere antropologico, storico, sociale relative al mondo antico in generale, nonché verso diversi ‘agganci’ con la contemporaneità, siano essi la riscrittura del romanzo sotto forma di graphic novel realizzata da Milo Manara o la rappresentazione teatrale messa in scena da Paolo Poli, oppure le peripezie sotto veste asinina di Pinocchio, le cui vicende di metamorfosi trovano nell’opera di Apuleio una sicura fonte di ispirazione.
Degni di nota, inoltre, sono i disegni ispirati al romanzo realizzati dallo stesso Pezzini che, insieme a molte altre illustrazioni, accompagnano il testo in una tensione continua verso l’immagine, grazie anche ai numerosi rimandi alle arti figurative presenti nel saggio. Sempre con un occhio di riguardo per le scintillanti invenzioni linguistiche del testo (oggetto di un recente articolo di Monica Longobardi, già autrice di una innovativa traduzione del Satyricon), l’autore pone l’accento sul carattere di metamorfosi continua che – oltre a essere presente come tema principale – investe le vicende e le figure. Infatti, oltre a riproporre diversi personaggi che, per la loro caratterizzazione, appaiono simili ad altri già incontrati in precedenza, il testo di Apuleio, secondo Pezzini, offre un continuo ribaltamento metamorfico delle avventure, in modo da stravolgere le ‘banali’ aspettative del lettore. Lo stesso romanzo, poi, nel corso del tempo si è per così dire metamorfizzato nelle vesti di novella medievale e rinascimentale, di fiaba romantica, di traduzione, di opera teatrale, di film. E adesso infine, nelle vesti di questo intelligente ‘racconto’ critico.

Il Fatto 17.9.17
La politica non è per gli ignoranti
Per Carlo Azeglio Ciampi studiare Filologia classica o guidare la Banca d’Italia “è la stessa cosa”. Serve disciplina intellettuale, rispetto dei documenti e ricerca della verità. Valori e metodi di cui oggi i leader sono purtroppo privi
di Salvatore Settis

Normalista dal 1937 al 1941, Ciampi si laureò a Pisa in Filologia classica. Suoi maestri furono il grande filologo Giorgio Pasquali e la papirologa Medea Norsa; fra i suoi compagni di corso c’era Scevola Mariotti, altro grande filologo che sarebbe stato suo amico di una vita.
Della Norsa, Ciampi ricordava le sofferenze dovute alle leggi razziali, ma anche la generosità di Gentile, che nel 1939 pubblicò con lo stemma della Normale (di cui era allora direttore) un volume della Norsa che un editore fiorentino aveva bloccato in ultime bozze per ragioni di “razza”. La tesi di Ciampi era dedicata a Favorino, un retore di lingua greca del II secolo d.C., amico di Plutarco e attivo anche alla corte dell’imperatore Adriano, con cui ebbe però un contrasto finendo poi in esilio. Favorino commentò allora : “È davvero stupido criticare qualcuno che ha al suo servizio trenta legioni”. Il testo a cui è dedicata la tesi di Ciampi è una sorta di auto-consolazione filosofica “sull’esilio”, dove tra l’altro viene affermata un’idea di “patria” non come luogo di nascita, ma d’elezione: per Favorino, nato ad Arles, la vera patria era Roma, con la sua vita culturale multilingue e incomparabile.
Dopo la formazione filologica e malgrado la passione per l’insegnamento, la guerra impresse alla vita di Ciampi tutt’altro corso. Ma l’imprinting filologico della Normale non fu mai dimenticato, e lo mostra un episodio del 6 dicembre 2000, quando, da Presidente, Ciampi venne in Normale in visita ufficiale. Egli volle allora incontrare i normalisti, e per un’ora si intrattenne a colloquio con essi con grande cordialità, tanto che qualche allievo della Scuola si prese qualche confidenza forse eccessiva, a cui Ciampi reagiva divertito. Un normalista chiese al Presidente : “Ma come mai Lei, che ha studiato filologia classica, è poi passato alla Banca d’Italia?”. Ciampi, fattosi serio senza perdere il tono affabile di quella conversazione, rispose: “È la stessa cosa. Studiando filologia classica in Normale ho imparato una disciplina intellettuale, il rispetto dei documenti e la ricerca della verità: principî che mi hanno accompagnato alla Banca d’Italia, a Palazzo Chigi, al Quirinale”.
Ma che cosa intendeva Ciampi con quelle parole, che non erano una gratuita battuta, ma una professione di fede? Io credo che con quel suo “È la stessa cosa” Ciampi intendesse due valori diversi ma convergenti: la pienezza dell’impegno civile e la centralità della competenza specifica. Virtù, quando ci sono, ugualmente importanti per un filologo classico, per un Governatore della Banca d’Italia e per un Presidente del Consiglio o della Repubblica. La Normale, Ciampi lo ripeteva spesso, è scuola di vita anche perché il suo carattere competitivo impone ritmi di lavoro inconsueti, innescando abitudini fondate sull’intensità e la densità del lavoro, sulla serietà dell’impegno personale, su un’applicazione profonda ed esclusiva ai problemi che di volta in volta si studiano. Dal lavoro solitario del normalista in biblioteca al senso di responsabilità del cittadino che si mette al servizio della comunità, Ciampi vedeva una continuità necessaria, una comune esigenza morale.
Non meno importante era stata, nel contesto degli anni Trenta, l’orgogliosa rivendicazione che la filologia debba avere piena cittadinanza non solo come mera tecnica di costituzione dei testi, ma come strumento di interpretazione storica. Quando Pasquali aveva scritto sulla Nuova Antologia del 1931 un articolo sulla Paleografia quale scienza dello spirito, stava reagendo alla concezione crociana della filologia come “utile e servizievole”, ma “senza splendori”, poiché “la filologia non è la critica e non è la storia”, discipline che esigono, scrive Croce, “robustezza di coordinato pensiero”. Riassumendo anni dopo i termini di quella polemica, un altro grande maestro della Normale, Augusto Campana, definiva la paleografia, e con essa la filologia, come discipline “non semplicemente classificatorie, descrittive, meccaniche”, ma “miranti alla visione e ricostruzione di uno sviluppo storico, specchio e fattore della cultura in organica connessione con ogni altra componente di essa”: una forma di conoscenza piena e non ancillare.
La filologia come strumento e strategia per accostarsi non solo ai testi, ma ai problemi; non solo alla storia, ma alla realtà amministrativa e politica; non solo al passato, ma al presente. Questa concezione di Ciampi dava continuità alla sua vita di studio e di lavoro; era un’etica della competenza della quale sentiamo oggi più che mai il bisogno. L’idea che anche per chi fa politica e ha responsabilità di governo sia necessaria la minuta conoscenza dei fatti, la precisione delle informazioni, l’accuratezza nel comunicare ai cittadini quel che si sta facendo o quel che occorrerebbe fare: virtù che troppo spesso appaiono tramontate (speriamo non per sempre). Ci è toccato invece assistere, in questi anni, al trionfo dell’incompetenza, alla sagra delle chiacchiere. Non farò alcun nome ma citerò un solo episodio, per il suo valore esemplare: qualcuno, che ricopriva un’altissima carica di governo, pur essendo laureato in giurisprudenza scambiò impunemente un ordine del giorno in Costituente (l’odg Perassi, 4 settembre 1946) per una norma transitoria (inesistente) della Costituzione, e come tale la citò ripetutamente in pubbliche argomentazioni politiche, e a proposito di una proposta di riforma costituzionale. Altri esempi, credo, non occorrono: tutti siamo bersagli e vittime di un imperversante storytelling, secondo cui la verità dei fatti è irrilevante, e quel che importa non è se un’affermazione sia vera o falsa, ma quale beneficio apporta a chi la fa. Perciò ci tocca subire litanie di statistiche inventate o truccate senza alcuno scrupolo, e sentirle cambiare, o meglio improvvisare, da un giorno all’altro a seconda di scadenze elettorali o altre contingenze, e senza alcun rispetto per la verità; ci tocca vedere al tempo stesso la mortificazione di chi è competente, ma costretto a emigrare per mancanza di lavoro, e il trionfo arrogante di chi, pur senza sufficienti competenze specifiche, occupa posizioni di rilievo nelle pubbliche amministrazioni. Ci tocca, e davvero vien da chiedersi quousque tandem?, vedere sulla scena politica schieramenti basati sulle appartenenze e sulle convenienze, e non sull’analisi dei problemi e sulla competenza professionale; e in nome di meri giochi di potere abbiamo visto e vediamo sbriciolarsi i dati di fatto, sparire all’orizzonte la precisione e l’attendibilità delle analisi, svanire nel nulla il pubblico interesse. Il fermo richiamo di Ciampi alla filologia (cioè alla competenza) nell’esercizio della politica è qualcosa di cui l’Italia non ha mai avuto tanto bisogno come oggi. Se vogliamo ricordarlo senza cadere in tentazioni agiografiche, è a questa sua lezione morale che dobbiamo con altrettanta fermezza richiamarci, ripetendo senza sosta che la politica ha davvero bisogno di competenza, ha bisogno di filologia. Ne ha bisogno, oggi, più che mai.

Il Fatto 17.9.17
Ora che i dem sono la nuova Margherita. Rutelli si prende il palco dell’Unità
di Wa.Ma.

FrancescoRutelli è pronto a impegnarsi di nuovo in prima linea. E dopo l’uscita di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani considera il Pd molto più vicino alle sue posizioni di un tempo.
L’ex sindaco di Roma era uscito dal partito per fondare l’Api nel 2012. Ma adesso i Democratici, “epurati” dalla vecchia Ditta, da uno come lui potrebbero quasi essere considerati una specie di “margheritona”. E così, Rutelli, per la prima volta dopo tantissimi anni, ha deciso di salire di nuovo su un palco della Festa dell’Unità. Lo farà sabato 30 settembre a Roma, con Giovanni Floris. Parlerà a tutto campo di ambiente, politica e della situazione della Capitale.
Sembra proprio un ritorno in grande stile. Da ricordare che Rutelli era stato in lizza per la presidenza dell’Unesco ed è tuttora il presidente dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche).
Nel Pd ci sono ancora i suoi amici di un tempo, da Dario Franceschini e Paolo Gentiloni a Roberto Giachetti e Michele Anzaldi.
Rutelli, poi, è stato anche il “maestro” di Matteo Renzi. Il segretario del Pd gli fu presentato quando era presidente della Provincia nel 2009, come unn enfant prodige.
Negli ultimi anni, però, non sono mancate da parte sua critiche anche dure all’ex pupillo.

Repubblica 17.9.17
Proposta dell’assessore dem
“Fiori a partigiani e caduti Rsi”
Milano, Anpi contro il Comune
di Umberto Gentiloni

UNA proposta che suona come una sfida: mettere sullo stesso piano in una celebrazione ufficiale i caduti italiani che nello scorcio conclusivo della Seconda guerra mondiale hanno combattuto su fronti opposti. Avvicinare simbolicamente i luoghi, deporre fiori o corone con gesti simili che possano accostare destini e biografie così diverse.
L’intenzione sembrerebbe opposta, pacificante, ispirata da quella pietà per i morti che accomuna le vite spezzate di tanti ragazzi coinvolti nelle dinamiche della guerra civile. Ma come si può non vedere il risvolto pericoloso e fuorviante, la ricaduta immediata in termini di comprensione, di lacerazione di un tessuto comune, di offesa a una trama di relazioni che ha sostenuto una comunità nazionale? Proprio a Milano, medaglia d’oro della Resistenza e punto unificante e conclusivo della guerra di liberazione.
La scelta del 25 aprile come festa nazionale riconosce alla città una centralità non episodica nella conclusione del conflitto e nell’avvio della fase della ricostruzione. In questo modo, persino al di là delle intenzioni dell’assessore proponente si confondono piani e situazioni che non sono sovrapponibili. Le memorie sono distinte, inconciliabili e conflittuali. Da una parte chi ha combattuto per la libertà e la democrazia, chi ha scelto mettendosi in gioco di partecipare alla liberazione dal nazifascismo nella Resistenza simpatizzando o sostenendo la risalita degli eserciti alleati o compiendo semplici atti quotidiani di resistenza: offrire cibo, nascondere renitenti alla leva o cittadini di religione ebraica, difendere luoghi appartati dove nascondere vecchi o nuovi amici. Dall’altra chi ha perseguito fino alla fine le ragioni dell’ordine hitleriano, la possibilità che l’esito della guerra potesse premiare le potenze del’Asse in continuità con le politiche di Mussolini. Le ragioni sono le più diverse: geografiche, politiche, casuali dettate dalle contingenze o dai retaggi familiari. Ma la sostanza non muta, la comprensione del passato passa per la capacità di distinguere e contestualizzare. La pietà di fronte alla morte non può diventare un giudizio storico.
Le istituzioni hanno la responsabilità di trasmettere conoscenze, diffondere simboli e comportamenti, veicolare le ragioni che dal passato rafforzino i legami di una comunità. Non ha senso pensare di ricomporre memorie divise con scorciatoie strumentali: la conoscenza storica è la forma per condividere il passato, conoscerne i lati più complicati, raccogliere insegnamenti e moniti.

Repubblica 17.9.17
Carmela Rozza
L’autrice della proposta: “Ora non politicizziamo anche il 2 novembre”
“Pietà per tutti i morti ma nessuno mi dia lezioni di antifascismo”
di Alessia Gallione

MILANO. Al fuoco amico e alle accuse di avere posizioni considerate spesso come troppo “di destra” dall’ala sinistra della sua stessa maggioranza, Carmela Rozza del Pd sembra essere abituata. Ma questa volta l’assessora alla Sicurezza della giunta Sala dice di non volere essere «tirata per la giacchetta». E a chi l’ha criticata risponde: «Non prendo lezioni di antifascismo da nessuno ».
Assessora, ma che cosa le è venuto in mente? Onorare la memoria dei caduti della Repubblica di Salò?
«Ma io non l’ho mai neppure pensato. Ho solo proposto, e so che quello che dico non piacerà alla sinistra estrema né alla destra, di rispettare il momento della ricorrenza religiosa del 2 Novembre con una sola corona per tutti i morti di tutte le guerre».
Compresi quelli della Repubblica sociale del Campo 10 del cimitero Maggiore, però. Proprio il luogo dove il sindaco Sala da quest’anno non avrebbe più voluto deporre corone.
«E infatti sono totalmente d’accordo con il sindaco: non ho mai capito la ragione di quelle corone, che in passato sono sempre state messe. La pietas umana che dovrebbe essere riservata per tutti coloro che hanno perso la vita non ha niente a che fare con il giudizio storico e politico. Io ho ben chiaro chi ha lottato per la democrazia e chi ha difeso una dittatura».
Eppure l’Anpi esprime «sconcerto », l’Aned considera la sua proposta «offensiva».
«Guardi, sono d’accordo con il presidente dell’Anpi Cenati quando dice che la morte rende tutti uguali, ma in vita chi ha combattuto per la libertà e i repubblichini sono stati diversi».
Sta facendo marcia indietro?
«No, perché quello che penso e quello che ho proposto in giunta è esattamente questo».
Però parla di una «pacificazione », che anche all’interno della sua stessa giunta molti non sentono il bisogno di evocare.
«Quello della pacificazione è un altro tema. Ma io non accetto lezioni di antifascismo da nessuno e sono sempre stata convinta, non certo da oggi, che bisogna in tutti i modi impedire qualsiasi rigurgito. Sono scandalizzata dalla sentenza del magistrato di Milano che non ha considerato come apologia di fascismo il saluto romano di massa al Campo 10. Però penso anche che i morti sono morti e che verso tutti debba esserci pietà. Dico: non politicizziamo la commemorazione del 2 Novembre. La distinzione storica e politica facciamola il 25 Aprile e ogni altro giorno impedendo che sotto la veste della nostalgia idee pericolose riprendano piede ».
Non teme, visto che è quello che sta succedendo, che la sua proposta possa essere fraintesa o che chi va al Campo 10 possa sentirsi legittimato?
«No, anzi. La mia proposta vuole togliere un’arma alla destra che usa la pietà in modo strumentale facendone una bandiera ideologica per legittimare i gerarchi non ha armi. Io voglio togliere di mezzo l’equivoco».
Ma il sindaco Sala è d’accordo? Lo ha sentito?
«Questa è una mia opinione personale. Poi saranno il sindaco e la giunta a decidere».

Repubblica 17.9.17
Il declino strategico della Sinistra
di Piero Ignazi

LA RINUNCIA a presentare la legge sullo Ius soli dimostra che le dinamiche della politica italiana sono radicalmente cambiate dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre. Fino al quel momento avevamo un Pd trionfante, sicuro e orgoglioso di sé. Un Pd che governava quasi monopolisticamente a livello centrale e che controllava ancora molte regioni e città. Pur avendo subito alcune sconfitte a livello locale era ancora il dominus della politica italiana, quello che dirigeva, decideva ed, eventualmente, sanzionava. Il segretario- capo del governo assicurava quella unità di comando e di intenti che affascinava molti. Ma finché era vincente. Caduto nella polvere, il suo appeal presso l’opinione pubblica, soprattutto quella che più l’aveva blandito, svanì d’un colpo. Però la sconfitta non riguardava solo la leadership di Renzi. Investiva tutto il Pd. Non lo hanno capito gli inossidabili sostenitori del segretario, quasi un fan club, si direbbe, viste certe manifestazioni, e nemmeno gli oppositori interni, sfilatisi alla ricerca di una araba fenice che non volerà più, il “popolo della sinistra”. Questo mitico popolo è allo sbando. Depresso e sfiduciato dall’esito del referendum ha poi subito i colpi di una scissione incomprensibile e di un ancor più incomprensibile arroccamento di Renzi nella sua posizione di segretario, come nulla fosse successo. Veramente impressionate che nessuno del mondo renziano, fuori e dentro il Pd, abbia fornito uno straccio di riflessione su quel 60% di voti contrari: derubricato come un incidente di percorso, una incomprensione della “grande riforma” (ancora una volta), una cattiva comunicazione, o una questione sentimentale di amore e odio come fossimo ai Baci Perugina. Eppure, fuori da quel mondo autoreferenziale risuonavano alcune ipotesi interpretative, dall’affezione per la costituzione, unico elemento identificativo di una comunità nazionale frastagliata, una sorta di “patriottismo costituzionale”, alla insoddisfazione trapunta di vera e propria rabbia per i lunghi anni di crisi imputati a chi li ha gestiti ma non creati (cioè al centro-sinistra invece che ai governi berlusconiani), all’isolamento politico nel quale si è venuto a trovare (meglio: si è andato a cacciare) il partito. Quel popolo di sinistra non sta trasmigrando — ancora — verso altri lidi, ed è illusorio che le micro sigle sorte o risorte in questi ultimi mesi possano rivitalizzarlo. Forse, e sottolineo forse, solo una “lista Pisapia” tutta incentrata sull’ex sindaco di Milano, senza altri orpelli né dentro né fuori, può rimobilitare porzioni di quel popolo. Altrimenti è destinato all’astensione — come accadde clamorosamente alle elezioni regionali nell’Emilia rossa, tre anni fa, quando andò a votare il 37%! Il declino degli iscritti, lo spopolamento delle, e alle, feste dell’Unità, le difficoltà organizzative evidenziano plasticamente l’affaticamento del Pd, incapace di riprendere il bandolo di politica aggregante e mobilitante.
Le prospettive della sinistra sono cupe. Il Pd rimane arroccato in una leadership che porta in sé le stigmate della sconfitta, all’opposto di quando un tempo esibiva i gonfaloni della vittoria, e vive una indeterminatezza politica-strategica logorante: continuare una cavalcata solitaria rischiando un lungo isolamento o individuare un alleato sicuro per i prossimi anni? In più, soffre di un disorientamento ideale, dalla questione migranti alle politiche del lavoro, per citarne solo due: punta ad una politica di accoglienza ed inclusione, e alla difesa dalle condizioni di sfruttamento neo-manchesteriano dei lavoratori? Poi, alla sua sinistra ribolle ancora un magma composito in attesa di una futura, problematica, solidificazione, non si sa quanto appetibile fuori da circoli nostalgici.
Di fronte a questo campo di rovine la destra rialza la testa grazie alla memoria ultracorta degli italiani che hanno dimenticato i guasti epocali prodotti dai suoi governi, e i 5Stelle mantengono vivo e vegeto il loro serbatoio di arrabbiati e sfiduciati. Il Pd, e la sinistra nel suo complesso, non sono più il perno della politica italiana. Sono diventati co-protagonisti, al pari del M5S, ma un gradino sotto la destra, che andrà unita perché gli elettorati di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia sono sovrapponibili, hanno valutazioni politiche molto simili. Paradossalmente, solo lo stentatissimo risultato del Pd bersaniano nel 2013 permise al Pd, per la prima volta, di guidare il governo e poi, dopo la scissione alfaniana, di “dominarlo”. Alle prossime elezioni il partito di Renzi rischia di non ripetere nemmeno quel risultato; e certamente non sarà più nelle condizioni di dirigere quasi monopolisticamante il governo come negli ultimi tempi. Al massimo potrà entrare in una coalizione. Già, ma con chi?

La Stampa 17.9.17
“Inaccettabili i comportamenti che screditano le istituzioni”
Ma Gentiloni si dissocia da Renzi
La linea complottista non convince il premier: non è un golpe
di Fabio Martini

È proprio vero, non c’è tanta gente alla Festa nazionale dell’Unità del 2017, anche se quando Paolo Gentiloni entra nel capannone-ristorante delle braciole e delle tagliatelle, dai tavoloni di legno si alza un applauso verace, vecchi compagni si alzano, stringono la mano al Presidente e lui, per una volta non fa il ritroso, si lascia abbracciare, stringe mani a grandi e piccini. Ma la vera sorpresa arriva poco più tardi: il capannone degli eventi che applaude con calore e lui, il presidente del Consiglio, affronta l’intervista col direttore del “Foglio” Claudio Cerasa con un piglio, una grinta, un tono alto, spesso altissimo della voce. Roba mai vista nei 262 giorni precedenti.
E quando è arrivato il momento di affrontare la questione Consip, il presidente del Consiglio ha detto in chiaro quasi tutto quel che ha pensato in queste ore: «La credibilità e l’autorevolezza di istituzioni che amministrano la giustizia e assicurano la sicurezza è un bene prezioso da tutelare. Se c’è chi le scredita, questo è gravissimo, ma io credo che queste istituzioni possano avere gli anticorpi per mantenere la propria credibilità». E dunque, ecco il punto, ecco la presa di distanza da tutti coloro che nel Pd in queste ore parlano di «eversione» e di golpe: «Non mi abbandono a giudizi di questo tipo». In sostanza, Gentiloni è con Renzi, ma non sottoscrive l’ariete dei renziani.
Ma nella notte di Imola è accaduto qualcosa. Gentiloni, per la prima volta, ha mixato la sua misura con un grinta inusuale. E d’altra parte l’impatto di Paolo Gentiloni sul “popolo” della festa dell’Unità non è soltanto un dato di colore. La crescente popolarità (almeno nei sondaggi) del presidente del Consiglio, che in tutte le rilevazioni supera Matteo Renzi, d’ora in poi colloca ogni evento pubblico (tra la gente o nel Palazzo) sotto una nuova lente. Non tanto perché Gentiloni stia covando una leadership alternativa o un “tradimento” di Renzi – nulla di più distante dal suo pensiero – ma perché la forza delle cose potrebbe riscrivere una gerarchia che, al momento colloca Matteo Renzi al primo posto all’interno del Pd, ma assai meno quotato per un ritorno a palazzo Chigi. Ecco perché l’accoglienza dei militanti emiliani è stato spiazzante.
Molto significativo il momento nel quale la platea ha accolto il suo premier quando Gentiloni, invitato ad esprimere la differenza tra Pd e Cinque Stelle, ha risposto: «Il lavoro che faccio non mi consente di fare polemiche partitiche». E a quel punto si è alzato il battimani più caldo di tutta le serata. E ancora: «Se continueremo a spacciare paura raccoglieremo odio e violenza». Altro applauso a scena aperta. E, a sorpresa, Gentiloni,che in tutta la sua vita ha sempre parlato di centrosinistra e di progressismo, si è prodotto in un excursus sui valori di «sinistra», anche in questo caso raccogliendo consensi e incoraggiamenti da una platea. E anche sul Pil ha usato parole che sono piaciute: «Se il Pil non fa crescere i posti di lavoro, alla gente non possiamo dire; è cresciuto il Pil, perché altrimenti ci prendono per matti e ci dicono: mica mangio il Pil».
Un endorsement significativo per Paolo Gentiloni è arrivato da Enrico Letta. Intervenendo a Cesenatico alla sessione estiva della sua Scuola politica, tra trecento studenti entusiasti per la loro esperienza l’ex presidente del Consiglio ha lanciato un Sos all’opinione pubblica per il fatalismo col quale il sistema Paese sta affrontando il probabile, pericolo stallo post-elettorale. Letta ha parlato di «una somalizzazione della scena politica italiana, con tante bande, tanti signori della guerra, ognuno con i suoi fedelissimi…». E in questo contesto, dice Letta, «spero che dopo le elezioni continui a governare Paolo Gentiloni». Rinunciare allo ius soli? «Un atto crudele, miope, di paura». Il ritorno di Berlusconi? «Guardo esterrefatto». Il Pd? «Io mi sono abituato a portare uno zaino leggero…». La strategia elettorale del Pd: «Ingrugniti con tutti, pronti a dar calci a chiunque».

Corriere 17.9.17
Pisapia: «Orlando? Esca lui dal Pd»
Il fondatore di Campo progressista dice no alla minoranza dem: «Niente listoni, sfideremo Renzi»
di Andrea Senesi

MILANO Le parole questa volta non ammettono interpretazioni. Giuliano Pisapia non farà da stampella al Pd, non entrerà in alcun «listone» e, stante questa legge elettorale, sfiderà Renzi nelle urne. L’ex sindaco di Milano parla dalla sua città, chiudendo un’iniziativa programmatica («L’officina delle Idee») di Campo progressista, il suo movimento. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, a nome della minoranza dem, lo aveva esortato in mattinata a mostrare maggior coraggio nella volontà di non dividere il fronte progressista. La replica, a distanza di poche ore, è nettissima: «Noi stiamo lavorando da un anno e mezzo per un centrosinistra di governo. Orlando è rimasto indietro. Forse lui non ha avuto coraggio di fare le scelte al momento giusto. Apprezziamo che forse ora ha capito che il Pd non deve guardare a destra né ad alleanze innaturali. Se si sente di sinistra non può che guardare a noi».
Il dado è tratto. Pisapia e i suoi non accetteranno l’ospitalità del Pd («Sono così generosi nell’offrirci posti», annota con sarcasmo) e costruiranno invece una formazione in grado di competere per l’egemonia del centrosinistra: «Con questa legge elettorale sfidiamo il Pd e saremo capaci di far tornare l’entusiasmo nei milioni di voti che loro hanno perso».
«Né listoni né listini», aggiunge però Pisapia. Nel senso che Campo progressista rimarrà a debita distanza anche dalla prospettiva dei «partitini del tre per cento», riedizioni varie delle fallimentari Sinistre Arcobaleno. L’alleanza è con Bersani e soci e col civismo(«cittadinanza attiva», la chiama Pisapia), ma la porta non è aperta a chi pensa che il nemico da sconfiggere sia il Pd. «I nostri avversari sono le destre e il populismo dei Cinque Stelle», ribadisce. In serata Andrea Orlando replicherà all’ex sindaco evitando però di inasprire i toni. «Facciamo insieme una battaglia per cambiare la legge elettorale e poi per costruire una coalizione di centrosinistra. Non ci facciamo frenare da quelli, dentro e fuori il Pd, che lavorano per la divisione», l’appello del Guardasigilli. Ma sul punto, cioè sulla modifica in extremis della legge elettorale, proprio Pisapia s’era detto dal palco assai pessimista: «Non c’è la volontà di cambiarla; si andrà a votare col proporzionale e sarà un disastro perché si consegnerà il Paese ad alleanze anomale. Per noi l’ideale sarebbe il ritorno del Mattarellum, per garantire stabilità e per fare in modo che gli elettori decidano davvero chi mandare in Parlamento».

Pisapia, sfida al Pd: «Con questa legge ci sarà la nostra lista»
Centro&sinistre. Botta e risposta fra Orlando e l’ex sindaco: «Abbia coraggio, rompa con i gruppettari». La replica: forse non ne ha avuto lui a suo tempo. A Milano la riunione delle Officine dell’ex sindaco La sua rete si struttura, coordinamento nei territori
Il ministro Andrea Orlando e l'ex sindaco Giuliano Pisapia
di Daniela Preziosi

Alla fine la foto del centrosinistra da Pisapia a Calenda passando per Andrea Orlando non scatta. Il guardasigilli, leader di una minoranza interna al Pd, ieri mattina a Roma ha riunito la sua corrente (Dems) al grido di battaglia, si fa per dire, «un nuovo centro-sinistra per unire l’Italia». C’è anche il ramoscello d’Ulivo al posto del turlupinato trattino di memoria mastelliana.
Ma l’operazione sfuma. Il ministro Carlo Calenda, invitato, marca visita «per ragioni personali», manda un messaggio in cui sfuma l’ostilità a Renzi e anzi ne rivendica persino i risultati di governo. Neanche Giuliano Pisapia, arriva. «Capisco l’imbarazzo», dice Nicola Zingaretti.
PIÙ CHE IMBARAZZO trattasi di scelta meditata e annunciata per tempo. Pisapia resta a Milano per partecipare all’assemblea delle sue Officine dove lancia il coordinamento territoriali di Campo progressista: il movimento comincia a strutturarsi per ogni evenienza. Ma soprattutto Pisapia non vuole associare il suo contesissimo «brand» alla suggestione di un’alleanza con il Pd, sebbene stavolta si tratti del Pd di rito antirenziano. Suggestione non realistica, al momento.
L’ex sindaco infatti a Roma invia un messaggio insolitamente esplicito: c’è chi gli propone «inverosimili listoni elettorali», invece serve «un nuovo centrosinistra di governo, radicalmente innovativo». Ma non è un sì a Orlando, anzi: «Le porte del nostro progetto politico sono spalancate a tutti coloro che hanno a cuore la ricostruzione del campo democratico e progressista». Non è un invito esplicito a lasciare il Pd, mai Pisapia sarebbe così inelegante; ma è certo è un invito a lasciar perdere le proposte di annessione, almeno fino a nuovo ordine, cioè a nuova legge elettorale.
ORLANDO È MENO PREOCCUPATO delle forme e dal palco replica all’ex sindaco: «Ci vuole più coraggio, è il momento di costruire una prospettiva politica. Adesso è il momento di dividere il campo tra chi vuole il centrosinistra e chi no, nel Pd e nella sinistra radicale».
LUI PERÒ NON LO FARÀ, nel suo campo. Resterà nel Pd, assicura. Anzi la sua idea di coraggio si declina nel bacchettare Gianni Cuperlo che difende Massimo D’Alema dall’accusa di «gruppettaro» che il guardasigilli gli scocca da giorni fa. Pisapia, che pure teme l’avvitamento a sinistra della sua parte e non è un fan di D’Alema, non gradisce: «Lavoriamo da un anno e mezzo per un centrosinistra di governo. Orlando è rimasto indietro. Forse lui non ha avuto coraggio di fare le scelte al momento giusto».
IL CENTROSINISTRA che ha in mente il ministro passa per l’approvazione dello ius soli (anche Pisapia da Milano lo chiede). E soprattutto passa per una nuova legge elettorale coalizionale con cui agganciare anche Alfano («dipende dall’atteggiamento che avrà sullo Ius soli»). È lo schema di alleanza di Dario Franceschini. E infatti a questo punto l’azionista forte dei gruppi parlamentari Pd e lupus in fabula di ogni ipotesi di messa in minoranza di Renzi, batte il colpo atteso: «La discussione tra Orlando e Pisapia dimostra che il tema delle alleanze e dei rapporti possibili tra le diverse forze che hanno costituito la maggioranza di governo negli ultimi quattro anni, è ineludibile», dichiara. Il ministro chiede di riaprire il dibattito nel Pd: «Potremo discuterne nel partito senza risse o barricate, per poi fare una scelta che tutti comunque rispetteremo».
FUORI DAL PD, ANCHE PISAPIA è favorevole al cambio della legge elettorale perché, dice nel pomeriggio al Teatro Parenti di Milano, l’attuale proporzionale porterà «al disastro». Il suo preferito resta il Mattarellum . Ma se la legge resta così «non entreremo nella lista del Pd perché avremo una lista nostra e sfideremo il Pd». Quanto al centrosinistra dei sogni, Prodi «resta un riferimento, ma siamo in un periodo diverso».
A MILANO PISAPIA RACCOGLIE i punti proposti dalle sue «officine» e struttura il suo movimento, conseguenza diretta del non scioglimento del promesso sposo Mdp. Se Insieme proseguirà il cammino – ieri molti bersanian-dalemiani se lo auguravano con insistenza, segnale che qualche dubbio resta – avrà due gambe: quella dell’ex sindaco e quella degli ex Pd. Ma ai futuribili alleati l’avvocato non nasconde la sua idea di lista: «Rispetto l’opzione di chi ritiene che oggi il centrosinistra non possa rivivere e pensa che il nemico principale sia il Pd, ma il popolo del Pd è per la stragrande maggioranza di centrosinistra», e così i delusi del Pd e anche dei piccoli partiti. Questo è l’elettorato a cui punta Cp. Parole che rivelano che con la Ditta Bersani&D’Alema restano diversità di vedute, forse persino di prospettive. «Buon viaggio se pensate di fare un listino di sinistra», è la conclusione, «A noi non interessa né il listino né il listone».

Repubblica 17.9.17
Pisapia sfida il Pd: “Avversari nel voto”
Il leader di Campo progressista svela offerte di posti nelle liste dei democratici. “Niente listone. Prodi riferimento importante”. Duello con Orlando che gli chiede “più coraggio” . Gentiloni sullo ius soli: impegno da mantenere
Damiano deluso dal forfait dell’ex sindaco alla riunione di Roma: “Bisogna esserci in carne e ossa”
di Monica Rubino

ROMA. «Arrivano ogni tanto proposte del Pd, che sarebbe così generoso da darci qualche posto in lista. Ma non è il nostro obiettivo. Buon viaggio, a noi non interessa né il listino né il listone perché avremo una lista nostra ». Con insolito sarcasmo Giuliano Pisapia allunga le distanze dal Pd e getta il guanto di sfida ai democratici sul terreno della competizione elettorale. I toni sono più aspri del solito e questa volta l’ex sindaco arancione si pone non come un alleato ma come un avversario politico del partito di Matteo Renzi, a cui sembra voler contendere voti ed elettori: «Con questa legge elettorale sfidiamo il Pd e saremo capaci di far tornare l’entusiasmo nei milioni di voti che loro hanno perso», dice il leader di Campo progressista da Milano a un’iniziativa delle Officine delle idee, la truppa dei suoi militanti di base. E avvisa: «Se il Pd si sente di sinistra guardi a noi e non dall’altra parte». Perché quella di centrosinistra è un’alleanza naturale e «non innaturale come quella con la destra». Così come è naturale un riferimento a Prodi, l’unico federatore del centrosinistra «in grado di battere Berlusconi» negli ultimi decenni. «È un punto di riferimento – osserva Pisapia - ma con la consapevolezza che il mondo è cambiato».
Le critiche al Pd arrivano alla fine di una giornata che per l’ex sindaco di Milano comincia con un’assenza. Ospite di punta al centro congressi Alibert di Roma al battesimo ufficiale di Dems, l’associazione del ministro della Giustizia Andrea Orlando, il leader di Cp dà forfait all’ultimo momento. Provocando reazioni deluse a cominciare da Cesare Damiano, secondo cui «se si deve fare il centrosinistra insieme bisogna esserci in carne e ossa». In sua vece Pisapia manda un messaggio, che viene letto prima degli altri interventi. «Spero con tutto il cuore che abbiate successo nel vostro intento di “unire per l’Italia”. Nel frattempo, anche noi stiamo lavorando a un nuovo campo largo e inclusivo e le porte sono spalancate». Poi un accenno allo ius soli «che va approvato facendo tutto il possibile», in linea con il monito del premier Paolo Gentiloni alla Festa dell’Unità a Imola: «Impegno da mantenere». Parole, quelle di Pisapia, in apparenza di tutt’altro tenore rispetto all’attacco della sera. Se non per un passaggio in cui precisa che l’unione non si realizza con «meri calcoli algebrici» o «inverosimili listoni elettorali». Elemento colto da Gianni Cuperlo, della minoranza Pd, per il quale «il centrosinistra non si ricostruisce solo con regole elettorali, ma con scelte culturali». Quel che segue, prima della tempesta serale, è un botta e risposta fra l’avvocato e il ministro. Orlando dal palco romano di Dems (che sta per “Democratici al plurale”) lo sprona: «Ci vuole più coraggio. Adesso è il momento di dividere il campo tra chi vuole il centrosinistra e chi no, nel Pd e nella sinistra radicale». Pisapia dal teatro Parenti di Milano reagisce: «Noi stiamo lavorando da un anno e mezzo per un centrosinistra di governo. Orlando è rimasto indietro. Forse lui non ha avuto coraggio di fare le scelte al momento giusto». Il leader di Cp si prepara dunque a giocare una partita con una maglia rivale rispetto a quella del Pd, sul campo della legge elettorale esistente. Tutto il contrario del Guardasigilli, pronto a condurre la sua battaglia unitaria dopo aver cambiato la legge elettorale in senso maggioritario, anche con una raccolta di firme fra gli iscritti.

Il Fatto 17.9.17
Sorpresa, Orlando è tornato renziano. Ma ora Pisapia respinge la sua corte
La corte - Il ministro: “Lascia D’Alema”. La replica: “Nessun listone col Pd”
Sorpresa, Orlando è tornato renziano. Ma ora Pisapia respinge la sua corte
di Tommaso Rodano

L’Orlando furioso delle primarie del Pd non c’è più. Le elezioni si avvicinano, il ministro della Giustizia cambia linea: si accontenta di fare il capo corrente. Ha rinunciato ai toni catastrofici della sfida a Renzi e (ri)scoperto che il segretario del suo partito – ex capo del suo governo – non è così male: “Dobbiamo smetterla di fare la minoranza e pensare che per ricostruire la sinistra basti mettere da parte Renzi”.
Il nuovo corso di Orlando e di Dems (la sua corrente, appunto) è inaugurato in una sala eventi dietro Piazza di Spagna. Lo sforzo di elaborazione politica ha prodotto la seguente strategia: ci vorrebbe un nuovo Ulivo. Perché non sfugga a nessuno, Orlando ha fatto piazzare un ramoscello dell’albero prodiano tra le parole “centro” e “sinistra” nel manifesto del convegno. La coalizione ulivista che sogna Orlando dovrebbe essere rappresentata in platea: da Giuliano Pisapia, moderato di sinistra, a Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico, moderato e basta. Ci vuole un “campo largo”, si ripete allo sfinimento; un termine di straordinaria vacuità, che infatti va molto di moda.
Il problema è che alla fine non si presenta nessuno dei due ospiti. Calenda lascia un lungo messaggio video, molto applaudito, in cui chiede alla sinistra di essere orgogliosa dei governi Renzi-Gentiloni. Pisapia invece lascia un messaggio più breve, letto dal palco. Anche lui sta costruendo un altro “campo largo” (con Bersani e D’Alema) ma le porte per la sinistra Pd “sono spalancate”. Più tardi, invece, al teatro Parenti di Milano aggiunge una considerazione meno inclusiva: “Nessun listone: con questa legge elettorale, dobbiamo sfidare il Pd”.
A Roma la sua assenza ha irritato molto gli organizzatori. Uno dei deputati orlandiani è particolarmente arrabbiato: “Ci contavamo, invece Pisapia ci ha deluso, ha mostrato di non avere il physique du rôle. Credo che sopravvaluti la sua rilevanza. Ma alla fine, chi è Pisapia? L’avvocato di De Benedetti… Se l’è inventato Repubblica”.
Anche sul palco lo punzecchiano. Nicola Zingaretti, governatore del Lazio: “Capisco l’imbarazzo di Giuliano, lo vedo in difficoltà”. Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro di Prodi: “Dispiace non ci sia Pisapia, avrei preferito vederlo in carne e ossa. Qui avrebbe trovato una comunità accogliente. Bisogna diffidare degli opposti estremismi, anche di chi dice ‘Mai con Renzi’”.
Poi c’è la chiusura di Orlando: “Giuliano, serve più coraggio. Più coraggio”. Per Pisapia – secondo il ministro – è il momento di lasciar perdere Mdp, che “non vuole un centrosinistra di governo”, ma si chiude nella “sinistra radicale”.
Eccola, la vera novità del nuovo corso di Orlando: prima attaccava Renzi e picchiava a destra, ora è in linea con il segretario nel picchiare a sinistra. Il pensiero più velenoso è per Massimo D’Alema: “Mi hanno detto che non devo più definirlo ‘gruppettaro’, ma non mi vengono in mente altre definizioni, per uno che adesso preferisce prendere il 2 per cento”.
Nel nuovo centrosinistra sognato da Orlando ci sono quindi Calenda e Pisapia, mancano Orlando e Bersani epuò trovare spazio un altro ospite: “L’alleanza comprende Alfano? Non so. Molto dipenderà dal suo atteggiamento sullo Ius soli”.

Corriere 17.9.17
«Ero l’unica tra 19 uomini, senso di colpa a sinistra»
di Al. T.

«Anche a sinistra il problema esiste. Ma almeno, a differenza della destra, è vissuto con senso di colpa». Lo stesso che l’altro giorno, alla riunione di Insieme, ha fatto dire polemicamente a Giuliano Pisapia: «Mai più riunioni come questa, con 19 uomini e una sola donna». Ovvero Cecilia Guerra, capogruppo di Articolo 1-Mdp al Senato. Che racconta: «Lo abbiamo notato tutti, questo squilibrio. Per una formazione nascente è un peccato veniale, perché può essere corretto, ma la questione esiste ed è trasversale». Il problema, per la Guerra, è culturale e sociale. «Siamo schiavi di retaggi del passato, secondo il quale le donne capiscono poco di politica. In Parlamento ci sono più donne, grazie a Pd e 5 Stelle, ma molti troverebbero ancora rivoluzionario avere un capo dello Stato o un premier donna». Si è trovato a disagio tra tanti uomini? «No, perché sono abituata, vengo dall’ambiente universitario, che è molto maschilista. Ma credo che serva un mutamento sociale profondo». La Guerra è favorevole alle quote: «Soprattutto per rimediare al soffitto di cristallo, ovvero alla difficoltà per le donne di fare carriera». E da combattere è anche la discriminazione nei confronti di chi ce l’ha fatta: «Due esempi per tutti, l’ex ministro Cécile Kyenge, che subiva la doppia discriminazione. E la presidente Laura Boldrini, attaccata in un modo vergognoso».

Corriere 17.9.17
E D’Alema disse ti spacco la faccia
La mutazione del lider maximo
di Tommaso Labate
qui

Repubblica 17.9.17
L’intervista. Ettore Rosato, capogruppo Pd
“Dividerci favorirà la destra sforzo estremo per l’unità”
di Mauro Favale

ROMA. Più che del timore di una sfida a sinistra con Giuliano Pisapia, dice Ettore Rosato, capogruppo Pd a Montecitorio, «dobbiamo occuparci delle cose da fare». Tra queste c’è l’ennesimo, probabilmente ultimo, tentativo di modifica della legge elettorale. «La prossima settimana sarà decisiva».
Se resta questa legge, dice Pisapia, la competizione è aperta. È partita la sfida a nel centrosinistra?
«La sfida che noi del Pd abbiamo è con i populisti e le destre».
L’ex sindaco di Milano, però, va a caccia dei «milioni di voti» che il Pd ha perso.
«Credo che una sinistra divisa abbia poche prospettive. Il nostro lavoro sarà sempre quello di tentare di unire le forze responsabili».
Come? Pisapia ha già rifiutato l’offerta di un “listone”.
«Prima di parlare di formule elettorali penso sia importante condividere obiettivi e programmi. A sinistra del Pd c’è tanta gente che si preoccupa più di come evitare una vittoria delle destre e dei populisti piuttosto che di uno scontro di classe dirigente».
Ma se non verrà modificato il proporzionale ognuno andrà per la sua strada?
«Non amiamo il proporzionale, tutt’altro. Il modello tedesco di cui si discuteva a giugno era un tentativo di condividere le regole con tutti. Se questo non fosse possibile noi conserviamo la nostra preferenza per un maggioritario».
Sarà questa la vostra proposta?
«Ricordo che quando siamo andati in commissione prima col Mattarellum poi col Rosatellum, due sistemi maggioritari, è stata Mdp a dirci di no. Salvo poi riproporli quando non erano all’ordine del giorno».
Ritenterete col maggioritario? O pensate a un premio di coalizione?
«Dialoghiamo con tutti, la settimana prossima sarà decisiva».
Per il ministro Franceschini il tema delle alleanze è ineludibile.
«E lo sarà ancora di più avvicinandosi alle elezioni. Noi lavoriamo per rappresentare con chiarezza agli elettori chi può governare questo paese. E noi ci candidiamo a governarlo».
Da soli, con questa legge elettorale, però, è difficile: le alleanze le farete dopo il voto?
«Non abbiamo la pretesa di farlo con il solo Pd. Per vincere bisogna costruire un campo largo, un centrosinistra plurale, ampio, che non viva di particolarismi come quelli che stiamo vedendo in Sicilia, frutto della voglia di perdere e non di governare».
In questo centrosinistra, dunque, non c’è spazio per Mdp?
«Basta vedere il comportamento dei gruppi parlamentari: nati rivendicando la voglia di rafforzare il governo, costantemente lo indeboliscono e votano contro. Non è questo il modo di costruire una sinistra di governo e responsabile. Ma noi teniamo tutte le porte sempre aperte».

Il Fatto 17.9.17
Altro che colpo di Stato, ecco la storia dell’inchiesta
Dall’intercettazione tra l’ex premier e il generale Adinolfi pubblicata dal “Fatto” alle dichiarazioni del procuratore Musti sugli incontri con i Noe
di Marco Lillo

Per smontare il teorema del ‘complotto’ contro Matteo Renzi costruito dal Noe dei Carabinieri con la complicità del pm Henry John Woodcock e del Fatto è molto utile una semplice cronologia.
Quando il capitano Gianpaolo Scafarto, ai primi di settembre del 2016, avrebbe fatto alla pm di Modena Lucia Musti la confidenza generica su un’indagine non meglio precisata (“Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi”) erano già accaduti alcuni fatti. In particolare un signore toscano amico di Tiziano Renzi di nome Carlo Russo era già entrato più volte nell’ufficio di Alfredo Romeo per parlare degli appalti che interessavano all’imprenditore. Non solo in Consip ma anche in Grandi Stazioni e in Inps. Stando alle informative di Gianpaolo Scafarto di quel periodo erano già accaduti questi eventi: il 3 agosto Romeo aveva chiesto a Russo di incontrare il padre del premier di allora perché aveva problemi con il suo amico amministratore di Consip, Luigi Marroni, per una serie di appalti del valore di centinaia di milioni di euro. Russo aveva proposto allora di fare una bisteccata a casa di Tiziano Renzi con lo stesso Marroni. Il 31 agosto Romeo era tornato alla carica e Russo aveva riferito così la risposta di Tiziano: “gli ho detto che … dobbiamo fare sto passaggio con Marroni! M’ha detto dice: ‘Fammi finire sto casino prossima settimana ci mettiamo’”.
Quando Scafarto avrebbe fatto la sua profezia, Romeo aveva già proposto a Russo il famoso ‘accordo quadro’ che poi sarà precisato meglio il 14 settembre nel famoso foglio che – secondo l’interpretazione dei Carabinieri – reca l’offerta di 30 mila euro al mese per Tiziano Renzi in cambio di un incontro al mese con Luca Lotti e con Luigi Marroni per propriziare un occhio di riguardo su Romeo da parte della Consip guidata da Marroni.
La confidenza di Scafarto (‘scoppierà un casino arriviamo a Renzi’) quindi non è la prova del movente delle sue macchinazioni contro Tiziano e Matteo ma un annuncio abbastanza prevedibile (e certamente scorretto se vero) sulla base di indizi già raccolti.
Prima però ricordiamo come è nata la teoria che piace tanto ai grandi giornali, alla politica e ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura vicini a Renzi.
Il teorema (ben descritto ieri in un pezzo di Carlo Bonini su Repubblica) vuole connettere due fatti che non c’entrano nulla: lo scoop del Fatto del luglio 2015 sulla telefonata di Matteo Renzi con il generale Michele Adinolfi e lo scoop del Fatto del 2016-2017 sul caso Consip. Ebbene il teorema è delineato nel libro del segretario del Pd Avanti.
Renzi ricorda così il nostro scoop della telefonata tra lui e il generale della GdF Adinolfi, nella quale i due sparlavano di Enrico Letta, intercettata nel 2014 e pubblicata dal Fatto il 10 luglio 2015. “È la prima volta – scrive Renzi – in cui faccio la conoscenza del Noe, Nucleo operativo ecologico dell’Arma dei carabinieri, che su incarico di un pm di Napoli, il dottor Woodcock, mi intercetta. Apprenderò dell’intercettazione mentre sono presidente del Consiglio, grazie a uno scoop del Fatto Quotidiano firmato da un giornalista che si chiama Marco Lillo. Segnatevi mentalmente questo passaggio: Procura di Napoli, un certo procuratore, il Noe dei carabinieri, il Fatto Quotidiano, un certo giornalista. Siamo nel 2014, non nel 2017, sia chiaro. Che poi i protagonisti siano gli stessi anche tre anni dopo è ovviamente una coincidenza, sono cose che capitano”.
L’insinuazione che Il Fatto abbia ottenuto le notizie per i due scoop nel 2015 e nel 2016-7 sempre grazie al Noe e al pm Woodcock è falsa e diffamatoria ma trova subito una grancassa nelle istituzioni.
Il libro esce il 12 luglio e sembra il canovaccio delle domande poste al pm Lucia Musti di Modena appena cinque giorni dopo dal presidente della prima commissione del Csm. L’avvocato Giuseppe Fanfani, ex sindaco Pd di Arezzo, amico di Maria Elena Boschi e già legale del padre, ascolta con i suoi colleghi del Csm il procuratore di Modena nell’ambito del procedimento contro Henry John Woodcock finalizzato a capire se il pm di Napoli che ha osato intercettare il padre del leader Pd debba essere trasferito per incompatibilità.
La pm Lucia Musti ha ricevuto per competenza nell’aprile del 2015 le carte del fascicolo Cpl Concordia, istruito da Woodcock, nel quale era contenuta l’intercettazione di Matteo Renzi con il generale Adinolfi. La telefonata è divenuta pubblica nel luglio 2017 perché non era più segreta e Il Fatto – come la Procura di Napoli ha ricostruito già nel 2016 – l’ha avuta da fonti non investigative in modo pienamente lecito. E non era più segreta per una svista non del pm Woodcock ma degli uffici dei pm dell’antimafia che l’avevano ricevuta per competenza di materia da Woodcock proprio come la dottoressa Musti l’aveva avuta a Modena.
I pm di Napoli nel 2015-2016 indagarano i carabinieri del Noe che avevano aiutato il personale di segreteria, oberato di lavoro, a effettuare la scansione delle pagine senza avvedersi che l’informativa depositata non era quella omissata ma la versione precedente, che non conteneva gli omissis. Così quelle due pagine così delicate con i giudizi sprezzanti di Renzi su Letta sono finite nel computer della Procura accessibile a tutti gli avvocati del procedimento. Tre avvocati (almeno) ne vennero in possesso e così Il Fatto ha potuto acquisire tutte le carte pubbliche del fascicolo, compresa quella che doveva restare segreta. Questo tragitto è stato accertato con certezza dai pm e dai loro periti informatici grazie anche alle perquisizioni ai danni dei giornalisti del Fatto e in particolare al sequestro e all’analisi del computer del collega Vincenzo Iurillo che ha firmato quello scoop con chi scrive questo articolo.
I carabinieri del Noe furono indagati e interrogati ma i pm Alfonso D’Avino e Giuseppe Borrelli ne chiesero l’archiviazione a febbraio 2016 perché “E’ da escludersi che la scansione integrale della informativa del 15.10.2014 sia stata intenzionalmente effettuata dai militari al fine di renderla ostensibile attraverso il suo inserimento al TIAP (il sistema informatico della Procura, Ndr)”; 2) “la pubblicazione degli atti era avvenuta ad opera del cancelliere (incolpecole anche lui, Ndr) addetto alla segreteria del pm dell’antimafia Cesare Sirignano”.
L’audizione della dottoressa Musti al Csm doveva essere diretta ad appurare le responsabilità dei magistrati in quella fuga di notizie. Woodcock in questo caso non aveva alcuna responsabilità ma il pm Musti ne approfitta per fare due dichiarazioni contro la polizia giudiziaria preferita dal pm napoletano: i carabinieri del Noe.
La prima riguarda il fascicolo Cpl Concordia del 2015 e l’allora vicecomandante del Noe dei Carabinieri Sergio De Caprio, alias Ultimo.
Questa è la ‘la seconda versione’ del verbale pubblicata dal quotidiano Repubblica (diversa da quella del giorno precedente) riguardo all’incontro Ultimo-Musti per le carte dell’indagine Cpl Concordia del 2015: “Il presidente Fanfani chiede: «Chi glielo disse?». Musti: «Il colonnello De Caprio mi disse: “Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”». Fanfani: «Ma in riferimento a cosa?». Lei: «Ma cosa ne so? Cioè, io non lo so perché erano degli agitati. Io dovevo lavorare su Cpl Concordia, punto, su quest’episodio di corruzione. Dissi ai miei, “prima ci liberiamo di questo fascicolo meglio è”».
Musti quindi sta dicendo al Csm che Ultimo quando consegnò il fascicolo Cpl Concordia a Modena disse che era una bomba. Il fascicolo non era centrato su Renzi ma sulla coop emiliana e conteneva intercettazioni del 2014 riguardanti: 1) i rapporti tra Massimo D’alema e la Cpl Concordia; 2) la Fondazione Icsa fondata da Marco Minniti ma lasciata dall’ex sottosegretario nel 2013; 3) intercettazioni su altri personaggi del Pd tra cui anche Matteo Renzi ma non solo lui.
Dal testo del secondo (e probabilmente vero) verbale pubblicato da Repubblica ieri si evince chiaramente che il pm Lucia Musti non dice e nemmeno insinua mai che ‘la bomba’ a cui faceva riferimento Ultimo fosse l’intercettazione di Renzi con Adinolfi.
La seconda cosa che dice il pm Lucia Musti al Csm riguarda il fascicolo che nel 2016 vedeva il solito Noe, sempre sotto la direzione del pm Woodcock, impegnato sul versante Consip. Così sempre Repubblica (sempre nella seconda versione del verbale ieri) riferisce la versione del pm Lucia Musti su un suo incontro con il capitano Scafarto ai primi di settembre del 2016: «Lui mi ha parlato del caso Consip, un modo di fare secondo me poco serio, perché un capitano, un maresciallo, un generale sono vincolati al segreto col loro pm, non devi dire a me che cosa stai facendo con un altro. Quindi, quando lui faceva lo sbruffone dicendo che sarebbe “scoppiato un casino”, io dentro di me ho detto “per l’amor di Dio”. Una persona seria non viene a dire certe cose, quell’ufficiale non è una persona seria». Fanfani vuole dettagli: «De Caprio ha detto “Ha una bomba in mano”, mentre Scafarto “succederà un casino”?». Musti risponde: «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi».
E’ evidente dalla lettura di questa versione del verbale l’inesattezza di quanto pubblicato il giorno prima. Lucia Musti non ha mai dichiarato che Ultimo e Scafarto le dissero: ‘Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi’.
Una cosa è la bomba Cpl Concordia di cui parla Ultimo senza alcun riferimento a Renzi e alla sua conversazione con Adinolfi poi pubblicata dal Fatto.
Altra cosa è quel generico “scoppierà un casino arriviamo a Renzi” che sarebbe stato detto nel settembre 2016 dal capitano Scafarto quando aveva già in mano indizi pesanti su Tiziano Renzi.
La scorretta rappresentazione della realtà fatta dai grandi quotidiani insinua che la bomba di cui parlava Ultimo a Lucia Musti nel 2015 fosse l’intercettazione Adinolfi-Renzi. Non basta. la grande stampa e il Pd al seguito forzano anche il senso della frase di Scafarto per insinuare un intento complottistico del Noe contro Renzi nel 2016.
Scrive sul punto Il Corriere della Sera di venerdì “Il fatto che l’ex capitano del Noe abbia detto a Musti, quattro mesi prima di consegnare l’informativa e anche prima che fosse registrata la famosa frase «Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato» falsamente attribuita a Romeo («assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano», scrisse Scafarto nel rapporto), potrebbe far immaginare che l’obiettivo dei carabinieri fosse proprio il padre dell’ex premier. Come se fosse un possibile movente della successiva manipolazione dell’intercettazione. E chi volesse ipotizzare che quello fosse lo scopo dei falsi contestati a Scafarto (…) ora avrebbe un motivo in più per sostenerlo”.
La rappresentazione di un colloquio in cui Scafarto parla con Musti prima di avere nelle mani gli indizi e le registrazioni che inguaieranno Tiziano Renzi ha permesso al Pd Michele Anzaldi di presentare un’interrogazione al Governo e ha fatto parlare di ‘fatti di gravità inaudita’ all’ex segretario Pd Dario Franceschini e di “complotto” al capogruppo Pd Luigi Zanda. Grazie a questo modo di fare informazione non è apparsa ridicola la visita di Matteo Renzi a Rignano così raccontata in un pezzo dal titolo “Consip, Renzi subito a Rignano dal padre. Con lui il faccia a faccia della pace”.
Il pezzo è uscito il 14 settembre, proprio nel primo anniversario del giorno del famoso pizzino. Il 14 settembre 2016 infatti Alfredo Romeo scrisse su un foglietto ritrovato il giorno dopo nella spazzatura dal Noe e interpretato come un’offerta nero su bianco al ‘compare di Tiziano Renzi, Carlo Russo, di 30 mila euro al mese, destinati a ‘T.’ che secondo la tesi accusatoria sarebbe Tiziano Renzi.
Al di là delle conseguenze politiche della strumentalizzazione delle frasi della pm Musti, c’è una conseguenza giudiziaria di non poco conto. Alla Procura di Roma sono state trasmesse dal Csm le dichiarazioni della pm di Modena perché i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi valutino se inserirle nel fascicolo contro Woodcock. Non solo. Lunedì prossimo la solita prima commissione del Csm presieduta dal solito Giuseppe Fanfani convocherà i due pm di Napoli, Giuseppe Borrelli e Alfonso D’avino, che si sono occupati del’indagine sulla pubblicazione da parte del Fatto dell’intercettazione Renzi-Adinolfi.
In pratica il presidente della commissione del Csm convoca i procuratori aggiunti di Napoli e trasmette carte alla Procura di Roma perché finalmente si indaghi a fondo nella direzione del collegamento tra i due scoop del Fatto, proprio la direzione auspicata dal leader Matteo Renzi nel suo libro.

La Stampa 17.9.17
Coop
Il rischio bolla della finanza rossa
Incognite su 9 miliardi di prestiti dei soci
Dalla Unipol alle banche, i valori gonfiati delle partecipazioni finanziarie rendono difficile garantire i soldi degli associati. Legacoop: “Ma non sono risparmi”
di Gianluca Paolucci

Sono almeno 9 miliardi di risparmi degli italiani e si appoggiano su gambe che mostrano qualche incrinatura. Si tratta del prestito sociale delle Coop e la colpa non è solo della crisi dei consumi e di una concorrenza sempre più aggressiva, ma anche di un legame tra Coop e finanza che tra impegni «di sistema» e avventure azzardate nell’azionariato di grandi banche (Mps e Carige principalmente) rischia di diventare insopportabile.
Risparmi o finanziamenti
Tutto il problema finanziario sarebbe solo un affare interno alle Coop, se non fosse appunto per il prestito sociale. I soci prestano soldi alle Coop che pagano un interesse. A fissare le regole sono la legge e una serie di circolari Bankitalia, che però non ha poteri di vigilanza sulle coop. In passato ci sono stati almeno due casi (Coop Carnica e Trieste) che hanno lasciato un buco di alcune decine di milioni nelle tasche dei risparmiatori. «Il problema è che i tassi sono inferiori ai rischi che si corrono - dice Alessandro Pedone di Aduc, una delle associazioni di consumatori che si è occupata dell’argomento -. Se queste coop emettessero obbligazioni sul mercato dovrebbero pagare tassi due o tre volte più alti».
Di parere opposto Stefano Bassi, presidente dell’Associazione nazionale delle Coop di consumo. «Il prestito non è raccolta pubblica di risparmio, come ha chiarito Bankitalia. È un istituto legittimo, remunerativo per i soci che soggiace ad una regolamentazione rigorosa», spiega. Le coop, aggiunge, «non si sottraggono a eventuali nuovi confronti normativi. È intenzione delle coop procedere ulteriormente con altri strumenti sul fronte della vigilanza, controlli e garanzie».
Valori e prezzi
Tra i vincoli posti da Bankitalia c’è quello che l’ammontare del prestito sociale non può superare tre volte il patrimonio netto. Ed è qui che tutto s’ingarbuglia. L’esempio più eclatante è quello della catena di controllo di Unipol. Risalendo lungo la catena di controllo del gruppo assicurativo (vedi grafico) i valori in bilancio lievitano fino a quasi cinque volte il valore in Borsa del titolo Unipol Gruppo Finanziario (Ugf), la capogruppo delle attività assicurative e bancarie. Nello stesso bilancio si trovano almeno tre prezzi diversi. È il caso di Holmo holding delle coop e azionista di Finsoe, che a sua volta controlla Ugf con il 31,4%. A farlo presente, durante l’assemblea che ha approvato i conti di Holmo nel giugno scorso, è Giorgio Pellacini, commercialista emiliano nonché liquidatore di Coopsette, coop edile finita in dissesto. Fatti due conti, la partecipazione in Unipol ha almeno quattro valori diversi. Nel bilancio di Finsoe vale 9,95 euro per azione, nel bilancio di Holmo a 12,61 euro. Poi però Holmo vende il 2,28% di Finsoe ad un prezzo che è pari alla quotazione di Unipol ma quello che resta in bilancio vale sempre uguale. Quindi di fatto rivaluta Finsoe e conseguentemente Unipol, che adesso viene valorizzata 13,22 euro per azione. Il tutto mentre il titolo Unipol viaggia in Borsa intorno a 3,8 euro, con una oscillazione tra 2,26 e 4,3 euro nell’ultimo anno. Com’è possibile, chiede Pellacini? Semplice: quei valori sono giustificati da una serie di perizie, risponde Holmo.
Perdite latenti
Questi valori si riverberano sulla galassia delle coop che controllano Unipol, che si portano dietro pesanti perdite latenti. Alleanza 3.0 è la più grande coop di consumo italiana. Un vero colosso, gestisce i supermercati Coop tra Emilia, Lombardia e Veneto. È anche il primo socio di Finsoe e, se portasse il valore della partecipazione al prezzo di mercato, dovrebbe registrare in bilancio una perdita di 643 milioni di euro. Sommando a questa altre partite latenti (Spring 2, un veicolo liquidato nei mesi scorsi, la società immobiliare Igd e altri) si troverebbe il patrimonio netto abbattuto di circa 1 miliardo, da 2,4 a 1,5 miliardi. A bilanciare in parte l’ammanco ci sono circa 93 milioni di plusvalenze latenti dalla partecipazione diretta in Unipol (9,6%). «Non esistono minusvalenze latenti - dice Adriano Turrini, presidente di Alleanza 3.0 -. Le azioni che abbiamo in carico dirette sono a 2,5 euro, ampiamente al di sotto al valore di Borsa. Per la restante parte abbiamo azioni Finsoe, che ha un valore di carico che deriva dalla storia e dei risultati del gruppo. Ci sono le perizie di soggetti terzi, che tengono conto dei rendimenti attesi e di un premio di maggioranza».
E veniamo alle perizie. Ne abbiamo visionata una, quella per giustificare il valore di carico di Unipol in Finsoe nel bilancio 2015. L’autore è Deloitte, che dopo una serie di avvertenze (il rapporto «non potrà essere distribuito a terzi» senza il consenso scritto di Deloitte, che «non risponderà di eventuali danni che i soggetti che avranno accesso al presente documento o altri soggetti potranno subire in caso di uso improprio» del rapporto stesso), esclude esplicitamente il valore di Borsa come base di calcolo, utilizza il valore degli utili attesi e si lancia in una serie di assunti. Ad esempio, considera gli utili al 2018 il risultato previsto al 2015 nel vecchio piano industriale di Unipol, considerando «la graduale ripresa prevista» nel 2016 e 2017. Ma non basta. Allora applica un premio di controllo, calcolato sulla base delle transazioni di pacchetti quotati avvenute nel mercato bancario e assicurativo tra il 2001 e il 2006. Ovvero, quando il mercato tirava e le valutazioni del settore hanno raggiunto il loro picco storico. Sulla base di tutto questo si aggiunge un altro 25%/35% e si arriva a valori ancora più elevati. Tra 14,21 e 15,35 euro per azione Ugf.
Fuga dal prestito
Il caso più delicato è quello di Unicoop Tirreno, attiva nella Costa toscana e nel Lazio. Lo scorso anno è stata salvata da un intervento «di sistema» dalle altre grandi coop che hanno sottoscritto degli «strumenti finanziari partecipativi» per 175 milioni di euro, erogati però alla coop solo in parte. Unicoop Tirreno è nel mezzo di una complicata ristrutturazione, ha ridotto le rete di vendita, chiuso negozi e imposto sacrifici al personale. Ma nonostante questo la sola valorizzazione a prezzi di mercato della partecipazione Finsoe porterebbe una nuova perdita di 113 milioni, facendo saltare il parametro Bankitalia per i 750 milioni di prestito sociale. Prima dell’allarme, il prestito sociale era arrivato a 1,4 miliardi. Una vera e propria corsa allo sportello, in qualche modo lanciata dalla stessa coop per ridurre i rischi.

Repubblica 17.9.17
Un nome per guidare la nuova Europa di Ventotene
di Eugenio Scalfari

IN UN’INTERVISTA rilasciata venerdì al nostro giornale Romano Prodi rilancia la legge sullo “Ius soli” presentata da tempo al Parlamento. Il testo è fermo al Senato dove il Pd non raggiunge da solo la maggioranza assoluta e quindi ha bisogno di essere rafforzato con apporti esterni. Successivamente però le opposizioni a quel progetto sono aumentate e la maggioranza l’ha congelato, almeno fino a quando la legge di stabilità finanziaria non sarà stata approvata. Ciò significa che lo “Ius soli” tornerebbe in Parlamento nel gennaio 2018 senza tuttavia escludere che bisognerebbe forse emendarlo e rendere possibile il formarsi di una maggioranza assoluta. Il 2018 è tuttavia l’anno di fine legislatura e quindi di un nuovo Parlamento. La conseguenza di tutto questo discorso è che la sorte dello “Ius soli” è diventata quanto mai dubitabile.
Di qui l’intervento di Prodi il quale, per evitare che quella legge finisca in un cassetto e lì rimanga per un tempo indeterminato, ne chiede la ripresentazione immediata, magari con qualche emendamento di poca importanza e senza il voto di fiducia. Il tema a suo giudizio è talmente importante che il voto parlamentare deve esser dato per coscienza e non col vincolo politico della fiducia. Naturalmente la posizione di Prodi è interamente per il sì: chi nasce in Italia deve essere italiano e quindi europeo, sempre che, subito dopo la nascita, quel neonato e la sua famiglia restino in Italia per un periodo ragionevole di tempo e non per pochi giorni.
PERSONALMENTE e in linea di principio sono d’accordo con Romano: quasi sempre e ormai da molti e molti anni la pensiamo allo stesso modo. In questo caso tuttavia vedo parecchie e notevoli difficoltà. Le elenco anche se alcune di queste mie domande potrebbero sembrare paradossali.
1. La cittadinanza viene concessa a qualunque neonato figlio di genitori stranieri, provenienti da qualunque altro Paese, oppure alcuni ne sono esclusi ed altri no? Faccio un esempio: una famiglia anagraficamente nata in un qualunque Stato dell’Unione europea fa automaticamente parte dei 27 Paesi dell’Ue e non ha quindi bisogno di chiedere la cittadinanza ad uno di essi diverso da quello dei genitori?
2. Questo principio — se esiste per l’Europa dell’Ue — può essere esteso anche ad altri Paesi la cui storia abbia valori comuni con i nostri? Per esempio l’Inghilterra uscita dall’Ue ma comunque europea a tutti gli effetti; o anche gli Stati Uniti d’America e il Canada? E l’America del Sud e quella Centrale, di origini spagnole o portoghesi? Se queste ipotesi fossero applicate tutto il mondo occidentale avrebbe un’unica cittadinanza. Ma se non fosse così e per quanto ci riguarda, la cittadinanza italiana sarebbe singolare e non condivisibile se non si nasce sul nostro territorio. Nel qual caso si pongono altri e complessi problemi.
3. Accenniamo ad uno di questi. Supponiamo che i genitori del neonato in Italia sono di New York o di Los Angeles o di qualsiasi città Usa. E mettiamo che il neonato in Italia, una volta raggiunta l’età della ragione, preferirà avere la cittadinanza americana oppure inglese o tedesca o francese o brasiliana. Butterebbe via quella italiana e ne chiederebbe un’altra? Oppure si possono avere insieme tre o anche più cittadinanze?
4. Infine un’altra ipotesi: la famiglia che fa nascere il figlio in Italia appartiene ad una etnia profondamente diversa e anche a una diversa religione. Supponiamo che la famiglia sia turca oppure del Ghana, oppure dell’India o del Pakistan. Quel neonato è italiano se nasce a Roma o a Bari o a Palermo. Se è anagraficamente italiano, quando sarà adulto e avrà figli italiani, quei figli avranno profonde tracce dei genitori e dei nonni. L’americano no e l’arabo o il cinese sì? Ha un senso tutto questo?
Oppure in una società globale, sei giudicato e devi rispettare i doveri e i diritti del luogo dove ti trovi e non necessariamente in quello dove sei nato?
Caro Romano, mi piacerebbe conoscere la tua risposta a queste domande. Papa Francesco, come certamente sai, suppone che nella società globale in cui viviamo interi popoli si trasferiranno in questo o quel Paese e si creerà, man mano che il tempo passa, una sorta di “meticciato” sempre più integrato. Lui lo considera un fatto positivo, dove le singole persone e famiglie e comunità diventano sempre più integrate, le varie etnie tenderanno a scomparire e gran parte della nostra Terra verrà abitata da una popolazione con nuovi connotati fisici e spirituali. Ci vorranno secoli o addirittura millenni affinché un fenomeno del genere accada ma — stando alle parole del Papa — la tendenza è questa. Non a caso egli predica il Dio Unico, cioè uno per tutti. Io non sono credente, ma riconosco una logica nelle parole di papa Francesco: un popolo unico e un unico Dio. Non c’è stato finora nessun capo religioso che abbia predicato al mondo questa sua verità.
***
Per lo “Ius soli” se ne riparlerà tra qualche mese in Parlamento e vedremo come andrà a finire. Nel frattempo però è accaduto in Europa un evento che nessuno si attendeva: di fronte alla Plenaria del Parlamento europeo Jean-Claude Juncker ha raccontato una situazione che sembrava poco ascoltata ma era invece molto importante e oserei dire rivoluzionaria a pochi giorni di distanza dalle elezioni politiche in Germania.
Ho scritto “una situazione rivoluzionaria” ed è effettivamente questa la realtà, ma se si guarda con occhio storico si vedrà che essa era già in corso di attuazione ai tempi del primo governo Prodi e poi quando lo stesso Prodi diventò Presidente della Commissione Ue ed estese i confini a molti altri paesi dell’Europa ex sovietica ed infine fu fatta propria da Matteo Renzi tre anni fa, all’epoca della sua visita con Hollande e con Merkel all’isola di Ventotene in seguito alla quale lo stesso Renzi formulò un programma europeista e quindi spinelliano, per l’attuazione del quale l’ex premier aveva cominciato a battersi senza tuttavia ottenere nulla di concreto.
Quel programma che per brevità possiamo chiamare Ventotene, è da tempo condiviso da Mario Draghi con un campo di competenze molto diverso ma con analoghe o addirittura identiche finalità ed ora, con una mossa improvvisa e radicale, è stato fatto proprio da Jean-Claude Juncker. In che cosa consiste? Nel rafforzamento e mutamento dell’Europa sulla linea di Ventotene. Un’Europa collettiva, con meno senso di sovranismo nazionale e molto più ampio sovranismo europeo. A questa linea aderiscono già molte personalità ed anche alcuni governi. Abbiamo già indicato i nomi di Renzi e di Draghi ed ora anche quelli di Mattarella, Gentiloni e Minniti. Non è poco, le forze in campo sono autorevoli e sarebbero maggiori se Renzi si risvegliasse dal letargo vacanziero e riprendesse completamente il programma di Ventotene, da lui stesso lanciato ma poi messo a dormire.
L’intervento di Juncker, cui altri ne seguiranno come da lui stesso previsto dopo le imminenti elezioni tedesche, consiste nella creazione di un Ministro delle Finanze europeo, d’una velocità di offerta e di domanda economica promossa dai Paesi dell’eurozona, dal rafforzamento politico all’interno dell’Unione, dal presidente dell’eurozona, dalla creazione d’una vigilanza politica e poliziesca che controlli le cosiddette periferie dell’Isis in Europa, Londra compresa.
Juncker ha poi lanciato un programma di investimento e proposto una serie di accordi di libero scambio con paesi come il Giappone, il Messico, l’Australia e la Nuova Zelanda e tutta l’America Latina, dall’Argentina al Brasile, al Cile e a tutti gli altri. Ha proposto anche la creazione di un nuovo Fondo europeo e una politica dell’immigrazione molto simile a quella praticata da Gentiloni e Minniti per quanto riguarda l’Africa occidentale.
Infine — e sia pure con opportune cautele — Juncker ha lumeggiato la nuova figura d’un Presidente europeo eletto direttamente dal popolo sovrano dell’Unione. Non è da escludere che lo stesso attuale presidente della Commissione di Bruxelles che decadrà dal suo attuale incarico nel 2019, pensi a se stesso come candidato a quella carica presidenziale che oggi è più di forma che di sostanza ma che in un’Europa sulla linea di Ventotene diventerebbe del tutto simile alla struttura costituzionale degli Usa.
L’alternativa è che quella carica, ammesso che la linea Ventotene diventi una realtà, sia rivendicata da Merkel o da Macron. Si tratta tuttavia, in entrambi i casi, delle due figure politicamente più importanti dell’Europa attuale, partecipi di un duumvirato che non può essere rotto a favore dell’uno o dell’altro. Più probabile, sempre che sia una figura conosciuta e approvata dal corpo elettorale europeo, che sia di uno spagnolo o di un italiano. Non credo Renzi e non credo neppure Gentiloni o Mattarella: non sono personaggi di autorità popolare europea. Mario Draghi? È la persona più nota e più internazionale. Forse avrebbe le maggiori chance anche se non è molto amato dalla classe dirigente tedesca. Ma l’idea che Draghi sia pronto a battersi per raggiungere quell’obiettivo mi sembra — conoscendolo bene — da escludere.
Un Presidente europeo con poteri simili a quelli del Presidente americano non è facile da individuare. Il primo negli Stati Uniti americani fu Washington che veniva dall’aver guidato e vinto la guerra anticoloniale contro gli inglesi. Nell’Europa attuale una figura simile è molto difficile da trovare. Ma un personaggio c’è: è tedesco ma non è un allievo di Angela Merkel, semmai potrebbe essere il contrario. Ha un’esperienza politica di prim’ordine; è social- democratico; ha 73 anni, età perfetta per quella carica; è stato Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005; adesso presiede un’associazione dedicata ad educare politicamente e culturalmente i giovani. Si chiama Gerhard Schröder. Sarebbe un eccellente Presidente della nuova Europa. E Juncker potrebbe essere uno dei ministri del suo governo mentre Merkel, come tutti gli altri capi dei 27 governi, continuerebbe ad essere la Cancelliera del proprio, sempre che le elezioni imminenti vadano a suo favore. Quanto all’Italia, in una situazione auspicabile di quel genere, noi avremmo tutto lo spazio per far valere le nostre motivazioni ed anche un ruolo importante nella politica europea, specie sul tema dell’immigrazione e su quello economico dell’occupazione e del liberalismo socialdemocratico. Se il nome di Schröder che ora abbiamo fatto e la proposta che diventi presidente dell’Europa andassero a buon fine, immagino che Spinelli, Rossi e Colorni ne sarebbero felici. Ed io con loro.

Il Fatto 17.9.17
Lampedusa cambia pelle: “Tanti furti, basta migranti”
L’isola che non c’è più - Era simbolo dell’accoglienza, ora il sindaco Martello lamenta: “I tunisini rubano frutta e molestano i turisti” E Micari gli dà ragione
di Tommaso Rodano

L’isola dell’accoglienza non c’è più. La cartolina spedita ieri da Lampedusa annulla le distanze tra lei e l’Italia: nei giorni del trionfo del minnitismo, la tolleranza verso chi arriva dall’Africa è diventata un lusso che nessuno si permette più.
Il sindaco Salvatore Martello ha voltato pagina e chiuso quella stagione: “Non ce la facciamo più, l’isola è al collasso”. La colpa, sostiene, è dei migranti ospitati nell’hot spot lampedusano: “Le forze dell’ordine sono impotenti, nel centro ci sono 180 tunisini, molti dei quali riescono tranquillamente ad aggirare i controlli: bivaccano e vivono per strada. L’hot spot deve essere chiuso, è una struttura che non serve a niente. Siamo abbandonati”.
Prosegue con le accuse agli africani: “I bar sono pieni di tunisini che si ubriacano e molestano le donne. Ricevo decine di messaggi di turisti impauriti, gli albergatori, i commercianti e i ristoratori subiscono quotidianamente, non ce la fanno più”.
Moltiplica gli episodi: “Per due volte un fruttivendolo che si trova davanti alla stazione dei carabinieri ha subìto il furto di fiaschi di vino. Ci sono furti continui nelle botteghe di abbigliamento e di alimentari, molestie nei confronti dei turisti. La situazione è ingestibile”. Gli ospiti dell’hotspot – o almeno “molti di questi”, dice Martello – “sono delinquenti, che vadano in carcere”.
Il neo sindaco è stato eletto a giugno alla guida di una lista civica, in passato aveva governato l’isola già dal 1993 al 2002. Aveva vinto le elezioni promettendo che avrebbe cambiato il sistema d’accoglienza, è stato di parola. Figlio di pescatori, ex comunista, si definiva bersaniano. Ha sconfitto nelle elezioni di giugno Giusi Nicolini, arrivata terza, dietro anche al candidato del Movimento 5 Stelle. Nicolini è conosciuta come “la sindaca dell’accoglienza”: aveva plasmato l’immagine di Lampedusa raccontata da Gianfranco Rosi in Fuocoammare, il film vincitore dell’Orso d’oro di Berlino, selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar. La stessa Nicolini che aveva ricevuto il Premio Unesco, e aveva portato Lampedusa alla candidatura al Nobel per la Pace. L’ex sindaca è amatissima da Matteo Renzi: l’aveva portata nella delegazione di “eccellenze” italiane ricevute a Washington da Obama, poi l’ha scelta nella sua nuova segreteria del Pd dopo le ultime primarie.
Quella stagione – in cui la Nicolini era un simbolo, e Renzi sosteneva che per salvare i migranti si dovesse rinunciare a qualche punto nei sondaggi – è stata seppellita dal (popolarissimo) pragmatismo del ministro Minniti. Le parole di Martello cancellano l’eredità della Nicolini, mentre la svolta di Renzi sui migranti era già arrivata con un “aiutiamoli a casa loro”.
Al corto circuito politico si è aggiunto anche il candidato sostenuto da Renzi alle prossime regionali siciliane, Fabrizio Micari.
Il rettore ha sostenuto la posizione di Martello, con una dichiarazione che dà un colpo al cerchio e l’altro alla botte: “L’allarme del sindaco di Lampedusa non deve essere sottovalutato, – ha detto l’orlandiano – non è certo in discussione la vocazione dell’isola all’accoglienza, ma bisogna garantire sicurezza per tutti i cittadini anche a tutela degli stessi migranti. Bisogna mantenere in ogni contesto il rispetto delle regole di civile convivenza oltre che dei diritti umani”.
Secondo Giusi Nicolini, invece, Martello sta facendo propaganda sulla pelle dei migranti: “L’emergenza sarebbero due tunisini che rubano frutta? È un allarme ridicolo. Si sta cercando di ricreare quel clima di paura che c’era prima della mia elezione, quando si amministrava l’isola con la logica emergenziale. Io ho gestito drammi enormi mentre ero sindaca, mi pare che Martello stia rovinando in un sol colpo il faticosissimo lavoro che abbiamo fatto per restituire all’isola la sua dignità. Vuole creare una emergenza che non c’è più”.
Controreplica di Martello: “Non rispondo a Giusi Nicolini, non accetto provocazioni da chi ha perso le elezioni”. Si torna lì alle elezioni, ai sondaggi, alla misura del consenso, ai numeri.
Mentre la linea dura fa nuovi proseliti, altri numeri vengono invece ignorati: quelli dell’Organizzazione internazionale per le migrazione, riportati qualche giorno fa da La Stampa. Nei mesi di luglio e agosto gli arrivi sulle coste europee sono stati dimezzati, ma i morti nel tentativo di migrare sono più che raddoppiati: dai 62 del 2016 ai 151 del 2017.

Il Fatto 17.9.17
Certe donne islamiche razzolano male
Falsi alibi - Giustificano con l’ignoranza la sottomissione ai mariti jihadisti, ma è colpa della loro cultura
Certe donne islamiche razzolano male
di Roberta Zunini

Io, donna atea, mi domando: perché la maggior parte delle donne musulmane di successo che risiedono o hanno ottenuto la cittadinanza di un Paese occidentale, ci ricordano sempre che bisogna fare distinzione tra Islam radicale e moderato, ma poi giustificano la sottomissione delle donne dell’Isis con il mancato accesso all’istruzione? È successo di nuovo l’altra sera a Piazzapulita
, a commento di una preziosa intervista a una vedova siriana dell’Isis che propugnava, in un buon inglese, l’obbedienza al marito jihadista e allo Stato Islamico.
Questa considerazione di per sé sensata resta una frase a effetto se non si spiega chi gliela dovrebbe dare, questa sacrosanta istruzione. Noi occidentali, considerati dei senzadio immorali, o le autorità dei Paesi da dove queste signore provengono? Se invece le donne musulmane “vere”, dunque moderate e spesso laureate in Occidente, si riferiscono, per esempio, alla Turchia in cui vige l’Islam cosiddetto moderato del “Fratello musulmano” Erdogan, dovrebbero ricordarsi che il Sultano ha abolito l’insegnamento dell’evoluzionismo darwiniano dalle scuole pubbliche e private ed è l’artefice della regressione culturale turca in atto da anni. Quando poi si sottolinea che la Turchia ha accolto milioni di profughi con umanità, io rispondo per esperienza diretta: “Come no! Permettendo che le piccole profughe siriane lavorino nelle fabbriche clandestine che cuciono le divise dell’Isis o lasciandole mendicare o confinandole nei campi!”.
Tutti i raìs dei paesi islamici, compresi quelli “moderati” – fatta eccezione in positivo per la Tunisia che non ha più un raìs – da tempo consigliano alle donne di non studiare nè lavorare, ma di rinchiudersi entro le mura domestiche a sfornare quanti più figli possibile, non solo in patria, ma anche nei paesi che le hanno accolte, allo scopo di sconfiggere gli infedeli all’interno dei propri confini.
La domanda cruciale rimane sempre inevasa: perché i musulmani cosiddetti pacifici, che si ritengono peraltro la maggioranza, non scendono in massa in piazza per dire no alle violenze commesse in nome di Allah? Perché le donne musulmane che vivono in Occidente non sfilano davanti all’ambasciata saudita o iraniana, come hanno fatto davanti all’ambasciata birmana in Israele, Francia, Gran Bretagna per protestare, giustamente, contro la repressione della minoranza islamica Rohingya del Myanmar?
Le portavoce dell’Islam cosiddetto moderato predicano bene e razzolano male. Sullo Ius soli si possono anche avere pareri discordanti; ma non si può impedire agli italiani, specialmente alle donne, di domandarsi cosa accadrebbe se questo genere di musulmane generassero ancora più figli nella nostra prateria culturale, dentro le nostre società finora aperte, qualora venissero dotate della possibilità di far diventare immediatamente – senza un percorso culturale adeguato – cittadini italiani i figli nati in Italia, oppure quelli nati all’estero dopo appena 5 anni di scuola elementare.
Lo Ius soli puro c’è solo in America, ma è stato istituito molto tempo fa, soprattutto perché in quel territorio immenso e poco popolato a quell’epoca serviva manodopera. Se poi lo Ius soli fosse la panacea di tutti i mali, mi domando perché la maggior parte dei pochi indiani d’America sopravvissuti al genocidio anglosassone, pur essendo cittadini americani, versino dopo secoli in condizioni miserabili.
I fan di questa legge – perlomeno perfettibile – sullo Ius soli dovrebbero tuttavia riconoscere che in Italia non è necessaria la cittadinanza immediata perché i figli di profughi e immigrati possano frequentare le nostre scuole, o farsi curare dal nostro sistema sanitario. Il punto è che questi puri di cuore che vivono nei palazzi nobiliari vorrebbero impedire a chi vive in periferia persino di provare uno dei sentimenti primari dell’uomo: la paura nei confronti di chi potrebbe venire a casa tua a importi la sua violenza fisica e psicologica.
Aveva proprio ragione Ennio Flaiano quando scriveva: “In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti”.

Il Fatto 17.9.17
Senatrice dal 2016, è la sintesi di Obama e Hillary
Kamala Harris, i Democratici hanno già l’anti-Trump
di Stefano Pistolini

È probabile che i Democratici americani – o buona parte di loro – stiano per individuare il personaggio sul quale concentrare i propri sogni, per scacciare gli incubi coi quali ogni mattina si svegliano, da quando Donald Trump ha messo a segno l’inopinata vittoria nella corsa alla Casa Bianca.
Mentre Trump ancora deve mangiare il suo primo panettone nello Studio Ovale, sta infatti emergendo una figura con le carte in regola per diventare la sfidante che nella corsa del 2020 potrebbe defenestrare il presidente e la sua stravagante amministrazione.
Si chiama Kamala Harris e il suo identikit pare costruito ad arte dai migliori strateghi del nuovo che avanza: 52 anni, figlia di una importante ricercatrice medica sulle terapie tumorali emigrata dall’India e di un professore di Economia a Stanford di passaporto giamaicano. Papà e mamma s’incontrarono all’Università di Berkeley, culla delle grandi cause civili, e la casa di famiglia era nel quartiere nero di San Francisco.
Kamala cresce cantando in un coro battista e laureandosi in Scienze politiche alla Howard, l’alma mater dell’intellighenzia afroamericana – la stessa santificata da Ta-Nehisi Coates nel best seller Tra me e il mondo. Kamala opta per la carriera legale, diviene prima procuratore distrettuale a San Francisco e quindi procuratore generale dello Stato e si guadagna una notevole reputazione locale per le posizioni progressiste e sintonizzate sul bene comune: lancia un programma di recupero per i giovani spacciatori che ottiene un bassissimo tasso di recidività, propone riforme radicali nel campo della sicurezza a partire proprio dal reinserimento dei giovani criminali, dà vita a un dipartimento speciale nel distretto di San Francisco che si occupa di hate crimes, violenze contro i minori, i gay e tutte le minoranze.
Nel 2014 Harris si esprime in favore del matrimonio gay e riceve segnali di attenzione da parte di Obama come possibile futuro giudice della Corte Suprema. Nel 2016, conduce una trionfale corsa per un seggio senatoriale a Washington in rappresentanza della California. Vince con il 62 percento delle preferenze, sbaragliando gli avversari col sostegno di Obama e Joe Biden.
Il 21 gennaio di quest’anno arriva per lei il primo vero defining moment, il momento magico a livello nazionale, che la piazza sulla mappa politica di coloro che contano in America, grazie al suo rovente discorso davanti a mezzo milione di persone in occasione della Marcia delle Donne a Washington, coincisa con il giuramento di Trump. In un baleno Kamala Harris diviene il nome sulla bocca degli influencer liberal e il suo primo intervento al Senato, con 12 minuti di critiche ai propositi presidenziali di Trump, rafforza la sua posizione, sospinta anche dalle sue dichiarazioni in favore dei diritti degli immigrati e da un fortunato podcast realizzato con David Axelrod, lo stratega che letteralmente costruito l’ascesa presidenziale di Obama.
La Harris ha tantissimo per piacere: è bella, colta, autorevole, passionale. La sua intelligenza è smagliante e la capacità dialettica vigorosa.
E poi ha quel cocktail di razze nel sangue che ne fa una icona vivente del contemporaneo: è nera, ma anche asiatica e intensamente americana.
Le sue posizioni sono di un progressismo che dovrà smussare, se vuole sperare di convogliare verso una sua candidatura le simpatie della maggioranza: è in favore dell’aborto, contro la pena di morte, ecologista convinta, in favore del controllo sulle armi e dei diritti dei dreamers, gli americani di prima generazione, figli di immigrati clandestini. Un programma che sembrerebbe quello di una predestinata alla sconfitta per eccesso radical, ben più di un Bernie Sanders o di una Elizabeth Warren – le altre personalità su cui si concentrano le simpatie dei progressisti americani.
Ma Kamala, che ormai non nasconde il proposito di provarci e sta iniziando le manovre indispensabili per riuscirci – a cominciare dalla raccolta di potenziali finanziatori di una campagna – ha frecce acuminate per il suo arco: perché è una faccia nuova, rispettabile, intensa. Perché piacerà enormemente ai giovani e a coloro che andranno a votare per la prima volta. E sarà la beniamina delle minoranze, che la sosterranno compattamente. Soprattutto perché permetterà al partito democratico di chiudere il suo rapporto con la generazione dei baby boomers (quella dei Biden, che ancora pensa a una corsa elettorale), erigendosi a simbolo della nuova generazione per prende in mano il futuro del paese. Ed è una donna, di straordinaria forza morale. Quella giusta per vendicare lo smacco dolorosissimo della sconfitta di Hillary.

Repubblica 17.9.17
Statali, 500 mila in pensione in 4 anni
Ma mancano le regole per i concorsi

Nei prossimi quattro anni nella pubblica amministrazione andranno in pensione cinquecentomila persone, quasi un sesto del totale. Non c’è nulla di cui stupirsi: la loro età media oggi è già superiore ai 50 anni, nel 2020 avrà superato i 53. «Sarà una occasione straordinaria per abbassarla», dice il sottosegretario Angelo Rughetti. Fra i dipendenti in attività solo il 27 per cento ha meno di 45 anni. Eppure non è pianificato alcun concorso e nel frattempo occorre ripensare l’intero metodo di reclutamento. La prossima Finanziaria stanzierà i fondi per il rinnovo dei contratti di chi un lavoro lo ha già e non prevede nulla invece per chi non l’ha. Lo ammette lo stesso Rughetti: «La legge di Stabilità può essere una occasione non solo dal punto di vista delle risorse da impegnare ma anche da quello metodologico».
L’ultima riforma Madia della Pubblica amministrazione supera il vecchio principio del turn-over, ovvero quello che prevede tante assunzioni a fronte di altrettanti prepensionamenti. Un principio che nell’ultimo ventennio ha permesso blocchi indiscriminati o nella migliore delle ipotesi a privilegiare le amministrazioni più grandi. Per andare oltre c’è bisogno di un piano industriale che definisca i fabbisogni della macchina, settore per settore. «Dobbiamo chiederci di cosa ha bisogno il Paese, e la scommessa va fatta ora», insiste Rughetti. La riforma prevede la predisposizione di «linee guida» delle quali non c’è però traccia. Non è un caso se, in barba all’idea di assumere dove necessario, nel frattempo l’unica iniziativa riguardi l’assorbimento dei precari: entro fine mese è attesa una circolare del ministero per aiutare le amministrazioni a gestire gli arretrati. Con buona pace delle ambizioni della riforma, quelli in attesa di contratto sono più di cinquantamila.
La ristrutturazione del settore pubblico è un problema serio sotto ogni punto di vista. Basti dire che l’ultimo rapporto della Ragioneria dello Stato sulla previdenza sottolinea che di qui a qualche anno il costo delle pensioni dedicate a loro aumenterà in maniera esponenziale. I 2,8 milioni di ex dipendenti dello Stato iscritti al’Inps nel 2010 diventeranno 3,4 milioni nel 2034: ci sono ottime probabilità che per allora il numero di lavoratori pubblici pensionati sarà superiore a quelli in attività.
Queste proporzioni le si deve alla progressiva diminuzione degli organici: negli ultimi dieci anni sono uscite più di 230mila persone su un totale di circa 3,3 milioni, il 5 per cento. Eppure il numero dei dipendenti pubblici in Italia non è scandalosamente alto. Per avere un’idea di cosa significhi in termini di servizi erogati basti dire che in Italia ci sono 5,5 impiegati ogni cento residenti, più o meno la stessa proporzione di Germania e Spagna, molti meno degli otto per ogni cento cittadini della Francia. C’è un però: fra i 3,3 milioni di dipendenti pubblici italiani non sono conteggiati quelli impiegati dalle migliaia di società partecipate dallo Stato e dagli enti locali. Sono almeno un altro milione di addetti, la gran parte dei quali impiegati in servizi essenziali come trasporti, energia, servizi alla persona.
[A.B.]

Corriere 17.9.17
«Così ho ucciso Noemi Abbiamo fatto l’amore poi l’ho colpita alla testa»
dal nostro inviato Andrea Pasqualetto

SPECCHIA (Lecce) «Passata la settimana del Tso, convinsi mio padre e mia madre che l’avrei eliminata dalla mia testa (si riferisce a Noemi, ndr ) e così non fu. Io la amo ancora e non la tradirò mai, per poter tenermela stretta e più in là sposarmela».
Si conclude così una lunga lettera scritta da L. (il fidanzato 17enne arrestato con l’accusa di avere ucciso Noemi) e trovata dagli investigatori in una pen drive. È datata 30 agosto. Dopo tre giorni L. l’ha uccisa e lui l’ha confessato così: «Quella notte ci siamo incontrati perché mi aveva nuovamente chiesto di far fuori i miei genitori. Aveva un coltello, credo da cucina... Dopo averglielo tolto, l’ho colpita alla testa e poi con alcuni sassi. Con il coltello una sola volta perché la lama si è spezzata e il manico mi è rimasto in mano… Prima avevamo avuto un rapporto sessuale».
Al di là del movente e delle modalità del delitto, sui quali gli inquirenti hanno molte perplessità, restano i fatti: da una parte una lettera d’amore, dall’altra un delitto. Entrambi firmati da questo diciassettenne che ieri, su consiglio dei suoi difensori, ha deciso di non aggiungere altro davanti al gip del Tribunale per i minorenni di Lecce. L’avvocato Luigi Rella ha chiesto per lui una perizia psichiatrica per stabilire la capacità di intendere e di volere al momento dell’omicidio. Ma il pm non crede né all’incapacità né al delitto d’impeto: «Condotta violenta, crudele e premeditata tenuta da L. nelle prime ore del 3 settembre», ha scritto nel decreto di fermo. Rimangono dei dubbi sul perché L. abbia ucciso e, soprattutto, sul ruolo di suo padre, indagato per concorso in occultamento di cadavere «solo per una questione tecnica, cioè per poter eseguire alcune perquisizioni», ha aggiunto ieri un investigatore.
E rimane questa strana lettera, nella quale L. ripercorre l’ultimo tormentato anno, con Noemi e con il padre. «Un giorno andai con il mio migliore amico alla villetta del paese per incontrare gli altri amici e vidi una ragazza di nome Noemi che mi piaceva già da un bel po’ e feci di tutto per rimorchiarla… Dopo 30 giorni stavamo insieme e iniziarono guai seri con mio padre e mia madre che mi portarono all’esaurimento nervoso. Una sera furono così tante le lamentele da parte dei miei che io mi ribellai scatenando tutta la rabbia che avevo verso di loro…». E lì volarono le «manate» e ci fu il primo Tso. «Lei mi dava la forza per scappare da mio padre… Con Noemi però litigavo spesso e io soffrivo talmente tanto che mi rinchiusero a Casarano». Altro Tso. E un altro ancora lo scorso 21 luglio, dopo nove birre bevute in una sera e un crollo «etilico». Poi venne il giorno del delitto, i tentativi di depistaggio e la consegna. «E lui lo chiamava amore», ha sospirato ieri sera Umberto Durini, il padre di Noemi, passandosi una mano sulla testa. «Poco prima della scomparsa — ha ricordato sua moglie Imma — mia figlia mi aveva detto “mamma io parto, mi prendo il diploma e aiuterò le persone in difficoltà”». Nel ragazzo pare sia spuntato un barlume di pentimento: «Ho sbagliato — avrebbe detto — potevo uccidermi e avrei evitato questo casino».

La Stampa 17.9.17
“Nel computer l’intenzione di uccidere Noemi”
L’ex fidanzato accusato di omicidio premeditato
Carmine Festa

Lucio non risponde ai magistrati. Non chiarisce fin nei dettagli perché ha ucciso Noemi, la sua fidanzatina e compagna di scuola di sedici anni. Al diciassettenne la Procura dei minori di Lecce contesta però l’omicidio premeditato aggravato dalla crudeltà dei futili motivi. Dalla confessione, dal telefonino e dal computer del diciassettenne di Specchia, secondo il pm, emergono elementi tali da far ritenere che Lucio non abbia assassinato Noemi in preda ad un impulso omicida ma che l’aggressione mortale alla sua fidanzatina sia stata meditata. E anche a lungo. Questo il racconto della sua confessione. Il tre settembre scorso, giorno della scomparsa di Noemi, Lucio è andato a casa sua intorno alle quattro del mattino. A bordo della 500 della sua famiglia, i due hanno attraversato diversi centri del sud Salento fino ad arrivare a Santa Maria di Leuca. Di lì a Castrignano del Capo dove Lucio ha svoltato per una stradina in aperta campagna. È sceso dall’auto con la scusa di accendere una sigaretta. Dalla macchina è scesa anche Noemi che Lucio dice di aver colpito al collo con un coltello che la ragazza avrebbe portato con sé. Poi, una volta a terra, l’ha colpita con alcune pietre (anche se la tac effettuata sul cadavere ha escluso fratture al cranio della vittima). Infine l’avrebbe sepolta sotto un cumulo di sassi dai quali spuntavano solo i piedi. È così che i carabinieri l’hanno trovata. La premeditazione di Lucio risulterebbe inoltre anche da tracce lasciate sul telefonino ed il computer del diciassettenne. Il pc di Lucio conterrebbe una lettera indicativa della volontà di uccidere, appunti sparsi di questa storia tremenda che ha trasformato una relazione amorosa tra due ragazzini in un delitto atroce. Del piano che Noemi avrebbe ideato per uccidere i genitori di Lucio, il ragazzo non ha parlato durante la confessione del delitto. I carabinieri lo trovarono a Lucugnano, frazione di Tricase, in stato di choc: piangeva e tremava e chiese ai militari di essere accompagnato in caserma a Specchia. Poco prima aveva ucciso la sua fidanzatina ed avrebbe avvolto il coltello usato per l’omicidio in una maglietta. Ai carabinieri Lucio non ha saputo indicare il luogo in cui avrebbe gettato il coltello usato per ammazzare Noemi. Ieri il ragazzo ha deciso di non rispondere all’interrogatorio del magistrato. È provato e non sta bene - dice il suo avvocato Luigi Rella all’uscita della comunità protetta in cui Lucio è stato trasferito subito dopo il fermo. «Ha ripreso a mangiare dopo due giorni - continua il legale - ed ha chiesto di essere portato in una struttura dove poter continuare a studiare».
Lucio compirà diciotto anni a dicembre ed è sua intenzione finire la scuola. Quella stessa scuola che frequentava con Noemi prima che la loro storia d’amore diventasse il palcoscenico di una tragedia. Un dramma che non lascia fuori le famiglie dei due ragazzini. Dal tre settembre scorso, giorno della scomparsa di Noemi, i genitori dei due ragazzini hanno iniziato ad accusarsi e a minacciarsi. Che avversassero per ragioni opposte quell’amore è ormai chiaro. Probabilmente il peso delle famiglie ha avuto un ruolo determinante nel tragico epilogo di questa vicenda. Sarebbero rimasti inascoltati gli appelli della madre di Noemi che avrebbe chiesto più volte alla magistratura di proteggere sua figlia. Sul caso indagano gli ispettori del ministero della Giustizia che hanno acquisito atti presso la Procura dei minori di Lecce. Anche la famiglia di Lucio era contraria a quella storia tra i ragazzi. Ma ora urla, offese e minacce non hanno più senso. Noemi è morta e Lucio dovrà fare i conti per tutta la vita con ciò che ha fatto il tre settembre.

Il Fatto 17.9.17
L’odiosa schiera dei “se l’è cercata…”
“Il desiderio è istinto primordiale, le donne siano più caute”.
Vincenzo D’Anna, senatore Ala
di Antonio Padellaro

Puntualmente, ogniqualvolta (molto spesso) una donna (o una ragazza o una bambina) viene uccisa (o stuprata o sfigurata o torturata o tutte queste cose insieme) dal proprio compagno (o marito o fidanzato o passante o immigrato o milite, ma qui la varietà dei generi può essere infinita) spunta su qualcuno a contestare con manifesta irritazione l’espressione: femminicidio (“non esiste, trattasi di comuni omicidi”). O a dimostrare, statistiche alla mano, che il numero delle donne in vario modo massacrate è diminuito addirittura del due o due e mezzo per cento, fate voi. Pensate un po’: 27 donne assassinate (poi gettate in un pozzo o sepolte sotto i sassi o trascinate da un’auto in corsa o finite a bastonate o arse vive) dall’inizio dell’anno mentre nel 2016 furono una o due di più (davvero tranquillizzante). Fino a declinare con diverse forme il cosiddetto senso comune da osteria o da cesso pubblico o da caserma o da casino (quando esistevano). Ovvero: quella se l’è cercata. Attenzione, non ci addentreremo nelle motivazioni profonde che scatenano in individui apparentemente normodotati tali patologie. Altro è l’interrogativo: come mai invece di venire accuratamente occultate simili flatulenze del linguaggio vengono esibite con soddisfazione, comunicate all’intero globo con pochi ma ben assestati colpi sulla prima tastiera sottomano? Perché mai si vogliono amplificare i propri rutti (con rispetto parlando) quando quelle medesime nullità in un consesso civile si silenzierebbero con un fazzoletto davanti alla bocca? Si tratta, viene spiegato, della sindrome da social. Ovverosia, l’insopprimibile impulso a esibirsi nel modo più osceno e provocatorio sul palcoscenico della Rete, costi quel che costi, anelando di essere sommersi da una marea di commenti fatti della stessa scivolosa sostanza che si è sparsa a piene mani. Insomma: gli odiatori si moltiplicano perché cresce il numero degli esibizionisti da smartphone. È un universo di zombie narcisisti che si contagiano gli uni con gli altri in un sistema che agisce secondo la legge del più facciamo schifo meglio stiamo. Fateci caso, quante volte questi soggetti dopo aver reso virale il proprio pus, cominciano a frignare un tardivo pentimento: chiedo scusa chissà cosa mi è preso… L’unico modo è trattarli come appestati. Ignorarli è la pena peggiore che possiamo loro infliggere.

Repubblica 17.9.17
L’amaca
Michele Serra
La tragedia della ragazza Noemi sta diventando un reality show proprio in senso tecnico, con i parenti della vittima e quelli del carnefice in onda per molte ore su molte reti, non più esseri umani nel dramma ma una compagnia di giro. Bisognerebbe retribuirli, possibile che nessuno si sia ancora inventato la professione di procuratore delle famiglie colpite da delitti o catastrofi naturali, esigendo che lo sfruttamento pubblico del loro lutto sia contrattualizzato? Se zio Michele, ai tempi, avesse avuto un Raiola al suo fianco, avrebbe guadagnato come un giocatore di serie A.
Al netto della morbosità e del precipizio qualitativo del giornalismo addetto (ne ha scritto ampiamente Francesco Merlo su questo giornale), spiace dover aggiungere che l’effetto più devastante, e anche il più inevitabile, è la quasi immediata dismissione del lutto, della compassione, del sentimento di condanna per un crimine così bestiale. Diventano tutti, nel giro di poche ore, degli zio Michele, personaggi di un serial noir e non più persone, pupazzetti di un gioco che non solamente è cinico, è pure noioso, inflazionata ripetizione di figuri che tartagliano scuse o sbraitano accuse, fino a che uno spegne la televisione perché quel delitto lo ha stufato e aspetta il prossimo.

La Stampa 17.9.17
Mamma si oppone al taglio del cordone
A dare il via libera ai medici è la Procura
La donna voleva seguire un approccio olistico. Il pm: “Un segno triste dei tempi”
di Lorenzo Padovan

Nasce perfettamente sano, ma la mamma si oppone al taglio del cordone ombelicale. Con il passare dei minuti, si sviluppa un principio di infezione che rischia di minare la salute del piccino.
Di fronte alla ferrea volontà dei genitori, che hanno esplicitamente dichiarato di vietare qualunque intervento sul bimbo - compreso il parto cesareo, se si fosse profilata questa necessità -, i medici hanno telefonato alla Procura della Repubblica e sono stati autorizzati a procedere con immediatezza con la recisione del cordone e il posizionamento precauzionale del neonato in incubatrice. Nel frattempo anche la mamma e il papà avevano capito che non era il caso di rischiare e avevano concesso il loro benestare. La situazione si è normalizzata nell’arco di alcune ore.
È accaduto all’ospedale di San Daniele del Friuli (Udine). Protagonista una donna che aveva deciso di procedere con il parto secondo i dettami della «Lotus Birth», un approccio olistico che nel 1974 era stato mutuato dall’ideatrice osservando il comportamento di uno scimpanzé, che non aveva reciso il cordone ombelicale lasciandolo attaccato alla placenta.
Quest’ultima viene lavata e conservata in un apposito sacchetto, a volte cosparsa di sale grosso ed erbe per favorirne l’essiccamento, e di qualche goccia di olio profumato per mascherarne il cattivo odore, e trasportata sempre con il neonato.
Dopo qualche giorno il distacco del cordone avviene in modo naturale. I seguaci di questo tipo di maternità sono persuasi che si ottenga un migliore attaccamento alla madre dal punto di vista psicologico, ma anche un rafforzamento delle difese immunitarie ed uno sviluppo armonioso.
Di parere completamente opposto un’autorità sanitaria riconosciuta a livello planetario quando si parla di ostetricia: per il britannico Royal College of Obstetricians and Gynaecologists la scelta è pericolosa e si corre il rischio di infezioni per i batteri presenti nella placenta quando questa ha terminato di svolgere il proprio compito.
In generale, i tempi del taglio del cordone ombelicale sono da anni al centro di studi scientifici ed è sempre più diffuso l’intervento trascorso qualche attimo dalla nascita del bambino, contrariamente a quanto accadeva una volta, quando era contestuale alla venuta alla luce.
Le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla questione dicono che «il clampaggio ritardato del funicolo ombelicale (cioè quello fatto non prima di un minuto dalla nascita) è raccomandato per favorire migliori condizioni di salute e di nutrizione della madre e del bambino». In particolare si scongiurano future anemie, ma c’è anche una miglior stabilizzazione dell’apparato cardio-circolatorio del bambino, che permette una più efficace entrata in funzione dei suoi organi.
«Ciò che è accaduto - ha affermato il Procuratore della Repubblica di Udine Antonio De Nicolo - è un segno triste dei tempi, che dimostra a che punto sia arrivata la medicina difensiva». Il suo ufficio non ha adottato alcun provvedimento; ai sanitari ha dato solo una semplice indicazione: «La mission dei medici è salvare vite. Nel momento in cui sussiste un pericolo, il trattamento sanitario va fatto. I medici devono essere liberi e sereni nello svolgere il loro lavoro per salvare i pazienti - ha constatato il Pm -. Evitare le denunce è impossibile, ma qualora arrivasse, chiaramente archivieremo. Se al contrario il neonato fosse morto in assenza di intervento, in quel caso sì che avremmo aperto un fascicolo d’indagine». «Chiunque - ha proseguito De Nicolo - è esposto al rischio delle denunce. Non lo si può evitare. Ma se uno fa il suo dovere non deve chiedere il preventivo avvallo della magistratura».

Corriere 17.9.17
Quei cartelli criminali che non sono mai nati
di Pino Arlacchi

Caro direttore, il Viminale ha diffuso di recente alcuni dati in grado di lasciare di stucco le Cassandre che imperversano nella vita pubblica italiana. Queste cifre mostrano come la criminalità più violenta in Italia è continuata a diminuire anche quest’anno, dopo aver toccato nel 2016 il suo minimo storico di 397 omicidi. Sono 0,65 morti violente ogni 100 mila abitanti. È un dato tra i più bassi del mondo, ed esprime un trend solido, che dura ininterrotto da venticinque anni. Per dare un’idea: nel 1991 si verificarono in Italia quasi 2.000 uccisioni, 1.136 delle quali nel triangolo criminale Campania-Sicilia-Calabria, regioni dove l’ultra-violenza arrivò a superare i livelli di luoghi-simbolo come New York e Chicago.
La violenza più grave (quella della criminalità organizzata, dei furti e delle rapine col morto, delle vendette, delle liti e degli odi familiari più estremi) è decresciuta costantemente al Nord come al Sud, nelle metropoli e nelle province in un Paese che nonostante tutto ha continuato ad incivilirsi invece di incanaglirsi. Non siamo mai stati così sicuri, soprattutto nelle città più grandi. Roma, Genova, Milano, ma pure Palermo, Catania e perfino Napoli hanno visto crollare la violenza letale a livelli mai conosciuti.
La violenza contro le donne è in Italia la più bassa d’Europa. Chi avesse dei dubbi può leggersi l’analisi di Dalla Zuanna-Minello su il Foglio del 27 agosto.
Il declino della violenza criminale non è stato interrotto né da un decennio di crisi economica, né da una colossale ondata migratoria. Esso è cominciato proprio quando la popolazione nata all’estero ha iniziato una crescita di quasi venti volte, da 340 mila individui del 1991 ai quasi 6 milioni di oggi.
Un esercito di giovani maschi provenienti da quasi ogni parte del pianeta, candidati naturali al disadattamento e alla protesta violenta, si sono stabiliti in Italia in modi sostanzialmente pacifici. Essi hanno smentito i profeti di sventura che li vedevano protagonisti di una impennata generale della delinquenza, e non hanno riempito i vuoti creati nei piani alti della malavita dall’offensiva antimafia post-Capaci e Via D’ Amelio.
Una contenuta minoranza di nordafricani e latinoamericani (in prevalenza irregolari) sono entrati, è vero, nelle reti di distribuzione delle droghe mentre albanesi e romeni importavano giovani prostitute e altri si dedicavano agli scippi ed ai furti. Ma non si sono formati cartelli criminali in grado di sostituire Cosa nostra, e la strada della delinquenza non è riuscita, in fin dei conti, ad attrarre numeri significativi di immigrati.
Non siamo in balìa delle mafie di stranieri immigrati per due ragioni principali. Da un lato la crescita di efficienza delle nostre forze di polizia lungo gli stessi anni 90 ha chiuso gli spazi per la nascita di gruppi criminali in grado di agire su vasta scala.
Dall’altro, questo contingente di emigrati è composto in larga parte da soggetti che nutrono poca simpatia verso il crimine organizzato perché già vittimizzati dalle mafie dei Paesi di origine, e perché sfruttati ferocemente dai trafficanti di esseri umani.
È anche per queste ragioni che la società italiana è stata capace di assorbire l’ondata migratoria degli ultimi venticinque anni senza trasformarsi in un campo di battaglia e senza creare ghetti e odi diffusi. Il trend depressivo della violenza e la spinta verso l’incivilimento, che sono universali, hanno potuto così dispiegarsi anche nel nostro Paese. Consentendo ai governi Renzi-Gentiloni di costruire una strategia verso l’immigrazione la cui eccellenza viene adesso riconosciuta in tutta Europa.
Tutto ciò non piace agli imprenditori della paura, che non sono solo i populisti e l’estrema destra, ma anche chi nella comunicazione produce a getto continuo mostri, allarmi gonfiati e catastrofi, facendoci perdere la fiducia in un mondo più decente.

La Stampa 17.9.17
Putin cerca di spezzare l’Occidente
di Maurizio Molinari

Dal Mar Baltico alla Nord Corea fino al Medio Oriente: la mappa delle crisi vede la Russia di Vladimir Putin nel ruolo di protagonista, con la costante intenzione di portare scompiglio nel campo dell’Occidente al fine di allontanare l’America dai suoi alleati.
È l’evoluzione delle crisi regionali a descrivere la miscela di aggressività militare ed abilità diplomatica grazie alle quali Mosca guadagna terreno, praticamente ovunque, ai danni dell’Occidente. Nel Mar Baltico sono iniziate le manovre militari Zapad-2017, le più imponenti dalla fine della Guerra Fredda, che vedono Putin schierare un’armata convenzionale, con l’appoggio di reparti bielorussi, lungo i confini di Lettonia, Lituania ed Estonia, a cui si aggiunge il posizionamento nell’enclave di Kaliningrad di missili a medio raggio. Se a ciò aggiungiamo le pressioni esercitate da Mosca su Finlandia e Svezia affinché non aderiscano alla Nato, è facile dedurre che Putin ha scelto questo angolo d’Europa per mostrare i muscoli all’Alleanza. Recapitando alle minoranze russofone - a cominciare dalla Lettonia - il messaggio che Mosca è pronta a proteggerle, come già fatto nel marzo 2014 con l’annessione della Crimea ai danni dell’Ucraina. I timori di invasione russa che rimbalzano da Varsavia a Riga lasciano intendere come Putin abbia già raggiunto l’obiettivo di mettere sulla difensiva la Nato lungo la sua frontiera più avanzata, i Paesi ex comunisti.
Anche in Estremo Oriente Putin è all’offensiva, ma con armi più sofisticate di tank e missili.
Nei
confronti del Giappone di Shinzo Abe esercita un tentativo di seduzione basato sulla possibilità di restituire le isole Kurili occupate negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale. Per almeno tre volte Putin ha fatto balenare tale ipotesi, senza dargli mai seguiti concreti ma limitandosi ad incassare un canale privilegiato con Tokyo. In maniera altrettanto disinvolta il Cremlino si muove nella partita nordcoreana: fa quadrato con Pechino nell’opporsi al cambio di regime a Pyongyang e propone la «simultanea sospensione» dei test atomici di Kim Jong-un e delle manovre militari Usa-Sudcorea all’evidente fine di rovesciare la responsabilità dell’escalation sulla Casa Bianca. Per fare breccia, a Seul come a Tokyo, fra quei leader politici locali che perseguono l’appeasement con la spietata dittatura nordcoreana. Dall’Accademia di Scienze Sociali di Liaoning, il politologo cinese Lu Chao, riassume così quanto sta avvenendo: «Mosca e Pechino vogliono difendere lo status quo dal tentativo Usa di stravolgerlo». Ovvero, è il patto Putin-Xi a garantire la stabilità. Se a questo aggiungiamo gli incontri fra il ministro degli Esteri Sergei Lavrov e gli inviati di Kim, il moltiplicarsi dei traffici illeciti fra Vladivostok ed i porti nordcoreani, come a cavallo del fiume Tumen che separa i due Paesi, ne esce l’immagine di una Russia che non vuol far cadere Kim e cerca spazio politico in Giappone e Sudcorea, ovvero sfida gli interessi americani su entrambi i fronti.
E ancora: sullo scacchiere della Siria, dove è riuscita a far sopravvivere il regime di Bashar Assad grazie all’intervento militare del settembre 2015 a fianco dell’Iran, la Russia sta ora tentando di accreditarsi come garanzia di sicurezza per Israele, il maggior alleato di Washington nella regione. Se in meno di due anni il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha incontrato Putin almeno cinque volte è perché Gerusalemme oramai considera la Russia un «Paese confinante» in ragione della presenza delle sue truppe in Siria dove possono creare un cuscinetto strategico di separazione con Hezbollah e milizie sciite pro-iraniane. In maniera analoga Lavrov si è recato in Arabia Saudita e Giordania per recapitare un messaggio inequivocabile: proprio perché la Russia è alleata dell’Iran, dopo la vittoria in Siria, può garantire - assai meglio di Washington - gli interessi dei sunniti. Infine, ma non per importanza, l’Egitto: Putin gli offre aiuto in Cirenaica contro i jihadisti e lo spinge a sostenere Assad suggerendogli come tornare protagonista nel mondo arabo.
Ciò che tiene assieme tali e tante mosse è la strategia di Putin di voler portare scompiglio in Occidente, ovvero indebolire il legame fra Washington ed i suoi alleati tradizionali fino a spezzarlo del tutto. Intimorire i Paesi Baltici significa fiaccare la deterrenza della Nato in Europa, difendere il regime di Kim serve a incunearsi nella partnership di Washington con Seul e Tokyo in Estremo Oriente, giocare la carta siriana consente di creare una relazione inedita con Israele e sunniti in Medio Oriente, sempre in alternativa alla Casa Bianca. Scompaginando ovunque il fronte americano. È una strategia che nasce dalla volontà russa di privare Washington della rete di alleanze costruite durante la Guerra Fredda - strumento della dimensione globale del potere americano - per ridisegnare i rapporti internazionali sulla base di relazioni fra singole nazioni, consentendo così a Mosca di riacquistare un ruolo di leadership.

Corriere 17.9.17
Padri e figli, lo smartphone ci divide
«La rivoluzione digitale è un rimbecillimento». «No, papà: la rete è parte essenziale della vita»
di Aldo Cazzullo con Rossana e Francesco

Non è possibile che ovunque si vada, all’estero o in Liguria dai nonni, voi due vi portiate dietro il vostro piccolo mondo, chiuso nel telefonino. V i ricordate quella gita in Provenza? I campi di lavanda in fiore erano bellissimi; ma voi non li guardavate; eravate sempre chini sui cellulari. Vi ricordate domenica scorsa a casa dei nonni? Eravate assenti, distanti, tutti presi dallo smartphone. Ed è un peccato, perché l’amore a cerchio di vita tra i nonni e i nipoti è meraviglioso.
Si vive con lo specchio in mano. Siete una generazione con lo sguardo basso; e l’immagine riflessa su cui siete chini è sempre la vostra.
Non ve lo dico come polemica, ma con infinito amore e un po’ di preoccupazione, perché vedo in voi i primi sintomi della malattia che ha già contagiato per primi noi adulti: il narcisismo di massa. Spero che ormai vi sia chiaro: il cellulare in realtà è uno specchio. Fateci caso: le donne non girano più con lo specchietto nella borsa, per controllare il sorriso e il trucco; hanno il cellulare, con la fotocamera incorporata. Ma non è solo quello. Narciso almeno doveva andare al fiume per rinnamorarsi ogni volta di se stesso. Voi, ma dovrei dire noi, abbiamo sempre il cellulare a portata di mano. Non riusciamo a stare senza per cinque minuti. E lo usiamo per far sapere agli altri quello che facciamo, pensiamo, mangiamo, beviamo, sogniamo. Ma in realtà stiamo parlando da soli. Perché agli altri di noi non importa nulla. In rete tutti chiacchierano, molti gridano, qualcuno insulta, minaccia, calunnia; e nessuno ascolta. Alla disperata ricerca di attenzione e aiuto, tanti ragazzi affidano a YouTube e ai social le loro cose più intime, talora vergognose, come naufraghi che infilano il messaggio nella bottiglia e la affidano alle onde dell’oceano, fiduciosi che la portino nelle mani di un soccorritore; che però non c’è. Sapete quali sono le occupazioni a cui in media si dedica più tempo online? Il porno e i videogiochi.
Tutte cose che si fanno da soli. Solitudine, altro che social. La rivoluzione digitale è il più grande rincoglionimento di massa nella storia dell’umanità. Non soltanto distrugge lavoro e crea falsi idoli, arricchendo miliardari californiani restii a pagare le tasse; distrugge un patrimonio di cultura e di civiltà. Secoli di letteratura, arte, musica entrano nel cellulare, vengono fatti a pezzi e gettati in aria come coriandoli. Il meglio di quel che l’uomo ha scritto, dipinto, composto, pensato viene triturato e ridotto a frammenti, destinati a perdersi nell’oceano delle sciocchezze e delle falsità. Non vedo libri, giornali, dvd, cd in mano ai vostri coetanei, e neppure ai trentenni. Non vi vedo al cinema, a teatro, all’opera, allo stadio. Perché un film dura due ore, una partita novanta minuti più recuperi; i filmati su YouTube dopo pochi secondi vi hanno già annoiato.
Noi non eravamo sempre connessi; e questo ci ha dato modo di esercitare la fantasia. Non avevamo Wikipedia; e questo ci ha allenato la memoria. Non eravamo prigionieri della rete come criceti nella ruota; e questo ci ha insegnato ad assaporare il tempo, a volte persino la noia.
Certo, anche noi genitori siamo iperconnessi. Come ha scritto Altan: «È record, ogni cellulare possiede un italiano». Ma per un bambino o un adolescente l’ossessione di essere sempre online può diventare un pericolo ancora più grande. Perché così rischia di assuefarsi alla vita virtuale, prima ancora di aver cominciato a vivere quella vera.
Francesco & Rossana
Papà, non è possibile che tu non ci abbia dato retta. Te l’avevamo detto in tutti i modi di non scrivere questo libro. Finirai per farti odiare dalla nostra generazione, e anche dalla tua.
Noi non metteremo via il cellulare, almeno non quando ce lo dici tu. Ogni rivoluzione ha avuto i suoi hater , i suoi odiatori: i luddisti volevano distruggere i telai a vapore, il treno era un’opera di Satana; c’erano quelli che non volevano viaggiare in automobile, quelli che rifiutavano di salire sugli aerei.
La rete per la nostra generazione è parte essenziale della vita; e questo vale anche per te, visto che sei sempre chino sul cellulare.
La rete è lo spazio della libertà, offre tantissime occasioni: leggere gli scrittori che preferisci, ascoltare la musica che ti va in quel momento, parlare con una persona di cui senti la mancanza, soprattutto conoscerne di nuove. E il telefonino può aiutarti a stare meglio anche con la persona che hai di fronte. Quante volte siamo andati a cercare su Wikipedia il nome che non ricordavi, ci siamo visti il gol della Juve in diretta, abbiamo salutato i cuginetti su Skype?
Non è vero che il telefonino ci isola dal mondo, ce lo crea. Possiamo decidere di stare soli, o possiamo decidere di stare con gli altri. Possiamo spegnerlo e uscire con gli amici, o confrontarci con gli stessi amici stando a casa. Ormai ci è indispensabile per studiare, per leggere, per scrivere; anche a scuola, se usato bene. Tra l’altro, in Provenza non saremmo mai andati, se non ti avessimo mostrato su Instagram le foto della fioritura della lavanda; tu non sapevi neppure che esistesse.
Non è vero neppure che la rete distrugge il lavoro, lo cambia. In futuro ci sarà qualche posto noioso e ripetitivo in meno, perché quel lavoro lo farà la tecnologia per noi; ma ci saranno molti posti creativi, perché la rete si rinnova di continuo, reinventa tutto, collega mondi e ne costruisce di nuovi. E renderla più umana sarà la sfida della nostra generazione.
Non devi pensare che lo smartphone possa sostituire la figura del genitore, semmai spesso sono i genitori a usarli per distrarre i loro figli, come magari anche tu da piccolo venivi messo davanti alla televisione. Voi mantenete sempre il vostro ruolo fondamentale di trasmettere valori, passioni e interessi. La responsabilità di quel che siamo è vostra; non del telefonino, che semmai è il vostro alibi.



Corriere La Lettura 17.9.17
L’ambigua ascesa delle città-Stato
di Franco Farinelli

Parag Khanna, politologo indiano di successo che si autodefinisce leading global strategist , torna alla carica. E lo fa con un pamphlet che nell’edizione originale è intitolato Technocracy in America , ma che da noi assume un’altra e più generale etichetta ( La rinascita delle città-Stato , Fazi) , appunto in omaggio al presunto valore globale dell’analisi ad esso affidata. Diciamolo subito: l’unico autentico sostegno di quest’ultima consiste nell’attuale sfacelo del funzionamento del mondo, a partire dai guasti del sistema democratico.
Al riguardo la diagnosi di Khanna non perdona. Oggi la politica, scrive, non ha più l’orizzonte della persuasione, ridotta com’è a una pratica di scambio tra interessi particolari. L’America è un’oligarchia, governata da un’élite avida e corrotta, e non una democrazia, bensì da quella che Lawrence Lessig chiama «finanzocrazia». La rete sotterranea che unisce i professionisti della finanza e dell’industria militare che operano a Washington è diventata (l’espressione è di Mike Lofgren, un veterano dell’analisi parlamentare) «l’istituzione più complessa che il mondo abbia mai visto», capace di manipolare i legislatori e anche di superarli in termini di influenza e libertà d’azione. E tale deep State , questo Stato ancora più profondo dello Stato stesso perché sotterraneo, potrebbe addirittura tra non molto perdere ogni interesse per il Congresso, scavalcandolo completamente. Insomma: la democrazia rappresentativa è diventata, almeno negli Stati Uniti, una forma di gioco al ribasso in cui governare è meno importante che impedire all’avversario di farlo.
Francis Fukuyama si è chiesto se il sistema americano non abbia bisogno di uno «shock all’ordine politico» per sottrarsi all’attuale spirale discendente e tornare a concentrarsi sulle prestazioni anziché appunto sulla politica. Per Khanna l’elezione di Donald Trump può rappresentare proprio uno shock di questo tipo, e il simultaneo controllo repubblicano di Casa Bianca, Camera e Senato potrebbe preludere a una tirannia cui nessun meccanismo di pesi e contrappesi sarebbe in grado di porre rimedio. D’altronde: non aveva già Platone individuato nella democrazia la penultima fase della degenerazione dei regimi politici, anticamera della finale tirannia?
Così per Khanna non vi sono dubbi: alla democrazia va sostituita la tecnocrazia diretta orientata dai dati digitali, che è in grado di cogliere dinamicamente i desideri dei cittadini, annullando nello stesso tempo la distorsione indotta dalla rappresentanza degli eletti, e il corto circuito tra interessi particolari e corruzione dei mediatori. È questa la «devoluzione» che compare nel sottotitolo dell’edizione italiana, termine che fino a qualche tempo fa indicava il trasferimento della potestà territoriale da un soggetto a un altro, e che qui vale invece a indicare, al tempo della smaterializzazione dei processi, il passaggio dal regime democratico alla forma più tecnologica e assoluta di governo, vale a dire alla fine delle elezioni politiche. Per proteggere la città dalla degenerazione Platone suggeriva di combinare la democrazia con l’aristocrazia, invocava un comitato di Guardiani animati da spirito pubblico. I Guardiani della nostra epoca, anzi della prossima, dovrebbero essere appunto i tecnocrati, nel senso che la «vera tecnocrazia ha la virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare inclusivamente il massimo vantaggio per la società) che meritocratica (dotata di leader molto qualificati e non corrotti)».
La «vera tecnocrazia». Se Khanna avesse letto L’uomo senza qualità di Musil avrebbe forse esitato nel ricorrere a tale espressione, memore di quel che «la vera Austria» significa nel romanzo: qualcosa di inesistente, a cui ci si può riferire soltanto in termini tragicamente illusori. Ma la letteratura sulla globalizzazione non conosce tali finezze, e bisogna farci i conti per quello che è. Un regime tecnocratico significa per Khanna un approccio rigoroso all’amministrazione, l’assenza di dibattiti astratti, l’equivalenza di cifre e democrazia nella messa a punto delle strategie statali, un ricorso nel complesso temperato alle consultazioni elettroniche dal basso. Esso implica perciò una nuova forma ideale di Stato, l’info-Stato, ed è qui che la vecchia città-Stato di classica memoria (almeno per noi europei) torna a galla, nel senso che le ridotte dimensioni consentono il più efficace adattamento delle infrastrutture materiali e immateriali alla continua innovazione cui è chiamata.
I campioni sono due: la Svizzera e soprattutto Singapore. Come ha scritto Thomas Friedman: «Singapore non è una democrazia in senso pieno, ma i suoi leader si chiedono tutti i giorni come rendere migliore il Paese. Se le istituzioni tengono e il governo è percepito come giusto, allora la democrazia diventa un optional». E in effetti il fondatore della Repubblica, Lee Kuan Yew (1923-2015), ha impostato la pianificazione strategica sul modello di una multinazionale di successo come la Royal Dutch Shell, abile nell’elaborazione di scenari multidisciplinari e a lungo termine, in grado di incrociare le tendenze dominanti nei settori della tecnologia, della geopolitica, dell’energia. In tal modo Singapore è, adesso, «la ditta meglio amministrata al mondo».
Anche Khanna però, che vive a Singapore, tace il costo iniziale dell’impresa, quel che è stato necessario perché l’amministrazione fosse efficace e la tecnocrazia potesse affermarsi. Lee, che per un quarantennio è stato il padre padrone della città, non ha invece avuto nessun problema a dichiararlo: «Ogni volta che qualcuno ha voluto dar principio a qualcosa che potesse turbare la mia ordinata, organizzata, sensibile, razionale società, e renderla emotiva e irrazionale, l’ho fermato».
Come forma di saggia pratica tecnocratica orientata al bene comune non c’è male. La tecnocrazia si regge anche per Khanna sulla meritocrazia, come si è visto, e viene in mente l’antica storiella del saggio indiano che spiega che la Terra è immobile perché sorretta da una tartaruga, ma non sa rispondere alla successiva domanda su che cosa la tartaruga si regga. Il termine «meritocrazia» fu inventato, in senso polemico, nel 1958 da Michael Young, un sociologo ed economista laburista inglese che dedicò la vita allo studio e alla promozione di un piano di riforme pensato per garantire maggiore equità di accesso al sistema dei servizi pubblici e all’istruzione, specie per le comunità non di madrelingua inglese. All’origine «meritocrazia» segnalava il rischio che una rigida applicazione del principio meritocratico generasse una società ancora più afflitta dal problema delle ineguaglianze. Dopotutto, per Young, gli uomini «si distinguono non per l’uguaglianza ma per l’ineguaglianza delle doti. Se valutassimo le persone non solo per l’intelligenza o l’efficienza, ma anche per il coraggio, la fantasia, la sensibilità e la generosità, chi si sentirebbe più di sostenere che lo scienziato è superiore al facchino che ha ammirevoli qualità di padre, o che l’impiegato efficiente è superiore al camionista bravo a far crescere rose?».

Corriere La Lettura 17.9.17
Nell’antichità
Sei un uomo se porti le armi
di Mauro Bonazzi

Per i Latini, sempre contenti di appropriarsi delle tradizioni greche, le «iniziazioni» erano gli initia , una parola derivata dal verbo inire , «entrare»: il rito d’iniziazione conduce, fa entrare in un’altra più piena dimensione. I Greci però, spiega Davide Susanetti nel libro La via degli dei (Carocci), preferivano un altro termine, più interessante: teletè , che significa completamento. Il rito di iniziazione è un rito che conclude e porta a compimento un percorso, dandogli senso.
Per questo le iniziazioni religiose, come i misteri di Eleusi vicino Atene, erano così importanti: scoprendo la sua natura divina e immortale, l’iniziato raggiungeva finalmente la verità, comprendeva il senso ultimo della sua esistenza — che nulla era stato casuale nel lungo percorso della sua vita. La meta del viaggio era vicina, ormai. E chiaramente indicata: nelle tombe degli iniziati venivano deposte delle laminette d’oro contenenti indicazioni dettagliate sulla geografia dell’aldilà. «Accanto un bianco cipresso, v’è sulla destra una fonte; non ti fermare, poi ne troverai un’altra…». Più chiare di Google Maps, conducevano i defunti, ormai assurti al rango di esseri divini, in luoghi meravigliosi in cui avrebbero goduto per l’eternità di una vita beata.
Questo percorso di iniziazione alla riscoperta di se stessi era cominciato molto prima, fin dalla nascita si potrebbe dire, attraverso snodi decisivi. Intanto si doveva sopravvivere, e non era poco, visto che nell’antichità l’abbandono dei figli (e ancora di più delle figlie) era pratica diffusa e per niente esecrata. Il passaggio decisivo era invece quello che segnava l’ingresso nell’età adulta. Bambini e ragazzi, certe pagine di Aristotele lo spiegano con chiarezza, non erano considerati esseri umani a tutti gli effetti. Incapaci di parlare e ragionare, incerti nei movimenti nei primi anni; in seguito totalmente dominati dalle sensazioni e dalle passioni (sia detto di passaggio, dopo i lunghi mesi estivi trascorsi con l’amata prole: come dargli torto?), apparivano ancora vicini al regno animale. Ma almeno potevano essere allevati e educati, così da essere introdotti nel mondo degli uomini.
In che cosa consistesse il rito di passaggio all’età adulta era scontato: la guerra per i ragazzi, il matrimonio per le ragazze. Non si scherzava né nell’uno né nell’altro caso. Il padre poteva vendere come schiava la figlia, se avesse scoperto che intratteneva rapporti sessuali prima di sposarsi. Quanto ai ragazzi, a Sparta soprattutto, è un miracolo che sopravvivessero alle prove che dovevano affrontare. La krypteia prevedeva che i giovani fossero lasciati soli, senza vestiti e cibo, con un coltello soltanto: dovevano nascondersi di giorno e agire di notte. E già che c’erano dovevano tendere imboscate agli iloti (le popolazioni asservite che lavoravano per Sparta) per ricordargli chi comandava. Meno esagitati, gli Ateniesi istituirono la pratica dell’efebia, due anni di servizio militare obbligatorio, a difesa della città.
Questa ossessione militarista potrebbe sembrare eccessiva. Ma in un mondo caratterizzato da una situazione conflittuale permanente era fondamentale. Cittadino in senso proprio è chi difende la propria patria. Fortunatamente, poi, le cose cambiano: i tempi si fecero meno incerti, e l’addestramento militare fu progressivamente integrato dall’istruzione. Era un cambio di prospettiva notevole. Si poteva contribuire al bene della propria comunità — questo significava entrare nell’età adulta: prendersi cura del prossimo — non solo con le armi, ma anche con l’intelligenza e la conoscenza. Non male come idea, in attesa di diventare dèi ad Eleusi.

Corriere La Lettura 17.9.17
Nelle religioni
La fede, affari di famiglia. Quasi
di Marco Ventura

Il gatto del rabbino ha mangiato un pappagallo e sa parlare. Dopo anni tra le carte del padrone, il felino si rivela colto d’ebraismo e chiede: «Sono un gatto ebreo?». Certo che lo sei, risponde il rabbino, giacché lo è il tuo padrone. «Ma non sono circonciso», replica il gatto. Non si circoncidono i gatti, risponde il rabbino. «Non ho fatto il mio Bar-Mitzvah», osserva allora l’animale parlante. Hai sette anni, e il Bar-Mitzvah si fa a tredici anni, ribatte il rabbino. I miei sette anni valgono sette volte sette, insiste il gatto. La richiesta perentoria chiude lo scambio: «Se sono un gatto ebreo voglio il mio Bar-Mitzvah».
Comincia così nel primo album del 2002 la fortunata serie a fumetti francese Le chat du rabbin , sei album finora, alcuni tradotti in italiano, un film d’animazione di successo nel 2011. L’autore Joann Sfar risponde alle inquietudini religiose del pubblico occidentale attraverso una parabola sulla tentazione fondamentalista e le virtù della tolleranza. Al centro sta l’iniziazione alla fede, il percorso verso la maturità, l’inclusione comunitaria, la potenza rituale, la tradizione perpetuata.
I ragazzi ebrei attendono il Bar-Mitzvah, la celebrazione del raggiungimento della maggiore età. Il tredicenne riceve e indossa per la prima volta gli astucci neri con i passaggi della Torah. In sinagoga recita la benedizione, legge il testo sacro, canta l’ Haftarah , la lettura aggiuntiva dal Libro dei Profeti; poi ascolta il discorso del rabbino della comunità, e propone egli stesso una riflessione. Sono centrali la preparazione e la parola. Come per il gatto parlante del rabbino di Sfar, la cui pretesa di celebrare il Bar-Mitzvah riassume la religione secolarizzata occidentale.
L’iniziazione alla religione è affare di scelta, di convinzione personale. Di desiderio incomprimibile. È un percorso di messa in discussione della fede bambina: perché anche i minori, ormai, hanno diritti; e perché la fede è essa stessa divenuta un diritto. Sicché chi entra nel supermercato delle religioni è un consumatore preparato. Un consumatore iniziato.
Naturalmente questa è solo una parte della realtà. Il prodotto portato alla cassa soddisfa l’individuo ma è super sociale; è pieno di dati informativi nell’imballaggio, ma lo compro per il brand. L’iniziazione religiosa secolarizzata digerisce di tutto. È tanto teologica, ma anche ricca di rito; invita sui social e riscopre la tradizione; si abbuffa al ristorante e dona agli affamati del mondo; si differenzia dai concorrenti sul mercato, è un po’ massonica tra i mormoni, per gradi nella Scientologia.
Dagli immigrati, invece, viene un’iniziazione per nulla intellettuale e autocritica; tutta famiglia e poco individuo; incisiva sul corpo in forma privata, con la circoncisione, e in forma pubblica, con il velo per le giovani dell’islam o il turbante per i ragazzi sikh.
L’iniziazione à la carte e l’iniziazione tradizionale si contrappongono tanto più quanto più coabitano le religioni del nord e del sud; eppure, coabitando, esse si influenzano, talvolta si ibridano. Le ragazze musulmane non portano il velo solo per paura degli schiaffi di papà. Dal canto loro, i sostenitori della cresima a 11 anni hanno vinto in molte diocesi cattoliche d’Italia: perché l’ultimo sacramento «della iniziazione cristiana» è meno scelta d’adulto e più docilità allo Spirito Santo. Ci si prepara di conseguenza: testate se siete pronti alla cresima cattolica attraverso un quiz online americano. Il gatto del rabbino, certamente no. Lui esige il Bar-Mitzvah perché ha scelto la fede nel dubbio.

Corriere La Lettura 17.9.17
Cappuccetto Rosso si fa i selfie
di Carlo Bordoni

Cappuccetto Rosso attraversa il bosco e incontra il lupo cattivo: la favola di Charles Perrault e dei fratelli Grimm è la metafora di un viaggio iniziatico che porta fuori dall’infanzia (il bosco) e permette di crescere e di distinguere il bene dal male. Ma i riti iniziatici di una volta non valgono più, sostituiti ormai dall’introduzione di attività/comportamenti/pratiche che una volta erano consentiti solo ai grandi. Sono diventati atti solitari, anche violenti, spesso autolesionistici, a dimostrare la difficoltà a essere riconosciuti come individualità degne di considerazione.
L’iniziazione, con la sua metafora di morte (simbolica) del ragazzo e di rinascita come adulto, è un processo a senso unico, da cui non si torna indietro. Oggi si preferisce restare sul limite, cogliendo il meglio del prima e del dopo, spostandosi avanti e indietro, rifiutando di assumere un’identità definitiva. Un pericoloso punto di non ritorno, tanto che i genitori sono portati a «frenare» sui riti di passaggio dei figli o a rallentare il loro ingresso ufficiale nell’età adulta per non dover ammettere di invecchiare.
Il declino dei riti di passaggio indica dunque la difficoltà di affrontare quella «morte» o l’esigenza di evitarla. Forever young , a cavallo di più generazioni, o comunque disponibili ad assumere ruoli diversi a seconda dei casi. La dispersione dei riti di passaggio accreditati dalla comunità di appartenenza a scandire ogni fase della vita (infanzia/adolescenza/maturità/senescenza) spiega l’introduzione di nuovi riti intergenerazionali e trasversali che riguardano età diverse: il tatuaggio, spesso ripetuto nel corso della vita per ricordare momenti salienti; il piercing o altre manipolazioni del corpo, dallo sballo all’assunzione di sostanze, fino alle più cruente ferite autoinferte, tagli o scarnificazioni. Comportamenti che finiscono per sfuggire al piano simbolico, rischiando di provocare la morte reale di chi li pratica.
Tra le tante dimostrazioni di autoaffermazione si può includere il graffitismo sui muri, una pratica, quella dei writer , che ha invaso le città ed è finita per divenire una componente dell’arredo urbano. Anche le prove estreme di coraggio (e incoscienza) hanno lo scopo di affermare la propria identità di fronte all’indifferenza del mondo e imporsi al pubblico degli amici sui social. Questi riti, infatti, pur essendo strettamente individualistici e consumati nella solitudine, divengono per così dire «collettivizzati» attraverso la rete, postati e gratificati di una serie di like . Il rito più demenziale registrato dalle cronache consiste nel farsi un selfie sui binari mentre sta arrivando il treno, aspettando l’ultimo istante per scattare. Qualcosa che ha a che fare col vecchio gioco del pulcino bagnato, reso popolare da un cult movie come Gioventù bruciata con James Dean (1955): una sfida alla morte correndo contromano sulle strade o attraversando senza guardare.
Restano pochi riti istituzionali socialmente condivisi, per la maggior parte legati al mondo della scuola: gli esami conclusivi di ogni ciclo di studi ma ancor di più la vacanza dopo l’esame di maturità o l’Erasmus, attualizzazione del vecchio Grand Tour, e ciò che resta di qualche goliardata per le matricole universitarie. Tra i più giovani, alla prima sigaretta fumata di nascosto, subentra il primo telefonino concesso dai genitori, simbolo di raggiunta autonomia e libertà personale, gravido di occasioni relazionali.
A Cappuccetto Rosso non serve più superare le insidie di un bosco oscuro per affrancarsi dall’infanzia: le basta possedere uno smartphone di ultima generazione.

Corriere La Lettura 17.9.17
Una e trina, è la tirannia
Waller Newell distingua vari tipi di despoti
l sono i giardinieri come Nerone e Somoza. I riformatori tipo Giulio Cesare e Ataturk. Mai più pericolosi somo i millenaristi: Eobespierre, Stalin, Hitler, Mao e i jiadisti
di Fulvio Cammarano

I tiranni passano, ma la tirannia è sempre con noi perché rappresenta una caratteristica eterna dell’agire umano. È la convinzione che ha spinto Waller Newell ad affrontare una lunga cavalcata nella storia dell’umanità, dall’antichità a oggi, per cercare di comprendere le radici, le evoluzioni e le permanenze di questa complessa forma di potere. L’obiettivo ambizioso è di tracciare una mappa storica e concettuale della tirannia, passata e presente, incrociando pensiero politico (a partire dai pilastri: Platone, Aristotele e Machiavelli), antropologia, psicologia e mostrando l’intreccio con i cambiamenti intervenuti nella filosofia, nella cultura e nell’arte.
Ne viene fuori uno studio denso, ma non esattamente «accademico», anche perché l’autore è in primo luogo interessato a raggiungere un obiettivo «militante» ed educativo: vuole dirci come comportarsi di fronte alle tirannie ancora oggi presenti sulla scena internazionale. Un «che fare» di questo tipo richiede inevitabilmente l’immersione nell’indagine storica, con la sua capacità di complicare il quadro e smantellare irenismi e semplificazioni. La lunga e «strana carriera» del tiranno, a partire dai re e dagli eroi omerici, ci mostra così i molti lati ambigui della tirannia, compreso quello dell’importanza che ha avuto nell’edificazione dello Stato moderno. Il termine «tiranno», d’altronde, nell’antica Grecia, non ha un significato immediatamente negativo in quanto definisce un «uomo nuovo» il cui potere sorge in modo rivoluzionario, prendendo le distanze dalla legittima monarchia esistente.
Un viaggio così lungo e affascinante costringe l’autore a utilizzare gli idealtipi per far risaltare le differenze. Per Newell quindi la storia dell’Occidente (ma non solo) ci presenta tre tipi principali di tirannia. Nel primo c’è il «tiranno giardiniere», un classico, verrebbe da dire, sempre di moda. «Si tratta di uomini che dispongono di tutto un Paese e della sua società come fossero loro proprietà personali, sfruttandoli per il proprio piacere e profitto e per favorire i loro familiari e sodali». Gli esempi sono tanti: da Nerone a Somoza, da Duvalier a Mubarak. Il secondo tipo è rappresentato dai «tiranni riformatori». Sono figure che vogliono esercitare un potere libero dai vincoli della legge, ma che tuttavia risultano qualcosa di più di «semplici edonisti o profittatori. Desiderano migliorare la società e il popolo attraverso un esercizio costruttivo della propria autorità illimitata». Talvolta non sono neppure percepiti come tiranni, bensì come paladini del popolo. Tra loro si trovano Alessandro Magno, Giulio Cesare, i Tudor, i «despoti illuminati» come Luigi XIV, Federico il Grande di Prussia, Napoleone e Kemal Atatürk. Il terzo tipo, quello realmente nuovo, tenuto a battesimo da Jean-Jacques Rousseau, nasce con la Rivoluzione francese. È costituito dai «tiranni millenaristi», poco o nulla interessati ad agire da «giardinieri» o da «riformatori» poiché ambiscono a molto di più. Inseguono l’utopia. Del gruppo fanno parte Robespierre, Lenin, Stalin, Hitler, Mao, Pol Pot e, oggi, i jihadisti.
Sono proprio quest’ultimi i più recenti e autentici eredi del millenarismo genocidario, tanto che il libro sembra scritto solo per «rafforzare la nostra capacità di riconoscere la minaccia posta dal terrorismo jihadista. La loro ideologia — un seducente coacervo di messianismo pseudoreligioso posto al servizio di un’utopia totalitaria — non fa che aumentare il fascino pericoloso di questo genere distorto di idealismo». Ed è una malintesa passione per la giustizia, generata dalla rabbia, a rappresentare il nucleo psicologico della loro pretesa rivoluzionaria.
È questo modo di pensare che si presta a fare da incubatore a quelli che Newell chiama i «tiranni in attesa», una realtà che può passare inosservata e che invece richiede una particolare attenzione soprattutto in considerazione del fatto che tiranni e aspiranti tiranni sono ovunque ed è perciò inutile illudersi sul ruolo del progresso o del materialismo occidentale nel ridimensionare un fenomeno dalle radici così profonde. Poiché la tirannia è e rimarrà sempre «un’alternativa permanente», risulta indispensabile imparare a «difenderci da quei lupi che si aggirano nel buio lungo il perimetro della civiltà liberal-democratica». Una civiltà, peraltro, secondo l’autore, che non è mai stata quella caricatura che i suoi nemici diffondono, vale a dire il regno delle avidità e del vuoto ideale. La sua essenza, semmai, va cercata nel valore attribuito da pensatori come Spinoza e Locke alla libertà, intesa come «fioritura delle piene potenzialità dell’individuo in campo educativo, civico e spirituale». E anche se le democrazie liberali non possono dirsi immuni da comportamenti tirannici, riescono, grazie alla separazione dei poteri e a costituzioni incardinate sul sistema dei pesi e contrappesi, ad autoriformarsi.
Tuttavia, al di là della capacità della democrazia (e Newell si riferisce soprattutto a quella anglosassone) di diffondersi, è ormai necessario imparare «di nuovo a identificare le varietà della tirannia per quello che sono». Vuole forse dire che esiste una graduatoria di tirannie? Newell lo nega. «Dal punto di vista etico, l’uccisione a tutt’oggi di duecentomila siriani, oppositori della tirannia di Assad, è altrettanto degna di condanna quanto la violenza della carestia di Stalin o dell’Olocausto nazista». Però, c’è un però ed è tutto politico. Assad ha reagito a un pericolo. Hitler, Stalin, i jihadisti non ne hanno avuto bisogno per portare avanti i genocidi utopici. «Il punto non è che la tirannia millenarista sia eticamente peggiore di quella ordinaria, o che quest’ultima rappresenti in qualche modo un male minore. Semplicemente, la tirannia millenarista differisce dagli altri tipi e, a giudicare dall’esperienza storica, ha maggiori probabilità di tradursi in guerre di aggressione imperialista e nello sterminio di milioni di persone», a prescindere dalla loro volontà di ribellarsi o meno.
Con i tiranni millenaristi e genocidari dunque non bisogna scendere a compromessi. Cosa fare perciò oggi di fronte ai tiranni? Chi ha assistito all’esito delle primavere arabe ha ben chiaro che, «in quei Paesi non ancora convertiti ai valori dell’Illuminismo», l’imposizione della democrazia con la forza non solo non serve, ma produce l’effetto opposto. La soluzione per Newell è prendere atto che queste cure allopatiche non funzionano, per quanto non andrebbe dimenticato che la storia recente delle tirannie è una storia di incessanti sconfitte inflitte loro dai sostenitori delle libertà. È però illusorio sperare nel tempo e nei cambiamenti sociali: «L’ambizione in sé non può essere rimossa dall’animo umano, non importa quanta ricchezza, comfort e intrattenimento ci vengano offerti. Essa può essere rimodellata soltanto da un’educazione liberale che la reindirizzi da scopi sbagliati a giusti obiettivi». Non rimane che l’omeopatia: con la lettura dei grandi interpreti della passione politica, tra i quali Machiavelli, Hobbes, Shakespeare, i giovani potrebbero lentamente imparare a sostituire la volontà di dominio con l’ardore per il bene comune.

Corriere La Lettura 17.9.17
Whitman Foglie d’erba
L’altra Bibbia dell’America
di Ocean Vuong

«Questi sono i giorni che vi toccheranno». Il verso fu pubblicato per la prima volta a Brooklyn, New York, nel 1855, sei anni prima di quello che sarebbe stato il conflitto più sanguinoso combattuto in terra americana. In seguito Whitman avrebbe dichiarato che la Guerra di secessione e le tensioni politiche e sociali alla radice del conflitto costituivano il perno e il motore di un caposaldo rivoluzionario come Foglie d’erba .
Whitman, tramite l’uso di versi lunghi e iconici e di cataloghi immensi di gente, città, corpi, aggettivi e nomi — tecnica questa mutuata dalla Bibbia di Re Giacomo — auspicava che Foglie d’erba diventasse il Sacro Graal dell’esistenza americana, una raccolta che da ultimo avrebbe unificato un Paese spaccato in due, trovando posto in ogni salotto d’America, fino a sostituire la Bibbia stessa.
Velleità un po’ presuntuose per un poeta sconosciuto. Anche perché i primi lettori avevano difficoltà a stabilire se Foglie d’erba fosse poesia a tutti gli effetti. In un’epoca in cui il verso doveva rispettare un metro e una struttura prestabiliti, l’opera di Whitman rompeva gli schemi già dall’inizio, finendo per fondere i suoi versi in una forma ibrida che agli occhi dei contemporanei, più che letteratura, sembrava la predica di un sacerdote. Ma sarebbe stato proprio questo afflato predicatore, biblico, a far presa sull’opinione pubblica e ad acquistare prestigio in virtù dei giudizi favorevoli di Thoreau ed Emerson, idoli di Whitman.
Quei versi nuovi, sciolti da ogni catena, esprimevano in maniera più autentica i contrasti politici del momento. Era letteratura che aveva gettato a terra vestiti e maschere; era discorso puro, senza vincoli. Era qualcosa di elettrico. Tuttavia il libro non raggiunse lo status di sacralità auspicato da Whitman. E non era nemmeno certo quanto (e se) Foglie d’erba , anche dopo la vittoria dell’Unione nel 1865, avesse contribuito alla salvaguardia dell’unità. Agli occhi del lettore dell’epoca le descrizioni disinibite della sessualità contenute nel libro erano troppo esplicite e fuori luogo per i canoni stantii del decoro vittoriano. Oltretutto l’esuberanza liberale di Foglie d’erba , accompagnata da appelli in favore della libertà, dell’unità del Paese e di un orientamento e di una sessualità più aperti, contrastava con le tendenze più conservatrici dell’autore. Se la voce narrante del famigerato Canto di me stesso dà ospitalità a uno schiavo in fuga e a un certo punto s’inginocchia per lavargli i piedi (un gesto che rimanda chiaramente a Cristo), il Whitman preso fuori dalla sua opera e calato dentro al corpo di un americano soggetto ai condizionamenti sociali americani, era un assertore della frenologia, una pseudoscienza che si sforzava di trovare un nesso tra forma e dimensioni del cranio in relazione a razza e sesso, e l’intelligenza e la resistenza al dolore: un esperimento fallito che mirava a giustificare la schiavitù. Whitman a un certo punto si spinse pure a sostenere l’esilio degli schiavi neri dagli Stati Uniti in Africa, una segregazione su vasta scala che a suo dire sarebbe stata la soluzione migliore al «peccato originale» del Paese. Ma la voce narrante di Foglie d’erba riconosceva e accoglieva questi paradossi come parte essenziale del suo essere uomo: «Mi contraddico?/ Benissimo, e allora mi contraddico,/ (Sono grande e grosso, contengo moltitudini)». E sarebbero state proprio questa grandezza, questo spirito permeato di moltitudini, a valere l’appellativo di «padre della poesia americana» all’uomo che avrebbe influenzato poeti del calibro di William Carlos Williams, Allen Ginsberg, Federico García Lorca e, in Italia, Dino Campana.
Forse, a ben vedere, pur non avendo raggiunto la diffusione da lui sognata, l’eredità di Whitman ha comunque aperto la strada alle sperimentazioni americane prima, e internazionali poi, in campo letterario. «Non chiedo al ferito come si sente, io stesso divento il/ ferito», versi pubblicati 150 anni fa ma che potrebbero essere stati pronunciati tranquillamente oggi.
Lo scorso agosto, in Virginia, a Charlottesville un gruppo di suprematisti bianchi si è dato appuntamento sotto la statua di Robert E. Lee, generale dei Confederati durante la Guerra di secessione, per protestare contro la rimozione imminente. D’un tratto la storia non pare più un oggetto lontano e le poesie di Whitman, composte proprio nel caos di quel conflitto, si rivelano oggi preziosissime alla luce delle agitazioni globali, e non solo di quelle negli Stati Uniti. Forse a rendere Foglie d’erba un’opera «senza tempo», come ci piace credere che sia la grande letteratura, non è tanto il fatto che le parole travalichino la loro epoca, quanto che la volontà iniziale di Whitman di designare la poesia come sutura, come balsamo, immaginando un futuro che, almeno in parte, sfuggiva a lui per primo, consiste nell’impeto duraturo, inesausto di un’opera che, nel suo nucleo profondo, altro non è che un grido che chiama l’individuo, d’ogni tempo e d’ogni nazione, a scrivere il suo personale Canto di me stesso .
L’eredità di Whitman, non a dispetto, ma proprio in virtù, delle sue imperfezioni, ci ricorda che ogni volta che una nuova generazione di scrittori e pensatori lancia il suo «barbaro yawp», c’è sempre un arricchimento. Una generazione che guarda alle proprie contraddizioni senza vergogna, riconoscendone con onestà l’umanità necessaria e sofferta, per scrivere un verso nuovo, con musiche nuove, per immaginare un futuro mai visto da alcuno, ma per il quale, con impegno, cura e coraggio, vale la pena vivere.
( traduzione di Bruno Contini )

Corriere La Lettura 17.9.17
L’economia feudale non è mai esistita
di Giuseppe Sergi

Storia del lavoro in Italia. Il Medioevo edito da Castelvecchi è un’opera amplissima nella mole e capillare negli accertamenti che coincide con una fase vitale della storiografia sul Medioevo. Il curatore Franco Franceschi fa notare giustamente che la tripartizione sociale teorizzata intorno al 1000 ( oratores , bellatores e laboratores ) non ha generato, nella seconda metà del Novecento, un’attenzione degli storici ben distribuita fra le tre categorie: alla prevalenza degli studi sui religiosi e sui combattenti, solo da qualche decennio si sono aggiunte ricerche aggiornate sul mondo del lavoro, rurale e cittadino. I 16 autori sono i principali protagonisti del nuovo interesse, specialisti di vaglia che sono stati messi nella condizione — al momento giusto — di comunicare novità rilevanti. Il risultato è una storia del lavoro che si sviluppa spontaneamente in una storia della società medievale di notevole completezza e novità.
L’impressionante abbondanza di esempi su cui scorre l’occhio del lettore ha tre funzioni: 1) sottrae all’astrazione e mette in contatto diretto con fonti scritte, iconografiche e archeologiche; 2) abbatte le definizioni bloccate e omogenee del passato, illustrando significative differenze territoriali (con un’apertura all’Europa che non isola l’Italia); 3) aiuta a combattere i luoghi comuni senza per altro proporre nuovi controstereotipi. Ci deve essere stata una produttiva convergenza fra le indicazioni del curatore e gli intenti espositivi degli autori. In particolare per un aspetto: si è deciso di non organizzare i contenuti in modo controversistico. Dei più tenaci stereotipi sul Medioevo si fa giustizia con il silenzio: un silenzio sulle consolidate definizioni scolastiche a cui si sostituiscono pagine equilibrate e articolate. Di «modo di produzione feudale» non si fa proprio parola, perché di un concetto superato si può tacere.
Altri esempi sono più sfumati, ma l’atteggiamento è simile. Francesco Panero non cavalca la vecchia idea dei «servi della gleba», ma si sottrae alla contrapposizione fra chi li poneva al centro della visione di quei secoli (le semplificate letture del marxismo e del liberalismo) e chi per contrasto ne ha negato drasticamente l’esistenza. Illustra la differenza fra i servi medievali e gli schiavi antichi (gli «strumenti privi di voce» del mondo romano). Constata la netta prevalenza di manodopera servile nella parte a gestione diretta della curtis , ma insiste sull’obbligo contrattuale di residenza dei contadini personalmente liberi che possono essere trasferiti (in quanto adscripticii ) da un possessore all’altro insieme con la terra. È contro questi vincoli, che risultano limitativi della libertà individuale, che intervengono con norme apposite Comuni come Vercelli e Bologna, in parte per frenare un eccessivo inurbamento, in parte per indebolire l’egemonia dei signori rurali.
Anna Maria Rapetti corregge, sì, e ricorda la sorprendente (per i più) assenza dell’abusata formula ora et labora nella Regola di san Benedetto. Ma non cancella la funzione del lavoro nell’ispirazione di fondo del movimento monastico. Sottolinea che non è una forma di elevamento dello spirito, e che non bisogna pensare che i monaci lavorassero i campi: era una sorta di igiene mentale per interrompere la preghiera, serviva a garantire autosufficienza rispetto a influenze esterne, funzionava da esortazione all’umiltà (poco praticata soprattutto dai Cluniacensi). Non bisogna dimenticare che era considerato lavoro manuale ( opus manuum ) anche lo scrivere, e che le vere attività agricole presso Cistercensi e Certosini erano riservate ai conversi.
Non si perde tempo a polemizzare contro l’idea, superatissima, dell’«economia chiusa» e degli scambi limitati al baratto, ma si illustra in dettaglio la formazione di competenze artigiane soprattutto nelle città e, nel mondo rurale, lo sviluppo di attività delle famiglie contadine impegnate a riempire i tempi vuoti dei cicli colturali (Paolo Nanni, Vasco La Salvia, Gabriella Piccinni, Andrea Barlucchi, Sergio Tognetti e, per i «mestieri del mare», Amedeo Feniello). Le corvée compaiono in più contesti, e forse non è sempre chiara la distinzione fra lavoro come forma di pagamento parziale degli affitti e prestazioni obbligatorie dei sudditi dei signori. A proposito di arti e corporazioni si menziona il dibattito circa continuità-discontinuità rispetto a tradizioni romane (conservate soprattutto in ambito bizantino), ma lo si ritiene o poco risolvibile o poco importante (Claudio Azzara).
All’inadeguata e generalizzata attitudine a distinguere arti maggiori e arti minori si sostituiscono accertamenti empirici, caso per caso, che tengono conto dei livelli di ricchezza, dei fattori di prestigio sociale, della capacità dei priori delle arti a costituirsi — in qualche caso — come organi di governo dei comuni (Franceschi, Roberto Greci). Tra le professioni «liberali» risulta evidente la distinzione (proprio nel senso di Pierre Bourdieu) fra chi lavora di intelletto e chi esercita attività pratiche: più in alto nella scala sociale giuristi e medici, più in basso notai e chirurghi.
Maria Paola Zanoboni cancella pigri luoghi comuni sul lavoro femminile, che non era solo integrativo né solo svolto fra le pareti domestiche: troviamo donne protagoniste d’impresa, in grado di investire le loro doti o il ricavato della vendita dei loro gioielli; e troviamo monache che danno sbocco sul mercato alle loro comunità con attività di tessitura, erboristeria e piccola manifattura.
Ma non tutto è decostruzione e ricostruzione, si «impara» in ogni pagina anche quando non è necessario operare rovesciamenti. Il «sistema di valori» del mondo medievale in fatto di lavoro emerge da una cultura che ha le sue permanenze e le sue flessibilità (Donata Degrassi), si manifesta nelle rappresentazioni letterarie e iconografiche (Paolo Cammarosano), si cristallizza nelle leggi suntuarie che intervengono su consumi e abbigliamento (Maria Giuseppina Muzzarelli). Il «lavoro contrattato» del sottotitolo non è solo un punto d’arrivo che consegna all’età moderna nuovi rapporti lavorativi: elementi di contrattazione erano presenti da tempo, ma certo si svilupparono la mezzadria e il lavoro salariato, fra inversioni di rotta e contrasti (di conflitti e rivolte scrive Valentina Costantini). Il lavoro salariato non è più cercato, come faceva il pur grande Bronisław Geremek, soltanto nei rapporti permanenti, ma anche negli impegni finalizzati e circoscritti. O addirittura negli affidamenti di compiti a grandi salariati che si munivano a loro volta di dipendenti precari: la strada verso gli appalti era aperta.

Corriere La Lettura 17.9.17
Pablo & Olga un secolo dopo Vacanze romane, anzi amore
La mostra apre il 22 settembre allle Scuderie del Quirinale
di Edoardo Sassi

Pablo, Olga e quel loro amore nato a Roma nel 1917, esattamente cento anni fa. Lui, il genio spagnolo che a 36 anni pareva aver già inventato tutto: prima bambino prodigio in grado di disegnare come un maestro del Rinascimento, poi inventore dei suoi periodi — il Rosa, il Blu — e infine autore della grande rivoluzione cubista. Lei, una giovane e bellissima danzatrice entrata ragazzina nella compagnia-mito del Novecento, quella dei Ballets Russes di Sergej Djagilev, e di lì a poco destinata a diventare la prima madame Picasso.
C’è dunque (anche) una motivazione sentimentale nella mostra che sta per aprire i battenti alle Scuderie del Quirinale. Un’antologica che da giovedì 21 settembre (inaugurazione con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella) celebra il primo e il più importante dei due viaggi in Italia (l’altro, toccata e fuga, fu nel 1949) del pittore andaluso. A Roma in particolare, dove Picasso alloggiò all’Hotel de Russie con l’amico Jean Cocteau, dove affittò uno studio in via Margutta e dove, soprattutto, conobbe lei: Olga Khokhlova (1891-1955), prima compagna e poi moglie (si sposeranno l’anno successivo a Parigi e il matrimonio durerà fino al 1935) ma soprattutto musa prediletta dell’artista per più di tre lustri. Di certo la figura femminile da lui più rappresentata tra fine anni Dieci e inizi anni Venti.
Ed è proprio uno di questi quadri — il celebre e straordinario Portrait d’Olga dans un fauteuil del 1918 — una delle opere clou dell’imminente esposizione romana dal titolo Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-1925 , curata da Olivier Berggruen e Anunciata von Liechtenstein e con circa cento opere in arrivo da importanti musei. Prestiti concessi, tra gli altri, da Moma, Metropolitan e Guggenheim di New York, dalla Tate di Londra, dal Centre Pompidou e dal Musée Picasso di Parigi, dove s’è appena conclusa un’altra mostra — originale, bellissima — tutta incentrata proprio sul legame tra Pablo e la danzatrice figlia di un colonnello dell’Armata imperiale. Legame da cui nascerà, il 4 febbraio 1921, Paul.
Ed è proprio Paul en Arlequin (1924) un’altra delle opere iconiche dell’esposizione romana, uno dei tanti quadri che Picasso dedicò in questi anni al suo primogenito e che stilisticamente testimoniano, ancora a distanza di tempo, l’amore dell’artista per la commedia dell’arte e più in generale la sua riscoperta del classicismo e del Rinascimento, avvenute in gran parte in Italia nel 1917.
«Non c’è mai stata un’epoca neoclassica in Picasso — si è spinto a scrivere Joachim Pissarro, uno dei curatori della conclusa rassegna parigina — ma solo un’epoca Olga». Tant’è: a 136 anni dalla nascita di Picasso, a più di 80 dalla fine di quell’amore e dopo che per decenni si è un po’ liquidato questo periodo come semplice Ritorno all’ordine , Picasso — il Picasso che rilegge Ingres, il Picasso pittore dell’atemporalità sospesa, del realismo monumentale ( La flûte de Pan , La course , Femme assise en chemise , tutte opere tra 1922 e 1923), l’artista dell’intimità familiare nell’appartamento borghese di rue La Boétie — ritorna protagonista; anche nel taglio di questa selezione romana dove si possono vedere o rivedere, fra gli altri, l’ Arlequin del Museu Picasso di Barcellona (1917, a volte accreditato come ritratto di Léonide Massine) o quello allo specchio del Thyssen-Bornemisza (1923).
Ed è un’opera arlecchinesca anche il gigantesco sipario (17 metri per 11) del balletto Parade . L’opera, utilizzata per la prima volta come sipario al Teatro Châtelet di Parigi (Marcel Proust tra gli spettatori), fu in realtà progettata a Roma, nello studio di via Margutta, e realizzata con molti aiuti tra cui quello del pittore italiano Carlo Socrate. Tutto permeato d’esprit mediterraneo-italico, anche l’immenso telone, già esposto a Napoli, sarà a Roma. Non alle Scuderie del Quirinale (dove non sarebbe entrato) bensì nel seicentesco Salone di Palazzo Barberini affrescato da Pietro da Cortona. Un ritorno in Italia per quest’opera che oggi appartiene al Centre Pompidou di Parigi, ma che in passato fu di proprietà del mercante italiano Carlo Cardazzo, il quale nel 1954 provò a venderla per pochi soldi allo Stato italiano, alla Galleria nazionale d’arte moderna, ottenendo però in cambio un clamoroso rifiuto.
La mostra è prodotta da MondoMostre Skira e Ales, e conclude, dopo le tappe a Napoli, le celebrazioni per il centenario del viaggio di Picasso in Italia.

Corriere La Lettura 17.9.17
L’imputato di Caporetto Generale Cadorna, si discolpi!
Labanca: fece una guerra offensiva senza disporre di mezzi adeguati
Gaspari: per oltre due anni si dimostrò il migliore stratega dell’Intesa
di Antonio Carioti

A cento anni da Caporetto abbiamo scelto di non concentrare l’attenzione sulla disfatta in sé, per mettere invece sotto esame tutta la condotta della Grande guerra da parte italiana fino all’autunno 1917. Perciò abbiamo chiamato a discutere sull’opera del comandante supremo Luigi Cadorna due storici che hanno opinioni diverse: Nicola Labanca come accusatore e Paolo Gaspari come difensore del generale.
NICOLA LABANCA — Cadorna va giudicato come un grande esponente dell’Italia liberale. In quanto capo militare mette in atto il progetto politico di chi ha portato il Paese in guerra nell’aprile-maggio 1915: il governo liberale di destra di Antonio Salandra, con il ministro degli Esteri Sidney Sonnino e con il re. Ogni valutazione sul suo operato, per esempio circa il «mancato sbalzo iniziale», cioè l’incapacità dell’esercito di condurre un’offensiva a fondo nei primi giorni di guerra, deve tenere conto del fatto che Cadorna non ha i mezzi militari per condurre un conflitto così difficile. Nel suo intimo, a mio avviso, lo sa. Ma obbedisce al governo e al re: se lo vogliamo processare, bisogna accusarlo di non aver risposto no alle richieste della politica.
PAOLO GASPARI — Nel 1915, mentre si avvicina l’intervento, manca un organismo di coordinamento politico-militare. Salandra il 3 maggio denuncia l’alleanza con gli Imperi centrali, cosicché l’Austria accelera la costruzione del sistema difensivo e comincia a trasferire divisioni ai confini con l’Italia. La possibilità di trovare le frontiere sguarnite all’inizio delle ostilità, il 24 maggio, dura pochi giorni. Per giunta Cadorna deve coprire con 800 mila uomini un fronte di oltre 600 chilometri, con il rischio che il nemico colpisca alle spalle dal Trentino le forze che si stanno radunando sull’Isonzo, ma mancano ancora dei «servizi» (salmerie, munizioni, provviste varie) che si mobilitano con più lentezza. I reparti raggiungono la piena efficienza solo in luglio.
NICOLA LABANCA — La sfasatura tra governo e comando militare è un fatto noto: c’è stata già prima del 1915, sotto il fascismo e anche dopo. Ma se Cadorna accetta di avviare la guerra pur sapendo che le forze armate non sono pronte, allora le accuse contro di lui sono fondate.
PAOLO GASPARI — Sono i governi che dichiarano le guerre, i capi di stato maggiore hanno il compito di vincerle.
NICOLA LABANCA — Ma Cadorna avrebbe potuto rifiutare l’impegno e dimettersi. Il fatto che avesse le idee chiare non lo assolve, come taluni oggi ritengono, ma aggrava la sua posizione. Tra l’altro l’Italia non interviene nell’agosto 1914, quando si poteva pensare a una guerra rapida, ma nel maggio 1915, quando ormai si combatte da mesi in tutta Europa una logorante guerra di trincea. E Cadorna, nonostante questo, segue la tattica dell’attacco frontale, con mezzi insufficienti e in condizioni ambientali sfavorevoli, mentre il nemico controlla le vette e può colpire gli attaccanti dall’alto.
PAOLO GASPARI — Nessun comandante si dimette quando l’esercito si sta mobilitando ed è vulnerabile di fronte a uno già mobilitato. Prima di dichiarare guerra, Salandra avrebbe dovuto chiedere a Cadorna quando l’esercito sarebbe stato in piena potenza. Dopo l’inizio delle ostilità, il comandante non poteva aspettare le mosse nemiche, doveva attaccare.
NICOLA LABANCA — Qui sta la responsabilità di Cadorna: avere tradotto in termini militari, a spese dei combattenti portati al massacro, una guerra offensiva che non aveva gli strumenti per fare.
PAOLO GASPARI — Questo però vale per tutti i generali dell’epoca, che all’inizio lanciano attacchi dispendiosi perché non hanno capito che cannoni a tiro rapido, mitragliatrici e reticolati danno a chi si difende la superiorità su chi attacca. In realtà Cadorna ha solo 520 mitragliatrici e qualche centinaio di batterie di cannoni moderni, l’unica risorsa di cui dispone in abbondanza sono gli uomini. Subisce perdite, ma non più ingenti di quelle di francesi e britannici, dediti anch’essi all’attacco frontale che continua fino alla primavera del 1918, quando i tedeschi adottano una tattica offensiva basata sull’infiltrazione di piccolissimi reparti con mitragliatrici leggere, che rimette in moto la guerra di manovra.
NICOLA LABANCA — Non è vero che francesi e britannici perseverano fino al 1918 nella tattica dell’attacco frontale praticata da Cadorna: già nella primavera del 1916 danno più libertà d’iniziativa ai piccoli reparti. La stessa tattica tedesca dell’infiltrazione viene sperimentata nel 1917 a Riga contro i russi e poi a Caporetto. Inoltre la guerra italiana risente di una fragilità politica estrema: gli arretramenti attuati da altri eserciti, per consolidare le posizioni, da noi avrebbero affondato il governo. Il Paese era stato trascinato in guerra da una minoranza della stessa classe dirigente liberale (gli interventisti di destra e di sinistra, mentre i liberali giolittiani, i cattolici, i socialisti, in una parola la maggioranza, non la volevano) che non poteva permettersi battute a vuoto. Infatti nel 1916 l’attacco austro-ungarico sull’altopiano di Asiago, la cosiddetta Strafexpedition , provoca la caduta di Salandra. Cadorna invece rimane al suo posto, mentre in altri Paesi dotati di istituzioni rappresentative (Francia, Gran Bretagna, perfino in Germania) i capi militari vengono sostituiti dopo insuccessi simili. Cadorna diventa quasi inamovibile proprio perché continua a impersonare la politica dell’interventismo, del ministro degli Esteri Sonnino e del re.
PAOLO GASPARI — In realtà anche l’Italia si aggiorna. Cadorna, con il generale Alfredo Dallolio all’approvvigionamento delle armi, mette l’esercito alla pari di quelli europei. Incentiva i reparti d’assalto, gli arditi, che nascono nel luglio 1917 e sono gli unici addestrati alla guerra moderna, specializzati negli attacchi di sorpresa e muniti di armi automatiche. Quanto alla Strafexpedition , Cadorna prevede un attacco dal Trentino e ordina di assumere uno schieramento difensivo: il generale Roberto Brusati non lo fa e viene destituito. Cadorna poi para l’offensiva, blocca gli austriaci e appena 50 giorni dopo la Strafexpedition attua una sorpresa strategica e conquista Gorizia, con una battaglia che è l’unica vinta dall’Intesa prima del 1918. Fino a Caporetto Cadorna è il miglior generale dell’Intesa, l’unico che rimane in sella.
NICOLA LABANCA — Gorizia è un successo di rilievo nazionale, non europeo. È importante perché prima l’Italia non aveva ottenuto vittorie e anzi aveva rischiato grosso con la Strafexpedition , fallita non tanto per merito di Cadorna quanto per gli errori degli austro-ungarici. Anche la creazione degli arditi ha una portata limitata in confronto alle innovazioni adottate da altri eserciti, che concedono agli ufficiali subordinati una crescente autonomia d’iniziativa, mentre da noi la catena di comando resta rigida. E poi altrove c’è un’attenzione dei comandi verso la truppa che Cadorna non ha. Ad esempio le trincee italiane non vengono rese più vivibili: britannici e francesi restano stupiti per le loro condizioni disastrose. Certo, il terreno del Carso presenta maggiori difficoltà, ma sta di fatto che ne pagano il prezzo i soldati. In generale, poi, il popolo italiano si mostra più stanco della guerra rispetto ad altri.
PAOLO GASPARI — Cadorna ripristina i cappellani militari proprio per dare conforto ai soldati e coesione morale, aprendo la strada al patriottismo dei cattolici. Per due anni gli italiani avanzano a balzi e le trincee, preparate in fretta, servivano per andare all’attacco; le trincee vivibili erano quelle di chi si difendeva. Avanzano sul Carso e sulla Bainsizza nell’agosto 1917 e sarà l’esercito austriaco quello logorato che va dai tedeschi: «O ci aiutate, o gli italiani la prossima volta ci sfondano». Negli stessi mesi metà dell’esercito francese si ammutina e fino all’estate del 1918 non farà più offensive, ma solo presidio di comode trincee.
NICOLA LABANCA — L’Italia però sta peggio. Lo dicono le sentenze della giustizia militare, da noi più severa che altrove, e le tante rivolte per il pane, dovute al fatto che anche la popolazione civile viene trascurata, spesso lasciata alla fame. Ciò rende l’Italia, insieme alla Russia, l’anello debole dell’Intesa. Eppure nel 1917 Cadorna prosegue imperterrito le spallate sull’Isonzo. E così pone le premesse di Caporetto, perché Vienna chiede aiuto ai tedeschi. Questi ultimi, che hanno imparato la guerra d’infiltrazione, preparano in fretta e in silenzio l’offensiva d’autunno. E a Caporetto Cadorna subisce una sorpresa strategica, perché non si rende conto né delle forze che ha di fronte né della stanchezza del Paese. Insiste perché il governo stronchi quello che lui chiama disfattismo. Ma il malessere degli italiani non si può sanare con la repressione. Qui Cadorna si dimostra un uomo dell’Ottocento, che potrebbe essere accostato al Bava Beccaris che soffocò nel sangue i moti di Milano nel 1898.
PAOLO GASPARI — Non sono d’accordo nel definire l’Italia l’anello debole dell’Intesa: il Paese tiene, anche se è il più arretrato socialmente e politicamente (il suffragio universale è del 1912, in Germania c’era dal 1871, in Francia dal 1848): i francesi si ammutinano in massa, Russia e Germania crollano dall’interno. L’Italia ha tanti morti e feriti quanto la Gran Bretagna, ma nessuno si azzarda a dire che gli inglesi hanno subito un’inutile strage. Cadorna deve gestire un esercito di contadini semianalfabeti, privi di coscienza nazionale, ma che proprio in quell’immane sacrificio capiscono di avere diritti, si sentono finalmente cittadini di uno Stato. Ma le classi dirigenti non sono ancora pronte a farli entrare, li considerano ancora sudditi, da ciò una disciplina ferrea. Quanto a Caporetto, dopo 26 mesi di assalti — come i britannici — ufficiali e soldati sono ormai esperti, ma non sono stati addestrati a una battaglia difensiva.
NICOLA LABANCA — Un generale capace si sarebbe accorto del pericolo, avrebbe preparato piani difensivi consolidando le seconde e le terze linee. Invece Cadorna ancora nell’ottobre 1917 concentra tutto sulla prima linea: quando il nemico sfonda, non ci sono forze che possano arrestarne l’impeto. Quindi il fronte italiano deve ritirarsi fino al Piave: una disfatta di proporzioni impressionanti. Ci sono due Caporetto: una è la rottura, tra il 24 e il 27 ottobre 1917, quando gli austro-tedeschi aprono un varco nel fronte italiano; l’altra è la rotta, dal 27 ottobre in poi, quando il nostro esercito è costretto ad evacuare un territorio molto vasto, lasciando al nemico una massa enorme di mezzi e prigionieri. Cadorna viene colto alla sprovvista dalla rottura, poi gestisce la rotta come può.
PAOLO GASPARI — Ho studiato a fondo i documenti d’archivio. Tecnicamente, quando i tedeschi erano riusciti a piazzare di notte e in segreto i loro 1.160 cannoni, che si aggiungevano ai 900 austro-ungarici, avevano già vinto la battaglia! Avevano una superiorità di fuoco di 3 a 1, sapevano dov’erano le batterie italiane, mentre gli italiani non sapevano dove erano quelle nemiche. Avevano una superiorità numerica nel punto di attacco, una tattica (5 a 1 per le mitragliatrici) e anche di qualità dei comandanti (delle 11 divisioni tedesche d’assalto, su 250, ben 7 erano a Caporetto). I reggimenti di linea italiani si ritirano fermandosi a combattere almeno sei grandi battaglie che non figurano in alcun libro di storia: i 300 mila prigionieri che il pregiudizio segnala come fuga e resa sono invece la prova che, pur sconfitti, i reparti continuarono a combattere. Con i pregiudizi si stravolge l’accaduto. Delle sei, l’unica battaglia ricordata è Pozzuolo, perché vi partecipa la cavalleria, espressione della classe dirigente: la plebe si arrende, l’élite combatte. È questa la mentalità che porta Cadorna a scrivere il comunicato ignobile in cui accusa i soldati di essersi arresi senza lottare, ma la cosa sorprendente è che nessuno lo contesta.
NICOLA LABANCA — In Italia qualcosa del genere era già avvenuto per le sconfitte di Adua e di Custoza.
PAOLO GASPARI — Infatti non si tratta solo di Cadorna, è un’intera classe dirigente che ragiona così. Inoltre a giugno c’era stata la battaglia di Flondar, in cui gli austro-ungarici catturano 9 mila prigionieri in poche ore. Un episodio che induce Cadorna a pensare che lo stesso fosse avvenuto a Caporetto, dove invece i nostri soldati si erano battuti come leoni. Quelli che si ritirano in disordine non sono i reparti combattenti, ma quelli dei servizi di cui si è detto prima, gente non addetta a sparare e che non ha armi.
NICOLA LABANCA — Gaspari ha il grande merito di aver minuziosamente ricostruito nei suoi libri gli eventi dei primi giorni di Caporetto-rottura e i successivi tentativi di resistenza. Ma questa è solo una parte della verità. Se i tedeschi avanzano velocemente, è perché manca un piano difensivo italiano, in quanto la guerra era stata pensata solo in termini offensivi. E poi dopo la rottura c’è la rotta. Le testimonianze concordano sulla presenza di mucchi di fucili gettati dai soldati durante la ritirata: in quel momento quei combattenti non volevano più fare la guerra di Cadorna e Sonnino. I 300 mila prigionieri non vengono catturati tutti con le armi in pugno. Ci sono combattimenti, che Gaspari chiama «battaglie», ma sono scontri gestiti da coraggiosi ufficiali inferiori, che spesso vengono travolti. Quando si arriva al Piave, l’Italia ha perso la sua guerra offensiva. Comincia un conflitto diverso, difensivo. Un autentico ribaltamento che nessun altro grande Paese europeo ha conosciuto, a parte la Russia. Cadorna a quel punto non può rimanere, ma francesi e britannici si stupiscono che non sia stato destituito prima, visti i magri risultati delle tante offensive precedenti. E credo che uno storico non certo di sinistra come Piero Melograni, autore di una storia politica della Grande guerra, si stupirebbe, se oggi fosse vivo, della tendenza odierna a rivalutarlo. Una tendenza che paradossalmente oggi coesiste con la più nobile compassione umanitaria verso i soldati. Al posto di Cadorna arriva Armando Diaz, che — con il nuovo governo di Vittorio Emanuele Orlando — guida una guerra diversa e di sicuro è più previdente e attento alla condizione dei soldati. La svolta c’è, evidente. Ancora una volta però chi paga il prezzo più alto per arrivare alla vittoria sono i soldati, i civili affamati, gli operai delle fabbriche militarizzate, le vittime della repressione politica contro il disfattismo. Tutte vicende di una guerra che all’inizio il Paese non aveva voluto.
PAOLO GASPARI — Volevano la guerra gli studenti, che a scuola avevano acquisito la fierezza di un Risorgimento epico che andava completato «liberando» gli irredenti. Erano una minoranza, ma il Risorgimento non era stato opera di una minoranza ancora più esigua? Quella guerra fu il momento storico in cui si creò per la prima volta la coesione tra classi popolari e borghesia e fu vinta proprio per questo; lo dicono storici insigni come Federico Chabod e Rosario Romeo. Il raggiunto amalgama è sintetizzato dal fatto che nel luogo laico simbolo dell’identità italiana, l’Altare della patria, è sepolto un fante-contadino la cui tumulazione, il 4 novembre 1921 (prima del fascismo) segnò la fine del Risorgimento. Accusare Cadorna di quelle morti in battaglia svilisce il prezzo pagato da ogni famiglia italiana, annulla nella memoria l’epica di quella prova collettiva in un centenario che sta scivolando via senza che nelle scuole si sappia l’accaduto.

Corriere La Lettura 17.9.17
La disfatta che volle farsi metafora Come Canossa, Waterloo e la nostra Corea
di Giuseppe Antonelli

Magari non ce ne rendiamo conto, ma il nostro modo di esprimerci è pieno di frasi storiche. Succede spesso che — parlando o scrivendo — ci troviamo a rievocare fatti, personaggi o momenti di un passato anche remoto. La rotta di Caporetto, da questo punto di vista, è solo uno dei tanti casi e dei diversi modi in cui la storia si è sedimentata nella lingua.
Una Caporetto
Subito, all’indomani della disfatta, Caporetto è diventata molto più di una località: è diventata una metafora, un luogo comune dell’immaginario. Esattamente un anno dopo, Benito Mussolini scriveva: «Date presto una Caporetto agli Asburgo», con quell’articolo anteposto che rivela l’uso simbolico del nome. Come molti simboli, anche Caporetto sarà suscettibile delle declinazioni più varie. Di «una Caporetto del fascismo» si parlò già — ottimisticamente — nei giorni del delitto Matteotti. (A proposito di modi dire: a nulla servì l’«Aventino» su cui allora si ritirarono figuratamente i parlamentari dell’opposizione, riproponendo il gesto di protesta della plebe romana contro i soprusi dei patrizi).
Andare a Canossa
Capita spesso che queste espressioni di provenienza storica siano legate a luoghi che avremmo difficoltà a individuare su una cartina. Così — ad esempio — l’«andare a Canossa», in cui si tramanda un episodio risalente al 1077. La visita fatta nel piccolo centro emiliano dall’imperatore Enrico IV a papa Gregorio VII (ospite nel locale castello) per ottenere — umiliandosi al suo cospetto — il ritiro della scomunica. Oggi, senza spostarsi di un metro, a Canossa ci vanno un po’ tutti quando hanno bisogno di farsi perdonare: donne, uomini, partiti, Stati e anche organismi internazionali. «Il fatto che adesso l’Unione Europea dovesse venire a patti con la Turchia era stata considerata una sorta di “andata a Canossa”», si legge in un recente libro di Valerio Castronovo.
Una Corea
Come scrive il tennista Andre Agassi in Open , più che le vittorie a rimanere impresse sono le sconfitte. Altro caso è quello di «una Corea», che da noi si è spostata — appunto — dall’ambito militare a quello sportivo. L’occasione fu l’eliminazione dell’Italia ai Mondiali di calcio del 1966 da parte della dilettantistica squadra della Corea del Nord, con un gol di quello che le cronache ricordano come «il dentista» Pak Doo-Ik.
Un Vietnam
Le notizie di guerra che negli anni arrivavano dal Sudest asiatico hanno peraltro creato tutta una famiglia di espressioni simili, riferite a situazioni a vario titolo caotiche o disastrose. «Un Vietnam» — ad esempio — o «una Cambogia», che a Roma ha parzialmente sostituito il tradizionale «una caciara». («Io per organizzare questa Cambogia di festa ho guadagnato in tre giorni un milione e mezzo», si vantava uno dei personaggi del film di Carlo Verdone Al lupo, al lupo ).
Per indicare una gran confusione, d’altra parte, si usa anche «un ambaradàn»: ricordo della battaglia dell’Amba Aradam, combattuta dagli italiani durante la guerra coloniale d’Etiopia nel 1936. In quel caso non fu una sconfitta, ma una inutile strage.
Una vittoria di Pirro
Tra le vittorie esplicitamente ricordate come tali, l’unica è quella ottenuta — al prezzo di enormi perdite — da Pirro re dell’Epiro contro i Romani. Dove? La risposta si trova in una scena dell’ Ulisse di Joyce. «“Non ricordo il luogo, professore, 279 a.C.”. “Ascoli, disse Stephen, dando un’occhiata al nome e alla data sul libro con i suoi sfregi cruenti”. “Sì, professore. E disse: Un’altra vittoria come questa e siamo spacciati ”». (Occhio anche qui alla geografia: si tratta di Ascoli Satriano, in provincia di Foggia).
Più di Carlo in Francia
Accanto ai modi di dire basati sui nomi di luogo, ci sono quelli che fanno leva sui nomi di persona. Più ancora di Napoleone — del quale, tanto per cambiare, si ricorda soprattutto la fine: «una Waterloo» — il personaggio che maggiormente sembra vivere nella coscienza popolare è Carlo Magno.
Proprio a lui dovrebbe rimandare il proverbiale «farne più di Carlo in Francia» — ovvero combinarne di tutti i colori — ma anche il poco lusinghiero «alla carlona»: cioè senza cura, in maniera approssimativa. Un modo a cui, sul versante nostrano, si potrebbe accostare il risorgimentale «alla garibaldina», che però allude a una maniera di fare le cose sbrigativa ma efficace.
Il cavallo di Troia
Sarebbe troppo lungo soffermarsi qui su tutti i casi di antonomasia, da Pilato e Cincinnato fino alla calcistica zona Cesarini, battezzata da un giocatore che nel 1931 segnò all’ultimo minuto un gol decisivo. Anche perché, inseguendo i tanti casi in cui la storia stinge nel mito — da Ulisse e il suo «cavallo di Troia» a Brenno e le leggendarie «oche del Campidoglio» — il rischio sarebbe davvero quello di dover «ripartire da Adamo ed Eva». (Si può giusto ricordare, rimanendo in tema di storia e di lingua, che il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini ha definito la Commedia di Dante «il cavallo di Troia del successo della lingua toscana», destinata a diventare la nostra lingua nazionale).
Eran trecento
Eppure, è proprio un evento al limite tra storia e mito — la strenua resistenza dei 300 alle Termopili — a portarci nella terza tipologia linguistica: quella dei numeri. Trecento, come i giovani celebrati nella Spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini , narrando in versi la sfortunata spedizione del mazziniano Carlo Pisacane: «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti». Chissà se il riferimento era voluto. Di certo, dopo il successo dell’opera a fumetti di Frank Miller e del film che ne è stato tratto, i riferimenti si sono moltiplicati in certa sloganistica di destra: «Siamo stati come i 300 di Leonida alle Termopili», ha detto subito dopo la sua elezione il sindaco dell’Aquila, Pierluigi Biondi.
Un Quarantotto
Quando la storia dà i numeri, va detto, si tratta quasi sempre di date. «Le so tutte le date», esclamava Roberto Benigni in Tutto Benigni dal vivo ; poi cominciava a spararne a casaccio: 12 luglio del 1971, 15 gennaio 1982. «Ne vuole una antica? 18 luglio del 204 avanti Cristo», «Cosa successe?»: «Non lo so, però le date…». A rimanere nella lingua sono soprattutto certi anni. Se per alludere a una situazione di scompiglio si dice ancora «fare un Quarantotto» o «succedere un Quarantotto», è perché nella memoria collettiva il 1848 — quello dei moti popolari in Italia e in Europa — si è fissato come l’anno dei grandi sconvolgimenti, l’anno in cui l’ordine costituito ha preso a traballare. «Il quindici-diciotto/ il prosciutto cotto/ il Quarantotto/ il Sessantotto/ le pitrentotto», cantava irriverente Rino Gaetano in quel surreale bignami intitolato Nuntereggae più . La storia dell’Italia contemporanea riassunta (prosciutto a parte) in poche cifre. E, d’accordo, forse le cose non sono andate proprio così. Ma quella a parole, in fondo, è tutta un’altra storia.

La Stampa 17.9.17
Dunkerque
Sulle spiagge francesi dove nel 1940 i soldati alleati fuggirono dalle truppe naziste Tra eroi dimenticati e luoghi comuni creati dal film di Nolan: “Gli inglesi non tradirono”
di Domenico Quirico

Dunkerque, in faccia all’oceano grigio, distesa lungo le sue dune, ha l’aspetto di un ammasso di botteghe d’esposizione. Il porto e i cantieri hanno l’aria di una prua di naviglio incagliato. Poi c’è Malo le Bains: un angolo di vecchia città da vacanze fittizia, una specie di Lille da kermesse.
Di vecchia Gand. Posati sulle dune i villini, i pochi rimasti tra orribili costruzioni Anni Sessanta, stendono le loro stantie fantasie architettoniche, tetti di ardesia, guglie e torrette, merlature, verande. Dunkerque non ha nulla della solennità borghese o della noia aristocratica e proustiana delle località normanne. È una città di bagni e di casinò fatta alla carlona. Neppure la guerra ha potuto darle la grandezza tragica delle città che vegliano al confine del pericolo. L’ondata devastatrice nel 1940 è venuta a morire qui: ma essa sembra non curarsene più.
Cerco il museo della operazione Dynamo in un bastione ottocentesco dove era posto il comando francese. Passa una signora in bicicletta, elegantissima: «Non so, ho fretta vado allo manìf contro Macron. Siamo in sciopero, bonjour». La vecchia piccola Francia del rito della «grève», bottegaia, notarile, ottusamente sindacalizzata, capitolarda, che nel 1940 non vedeva l’ora di arrendersi a Hitler.
Davanti a me nel bacino della Marina galleggia la «principessa Elizabeth». Nel 1940 questo placido traghetto per turisti portò via centinaia di soldati in trappola facendo la spola per Dover sotto le bombe. Ne hanno fatto un ristorante galleggiante: l’epopea scivola mestamente nelle casseruole.
Lucien Dayan, presidente del Memorial souvenir Dunkerque, ha visto il film di Nolan. Riflette: «Sulla battaglia sopravvivono tanti luoghi comuni falsi, per esempio che gli inglesi ci abbandonarono, ci tradirono. E invece più di centomila soldati francesi furono portati via dalle navi inglesi. Ma furono i ventimila francesi che si batterono eroicamente per difendere il perimetro di Dunkerque contro ottantamila tedeschi, uno contro sei, che resero possibile il reimbarco. Ma tutto ciò è dimenticato». L’eroe della città resta Jean Bart, il pirata del re Sole, che gli inglesi li uccideva a sciabolate.
Arrivo qui inseguendo le immagini dello stupefacente successo di un film di guerra. Chiedo se organizzano visite guidate sui luoghi dove nel maggio-giugno del 1940 trecentomila uomini combatterono, sperarono, morirono. Scopro che i tour, a piedi e in torpedone, ci sono: non nei luoghi della battaglia, ma sugli scenari dove il film è stato girato.
Scoprirete, annuncia giulivo il dépliant, molti aneddoti e gustosi episodi accaduti durante la lavorazione: dove il regista Nolan veniva ogni sera a mangiare la pizza, o i guai e le buffe avventure delle comparse locali alle prese con il mondo delle star.
È giusto sia così. Noi che non sappiamo più fare le guerre, neppure quelle indispensabili, ci appassioniamo a quelle finte, quelle che il cinema inventa: antiche e contemporanee. E diventano loro la guerra, fantasmi che ci siamo creati. Viviamo su un fondo di leggende finte che impregnano i nostri spiriti, ci foggiano, deformano, e hanno una grossa parte di responsabilità negli eventi crudeli che vediamo svolgersi davanti a noi lasciandoci inerti o indifferenti.
Tra fiction e realtà
Chi è stato dentro una battaglia vera sa che la guerra è più sobria, più smorta, più impastata di noia di paura di melanconia di quanto possa inventare qualsiasi sceneggiatore. Essa è brutta e interessante, non soddisfa mai la voglia di lottare che purtroppo dorme nel cuore dell’uomo. Gli eroi, nella guerra vera, sono uccisi senza gloria, senza sapere come e da chi, senza veder nulla, in uno scatenamento di forze oscure tra cui impera, unico, il caso. Forse solo coloro che l’hanno combattuta, Tolstoj Stendhal, Omero, forse, possono trovare le parole per raccontarla.
Cammino sulle bianche sabbie di Dunkerque. Il mare è ammantato di una veste glauca, orlata di molte file di merletti. Un gabbiano grigio si appoggia dolcemente sul vento. Nessuna vela nessuna nave. La spiaggia è saccheggiata dal maestrale che alza nembi di sabbia. Lunghe distese chiare appaiono sospese nell’aria a perdita d’occhio. Vuota la spiaggia, ora che la breve stagione balneare è finita, una gru porta via le ultime cabine colorate. Il mare: disabitato come la luce del primo giorno. Anche i cespugli verdi sulle dune sono arrovesciati dal vento come chiome da pettinare.
Non c’era questo silenzio in quei giorni di maggio quando Malo le Bains perse la sua aria di balocco. Tutto si insudiciò di fumo che veniva dagli incendi nel porto. Alti camini di esplosioni salivano tra le case e vomitavano continuamente le loro nubi nere. Anche sulla spiaggia, su su fino a Brai-Dunes e La panne, i tredici chilometri del fronte, si alzavano bruscamente i funghi nerastri delle esplosioni e il rumore meccanico di aeroplani, uccelli dal volo quadrato e angolare, i soli a loro comodo su un città che muore. Dopo la guerra bisogna che non sussista più niente.
Dunkerque dei casinò e degli ombrelloni che aveva conservato il suo carattere di gaiezza perfino nei mesi della «guerra stramba», una guerra rallentata, raffreddata da manuale di storia, mutò. Finiti i colori, gli arabeschi: la città è fosca, le mitragliatrici in periferia già battono i denti. I tedeschi sono lì. Dunkerque agonizza, Dunkerque muore.
La guerra ha svelato la sua faccia maledetta, si insinua, il suo fantasma immateriale si dissemina come una nube di polvere nera. Si affacciano sulle dune lunghe colonne color kaki, con la catinella di don Chisciotte calcata in testa, coperti dai loro abiti logori sporchi, portando ancora gamelle ammaccate, bisacce sformate, l’aspetto mal lavato, lo sguardo incerto trascinando le scarpacce chiodate: formano qualcosa che assomiglia ormai a un armento di emigranti. Gli ufficiali li dirigono, li spingono, li incanalano urlando. Guardano, coperta da un manto nero nel cielo di maggio, la pira funebre della città.
Fuga verso la salvezza
Ecco: Dunkerque non appartiene alla storia delle battaglie, alla strategia e alla tattica militare. È una storia di lotta per sopravvivere, di uomini che cercano la salvezza. Come l’Anabasi di Senofonte o la ritirata degli italiani nell’inverno russo. Uomini che lottano per tornare a casa, che hanno gettato il fucile. Raccontare in una guerra smisurata storie di insetti. Parla a un’altra parte del nostro cuore, vi scava dentro altre rughe. Seduti faccia a faccia come dei superstiti che si ritrovano, senza dir nulla, ci specchiamo in loro. Quei giorni di sofferenza forse hanno dato la vittoria. Forse. Ma non possiamo dimenticare quelle ore povere, più delle altre hanno diritto a un grande posto nel nostro passato.
L’epopea di Dunkerque non sono i giorni delle spiagge, è il cammino dei trecentomila soldati che approdarono al mare come marinai che stremati di fatica dopo una lunga tempesta salutano il fuoco che annuncia la terra vicina. Per questo li ripercorro: praterie verdi e grasse, fossati dove l’acqua dorme sotto dense capigliature di alberi. Nei nomi dei villaggi risuonano antiche guerre e la distesa dei prati sembra il ricordo dei guerrieri massacrati nell’infinito trascorrere del tempo. Lì i loro padri avevano combattuto e vinto lo stesso nemico: Armentiéres, Neuve Eglise, Kemmel, Ypres, ogni pochi chilometri un cimitero della Prima Guerra mondiale pacifico sotto il sole di maggio mentre tutto intorno divampava una nuova guerra. Perché loro non erano stati capaci di vincere? Dai boschi i mortai tedeschi sputano fiammate gialle, continuo palpitare di detonazioni. Dio mio, avevano da poco attraversato quei luoghi cantando: «Tipperary, la lunga fila serpeggiante», «appenderemo il bucato sulla Maginot». Perché ora dovevano ritirarsi sempre? Perché? Il mondo sembrava uscito dai cardini, come quegli orologi che si fermano e per quanto li si scuota continuano a battere senza procedere.
La vera guerra
Ai lati del sentiero hanno buttato tutti gli avanzi, carri rotti, cannoni squassati, cavalli morti con le zampe rigide, i ventri gonfi. Il fiotto di questa folla si precipita verso il mare, verso la terra promessa. Mescolandosi ai profughi, autocarri che ronfano rauchi, carette, vetture di ferro e di legno, impolverati irriconoscibili, tormentati dalla sete e dai morsi della fame. La Luftwaffe schiaccia tutto quello che si muove. A Dunkerque alla tensione di nervi subentra una immensa stanchezza. Dalle navi che accorrono al soccorso le spiagge nella notte sono misteriosi puntolini luminosi che forano l’oscurità, non lucciole, ma centinaia e centinaia di soldati che fumano una sigaretta attendendo l’imbarco. Sozzi macilenti miserabili, sdraiati nelle buche, a guardare l’orizzonte basso, l’Inghilterra lontana come da un astro. Si sentono umiliati impotenti deboli: quella è la guerra vera, la guerra corporea, non la guerra dei film e dei libri che hanno letto da ragazzi. È sconcertante, spaventosa, disorganizzata e non assomiglia affatto al mito che avevano loro spacciato. Non c’era nulla di ardimentoso e di eroico a stare lì, attendendo che qualcuno li salvasse, nulla che riscattasse la guerra. Li dominava. Non l’avrebbero mai dominata.
Un rombo cupo fa come una batteria di incudini. Una bomba, due bombe. Tre, quattro. Si schiacciano. L’aereo si allontana, un altro viene. Non ci sono albe di tutti i giorni ormai. Accoccolati, il cuore stretto, attendono.

La Stampa 17.9.17
Maschio e femmina
La strada dell’umanità
La Genesi valorizza la differenza sessuale quale via al completamento e mette in guardia dalla possessività
di Enzo Bianchi

Nel libro della Genesi, il primo libro della Bibbia, il libro dell’in-principio (be-re’shit: Gen 1,1) troviamo due racconti della creazione, composti da autori e redattori umani, dunque segnati da una precisa cultura, in un tempo definito della nostra storia. Appartengono a un genere letterario che qualifichiamo come mitico.
Il mito è un racconto situato culturalmente, dotato di una visione specifica, ma che vuole significare ciò che è universale, costitutivamente antropologico; ovvero, nel nostro caso, cosa ne è dell’ ’adam, dell’essere umano, il «terrestre». Sono redazioni diverse e non contemporanee della creazione, ma sono stati posti intenzionalmente l’uno dopo l’altro dai redattori finali della Torah: non giustapposti, ma collocati in successione, in modo che apparisse la dinamica dell’umanizzazione.
’Adam
Nel primo racconto (Gen 1,1-2,4a), un vero e proprio inno, una narrazione ritmata e ripetitiva, è contenuta la creazione dell’’adam, dell’umano, descritta con un testo che nella sua armonia poetica scandisce il cuore del messaggio biblico su Dio e l’umanità nei suoi rapporti con Dio e con gli animali. Ascoltiamola in una versione calco dell’ebraico: «Ed ’Elohim disse: Facciamo ’adam in nostra immagine, come nostra somiglianza: dominino i pesci del mare, i volatili dei cieli, il bestiame, tutta la terra e ogni strisciante sulla terra. Ed ’Elohim creò ha-’adam in sua immagine, in immagine di ’Elohim lo creò, maschio e femmina li creò» (Gen 1,26-27).
Chi è l’umano creato «in immagine di Dio», chi è rispetto a Dio e rispetto agli animali? E cosa comporta quel singolare «lo creò», ripetuto nel duale «maschio e femmina li creò»?
Gli esseri umani, l’umanità immagine di Dio è in relazione con Dio stesso e con le altre creature. L’essere umano è in sé relazione, e ciò che lo attesta in modo paradigmatico è la differenza sessuale, perché l’umano esiste in quanto maschio e femmina, con tutte le possibili varianti e intersecazioni di questa polarità. Gli umani sono immagine di Dio, ciascuno di loro nell’umanità di cui fa parte, in sé sono uniti e si completano accettando la differenza reciproca.
Conformi a Dio
In questo testo vi è un’immensa valorizzazione del rapporto uomo-donna, valorizzazione della completezza: non c’è una svalutazione della sessualità né una visione cinica o angosciata della differenza sessuale! La sessualità è positiva e Dio vuole che l’uomo e la donna insieme portino a compimento l’opera di umanizzazione: creati a immagine di Dio, devono diventargli conformi, somiglianti. Ciò deve avvenire nel vivere: nella vita e solo nella vita! Vivere significa venire al mondo, abitarlo, stare tra co-creature di cui gli umani devono assumersi una responsabilità. Gli umani hanno un corpo come gli animali, sono animali, ma sono anche diversi da loro, innanzitutto nella responsabilità. L’umano è e deve farsi responsabile della terra e dell’ambiente, non è la terra che deve essere responsabile dell’umanità.
Nel secondo racconto (Gen 2,4b-25), più antico di secoli, o forse addirittura di più di un millennio, confluiscono elementi mitologici di diverse culture. La narrazione intende collocare l’umano nel mondo e metterlo in relazione, riaffermare attraverso un altro percorso che l’umano è relazione, è alterità. Ora, la differenza sessuale è parabola di ogni alterità, in nome della quale l’altro, «gli altri - come diceva Jean-Paul Sartre - sono l’inferno», o meglio, possono esserlo. L’umano è veramente tale quando vive la relazione, ma ogni relazione di differenza comporta tensione e conflitto. Il rapporto uomo-donna è l’epifania della differenza e della reciproca alterità. Solo nella relazione l’umano trova vita e felicità, ma la relazione va imparata, ordinata, esercitata, perché in essa occorre dominare l’animalità presente in ciascuno, che nel rapporto si manifesta come violenza.
Le relazioni dell’uomo
Ecco dunque l’umano, un essere in relazione con la terra da cui è tratto, con gli animali in quanto animale, con l’altro da sé che ha il suo stesso soffio di vita ricevuto da Dio e infine con Dio stesso. È in questo fascio di relazioni che l’umano, uomo e donna, si umanizza. E quando il terrestre, uscito dal torpore in cui Dio lo aveva posto, vede l’altro lato, il partner, allora parla con stupore. Ecco l’accesso alla parola, possibile quando c’è di fronte l’altro: finalmente un partner degno, che accende la parola, che abilita all’io-tu, al dialogo, alla relazione! Finalmente - dice l’uomo - un essere che è «osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne. La si chiamerà ’isshah perché da ’ish è stata tratta» (Gen 2,23). La relazione ormai è inaugurata: ecco l’uomo e la donna.
Il dramma
Ma se oggi riusciamo a fare questa lettura delle prime due pagine della Bibbia, occorre però ricordare che l’interpretazione non è sempre stata questa. Né si dimentichi che già nell’ultima parte del secondo racconto vi sono in nuce tutti i segni del dramma che attraversa la storia fino a noi, fino al femminicidio che purtroppo tante volte appare ancora nei nostri giorni. In verità l’umano, ha-’adam, già qui si rivela in tutta la sua problematicità. Infatti, non appena l’uomo vede la donna, non parla alla donna, non imbocca la strada dell’io-tu, ma parla a se stesso: «Questa sì che è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne». In tal modo esprime una verità, e cioè che la donna ha la stessa natura e perciò la stessa dignità e vocazione dell’uomo, ma la dice male, esprimendo subito la sua possessività: osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne. Parla a se stesso e parla del suo possesso. La donna tace, è ridotta al silenzio e per l’uomo appare una cosa. Egli dice: «È stata tratta da me, è mia carne», e così nega ogni alterità, quell’alterità che richiede che la donna sia un soggetto di fronte a lui. Subito la volontà e il progetto di Dio sono traditi, e il dramma che seguirà immediatamente è già abbozzato qui, nell’emergere della differenza negata!
Principio e fine
Scriveva T. S. Eliot in uno dei suoi Quattro quartetti : «Nel mio principio è la mia fine… Nella mia fine è il mio principio» (East Coker, inizio e fine del testo). In queste prime pagine dell’in-principio c’è già tutta la storia dell’umanità, c’è già il misconoscimento dell’altro partner, c’è già la pretesa che l’altro sia un possesso omologo, che l’altro non sia altro, differente, diverso! Culture patriarcali e rare culture matriarcali manifestano la lotta tra i sessi, manifestano la ferita che ognuno di noi sente di fronte alla differenza: ne è attratto ma ne ha paura, vuole relazione ma ne vuole il possesso, vuole comunione ma anche guerra. Queste pagine tentano allora di dirci come le singolarità di ciascuno di noi, dovute a molte differenze, a partire da quella sessuale, devono coniugarsi affinché vi siano vita e felicità, seppur segnate dal limite. La differenza sessuale maschio-femmina è paradigma di ogni differenza, ma tutte le differenze sono legate a quel tragitto che ogni umano compie, tra la nascita e la morte, quando ognuno di noi ritornerà alla terra da cui è stato tratto (cf. Gen 3,19), dunque ritornerà a colui che l’ha creato. Allora ciascuno darà una risposta personalissima alla domanda sul cammino di umanizzazione rivoltagli da Dio. Mi riferisco alla prima domanda di Dio, narrata subito dopo nella Genesi, domanda rinnovata in ogni giorno della nostra vita: «’Adam, dove sei?» (Gen 3,9). Nella nostra fine è la risposta alla domanda dell’in-principio, alla responsabilità dell’umanizzazione.

La Stampa 17.9.17
I Ritchie Boys, gli ebrei tedeschi
che aiutarono a sconfiggere Hitler
Arruolati dagli americani per operazioni speciali e interrogatori
di Mirella Serri

Nell’autunno del 1942 una notizia volò di bocca in bocca nella valle del Maryland dove l’esercito aveva attivato il campo militare di Fort Ritchie: i nazisti erano arrivati in America e si stavano esercitando proprio da quelle parti. Un paio di operai che si erano addentrati nell’area top secret del campo raccontavano di aver visto un plotone con l’uniforme della Wehrmacht che marciava spedito: «Links, zwei, drei». Non era un miraggio ma non si trattava di fedelissimi di Hitler negli Usa, bensì di giovani militari ebrei tedesco-americani la cui vicenda è stata per decenni dimenticata e che adesso è stata ricostruita sulla base di diari ritrovati dallo scrittore e giornalista Bruce Henderson in Fratelli e soldati. La vera storia degli ebrei che sconfissero Hitler (in uscita da Newton Compton).
I giovani che procedevano al passo dell’oca furono ribattezzati i Ritchie Boys, combattevano sotto la bandiera a stelle e strisce e si stavano esercitando per trasformarsi in perfetti soldati tedeschi pronti a infiltrarsi nelle linee nemiche. Ma si stavano allenando anche ad apprendere nuove tecniche di guerra, ovvero gli interrogatori dei prigionieri messi in atto per la prima volta dagli americani e dai britannici dopo lo sbarco in Nord Africa. Erano tutti ebrei nati in Germania da dove erano fuggiti verso la fine degli Anni Trenta lasciandosi alle spalle amici e parenti che non avrebbero mai più rivisto. Dopo l’addestramento di otto settimane nel Maryland, i circa duemila ragazzi che frequentarono i 31 corsi ottennero la cittadinanza americana e poi furono paracadutati in Francia: al seguito del generale Patton conquistarono Nantes, Orléans, Nancy e parteciparono nel dicembre del 1944 alla battaglia delle Ardenne.
Il loro intervento fu decisivo nella sconfitta tedesca. Un rapporto a lungo tenuto riservato dell’esercito americano ha rivelato che quasi il 60 per cento delle informazioni attendibili sul nemico raccolte in Europa furono frutto del lavoro svolto dai Ritchie Boys addestrati dal Military Intelligence Training Center (Mitc). Il loro segreto? I Ritchie Boys erano a conoscenza delle abitudini, del modo di esprimersi, della mentalità e della psicologia dei connazionali nazisti. Ma soprattutto operavano spinti da un drammatico e personale coinvolgimento.
Racconta Martin Selling, uno dei più famosi Ritchie Boys divenuto abilissimo nello «spremere» i prigionieri, che un ufficiale appena catturato gli chiese con arroganza dove aveva imparato così bene il tedesco. «Nel lager di Dachau», rispose Martin. A questo punto il graduato non svenne ma per la paura se la fece letteralmente addosso.
Ma era proprio vero: Martin era stato chiuso in quel campo di concentramento e ne era uscito vivo per miracolo. Non aveva comunque nessuna intenzione di applicare torture analoghe a quelle che gli erano state inflitte. Al contrario. Doveva agire sui prigionieri con grande velocità: le informazioni sui movimenti delle truppe, sulle postazioni difensive, sui campi minati e sul morale dei tedeschi diventavano rapidamente obsolete. E poi Martin e gli altri ragazzi che si chiamavano Werner Angress, Stephan Lewy, Guy Stern proprio per aver subito l’orrore della sopraffazione nazista non amavano la violenza.
Erano a conoscenza, per esempio, che i tedeschi temevano di essere catturati dai sovietici e di finire in Siberia. Allestirono così una pittoresca tenda russa dove Guy si fingeva un isterico Commissario sovietico con alle spalle una gigantesca fotografia di Stalin. L’espediente fu molto efficace nel convincere i nazisti a vuotare il sacco. Solo in alcuni casi, rammenta ancora Martin, si dovette ricorrere alle maniere forti. Così costrinse un detenuto assai reticente a scavarsi la fossa. E ottenne le notizie che desiderava.
Nel febbraio 1945 quando Guy fu informato che Marlene Dietrich avrebbe portato in scena il suo show per la Uso (United Service Organizations) nei pressi della sua armata, convinse la celebre attrice e cantante berlinese a fare un’escursione. La portò a visitare le gabbie dove erano chiusi i soldati della Wehrmacht. Voleva dare un segnale di pace e informare i detenuti che la loro collaborazione sarebbe stata preziosa per evitare un ulteriore spargimento di sangue.
Il momento più tremendo per i Ritchie Boys fu quando si imbatterono per la prima volta in un lager, nel sottocampo di Wöbbelin. Capirono così l’indicibile orrore che aveva inghiottito genitori, fratelli, amici. Ma i Ritchie Boys non chiedevano vendetta e non cambiarono nemmeno allora i loro metodi di interrogatorio. Furono eroi dissimulati e protagonisti di azioni che non finirono sotto la luce dei riflettori anche perché l’America postbellica non era pronta per ricordare le loro imprese. Molti di loro persero la vita ma la loro storia esemplare è caduta nel dimenticatoio fino ai nostri giorni.

Il Sole Domenica 17.9.17
Voltaire, storia universale della menzogna
«Presso tutte le nazioni, la storia è sfigurata dalla favola: la filosofia trova gli uomini così accecati che fatica con la ragione a disingannarli»
di Armando Massarenti

Ho percorso questo vasto teatro delle rivoluzioni a partire da Carlo Magno, e persino risalendo spesso molto piú indietro, fino al tempo di Luigi XIV. Quale sarà il frutto di questo lavoro? Quale profitto si trarrà dalla storia? Vi si sono visti i fatti e i costumi; vediamo quale vantaggio ci verrà dalla conoscenza degli uni e degli altri.
Sui fatti storici. Un lettore di buon senso si accorgerà facilmente di dover credere solo ai grandi avvenimenti che hanno qualche verosimiglianza, e considerare con disprezzo tutte le favole di cui il fanatismo, lo spirito romanzesco e la credulità hanno riempito in ogni tempo la scena del mondo. Costantino trionfa sull’imperatore Massenzio; ma certamente non gli apparve un labarum tra le nubi, in Piccardia, con un’iscrizione in greco. Macchiato di assassinî, Clodoveo si fa cristiano e commette nuovi assassinî; ma né una colomba gli reca un’ampolla per il suo battesimo né un angelo scende dal Cielo per consegnargli uno stendardo. Un monaco di Chiaravalle può predicare una crociata, ma bisogna essere stolti per scrivere che Dio fece miracoli per mano di questo monaco al fine di assicurare il successo di quella crociata, che fu tanto sfortunata quanto follemente intrapresa e mal condotta. Il re Luigi VIII può morire di tisi, ma solo un fanatico ignorante può dire che gli amplessi di una ragazza l’avrebbero guarito e che egli morí martire della sua castità.
Presso tutte le nazioni, la storia è sfigurata dalla favola, sino a che la filosofia viene alla fine a illuminare gli uomini; e quando finalmente giunge in mezzo a quelle tenebre, la filosofia trova gli spiriti talmente accecati da secoli di errori che riesce appena a disingannarli; trova cerimonie, fatti e monumenti istituiti per certificare menzogne. In che modo avrebbe potuto, per esempio, un filosofo, nel tempio di Giove Statore, persuadere la plebe che Giove non era disceso dal Cielo per fermare la fuga dei Romani? Nel tempio di Castore e Polluce, quale filosofo avrebbe potuto negare che questi due gemelli avessero combattuto alla testa delle truppe? Non gli avrebbero mostrato l’impronta dei piedi di codesti due dèi conservata sul marmo? I sacerdoti di Giove e di Polluce non avrebbero forse detto a quel filosofo: «Criminale miscredente, non siete forse costretto ad ammettere, vedendo la colonna rostrale, che abbiamo vinto una battaglia navale di cui questa colonna è il monumento? Ammettete dunque che gli dèi sono scesi sulla Terra per difenderci e non bestemmiate i nostri miracoli dinanzi ai monumenti che li attestano».
È cosí che, in ogni tempo, ragionano l’impostura e l’imbecillità. Una principessa idiota costruisce una cappella dedicata alle undicimila vergini; il vicario parrocchiale non dubita che le undicimila vergini siano esistite e fa lapidare la persona di buon senso che ne dubita. I monumenti provano i fatti solo quando questi fatti verosimili ci vengono trasmessi da contemporanei illuminati.[...]
Sui costumi asiatici paragonati ai nostri. Nel corso di tante rivoluzioni, si è potuto notare che, in Europa come in Asia, si sono formati popoli quasi selvaggi nelle contrade un tempo piú civilizzate. Una certa isola dell’Arcipelago egeo, uno straniero vede passare il bene di suo padre al fisco regio, sussiste ancora in tutti i regni cristiani, a meno che non vi si deroghi con accordi specifici. Noi pensiamo ancora che, in tutto l’Oriente, le donne siano schiave perché sono vincolate a una vita domestica. Se fossero schiave, alla morte dei loro mariti sarebbero dunque costrette a mendicare; ciò non avviene: esse hanno dappertutto una porzione dei beni stabilita dalla legge e ottengono questa porzione in caso di divorzio.
Da un capo all’altro del mondo, trovate leggi istituite per il mantenimento delle famiglie. Esiste dappertutto un freno imposto al potere arbitrario dalla legge, dalle usanze o dai costumi. Il sultano turco non può né apportare cambiamenti alla moneta né destituire i giannizzeri né immischiarsi in quanto avviene all’interno dei serragli dei propri sudditi. L’imperatore cinese non promulga alcun editto senza la sanzione di un tribunale. In ogni Stato, si subiscono dure violenze. I gran visir e gli itimadulet commettono omicidî e rapine, ma non sono autorizzati a farlo dalle leggi piú di quanto non lo siano gli Arabi e i Tartari nomadi a depredare le carovane.
La religione insegna la stessa morale a tutti i popoli senza alcuna eccezione: le cerimonie asiatiche sono bizzarre e le credenze assurde, ma i precetti sono giusti. Il derviscio, il fachiro, il bonzo e il talapoin dicono dappertutto: «Siate equi e caritatevoli». Al popolo minuto della Cina si rimproverano molti atti sleali nel commercio: forse è incoraggiato a questo vizio dal fatto di poter acquistare, per poco denaro, dai suoi bonzi l’espiazione di cui crede di aver bisogno. La morale che gli viene suggerita è buona; perniciosa è l’indulgenza che gli viene venduta.
Invano alcuni viaggiatori e alcuni missionari ci hanno rappresentato i sacerdoti d’Oriente come predicatori dell’iniquità; questo significa calunniare la natura umana: non è possibile che mai esista una società religiosa istituita per indurre al delitto. [...] Non meno sbagliato è credere che la religione dei musulmani si sia affermata solo grazie alle armi. I maomettani hanno avuto i loro missionari in India e in Cina, e la setta di Omar combatte la setta di Alí a parole fin sulle coste del Coromandel e del Malabar.
Da questo quadro risulta che ciò che è intimamente collegato alla natura umana si assomiglia da un capo all’altro del mondo; che tutto ciò che può dipendere dalla consuetudine è diverso, e che è un caso se è simile. L’impero della consuetudine è molto piú vasto di quello della natura: si estende ai costumi e a tutte le usanze; diffonde la varietà sulla scena del mondo; la natura vi diffonde l’unità e stabilisce dappertutto un piccolo numero di principî invariabili: perciò, il terreno è dappertutto lo stesso, ma la coltivazione produce frutti diversi.
Poiché la natura ha posto nel cuore degli uomini l’interesse, l’orgoglio e tutte le passioni, non sorprende che si sia vista, in un periodo di circa dieci secoli, una sequenza quasi ininterrotta di delitti e di disastri. Se risaliamo alle epoche precedenti, esse non sono migliori. La consuetudine ha fatto sí che il male sia stato compiuto da ogni parte in maniera differente.
In base al quadro che abbiamo tracciato dell’Europa dal tempo di Carlo Magno ai nostri giorni, è facile giudicare come questa parte del mondo sia incomparabilmente piú popolata, piú civilizzata, piú ricca e piú illuminata di quanto non lo fosse allora, e che essa sia anche molto superiore a ciò che era l’Impero romano, se si esclude l’Italia. [...]
Una delle ragioni che, in generale, hanno contribuito a popolare l’Europa è il fatto che, nelle innumerevoli guerre che tutte le province hanno patito, le nazioni vinte non sono state deportate. Carlo Magno spopolò, a dire il vero, le rive del Weser; ma si tratta di un piccolo cantone che con il tempo si è ristabilito. I Turchi hanno deportato molte famiglie ungheresi e dalmate, cosicché quei paesi non sono abbastanza popolati; e la Polonia manca di abitanti solo perché là il popolo è ancora schiavo. In quale stato florido sarebbe dunque l’Europa senza le guerre continue che la sconvolsero per interessi futilissimi e spesso per piccoli capricci! A quale grado di perfezione sarebbe giunta la coltivazione delle terre, e quanto maggiore aiuto e agiatezza avrebbero dispensato nella vita civile le arti che lavorano questi prodotti, se non si fosse sepolto dentro i chiostri quello stupefacente numero di uomini e di donne inutili! Uno spirito umanitario nuovo, che è stato introdotto nel flagello della guerra e che ne mitiga gli orrori, ha contribuito inoltre a salvare i popoli dalla distruzione che pare minacciarli in ogni istante.
Quando conosce le arti e quando non è sottomessa e deportata dagli stranieri, una nazione risorge facilmente dalle sue rovine e si ristabilisce sempre.
Voltaire
Sebbene Voltaire non abbia mai davvero pronunciato il più famoso dei suoi aforismi - «disapprovo la tua idea, ma combatterò fino alla morte perché tu possa esprimerla liberamente» - è proprio la difesa della libertà di espressione, unita alla parola d’ordine écrasez l’Infame, schiaccia l’infame (cioè le chiese e il fanatismo religioso), il tratto che contraddistingue più di ogni altro la sua intera opera, ed è l’esito naturale di ogni riflessione e ricostruzione contenuta nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, concepito nel 1740 e pubblicato per la prima volta nel 1753, di cui esce in questi giorni la pregevole edizione nei Millenni Einaudi: due volumi per quasi duemila pagine in cui l’autore presenta, in 197 capitoli, un affresco delle civiltà umane e della loro storia. A partire dalla Cina, considerata, sulla scorta delle scoperte dei gesuiti, la civiltà che ha anticipato buona parte delle nostre invenzioni, ben più antica e stabile nel rispetto delle leggi - in epoca moderna a Voltaire solo il sistema inglese, dopo l’istituzione della Camera dei Comuni, pare promettente, - la sola che sia stata capace, grazie al confucianesimo, di instillare in maniera costante i principi morali e del buon governo in una popolazione dove le élite venivano selezionate in base al merito. Altri 53 brevi capitoli costituiscono il compendio intitolato La filosofia della storia, un’espressione che avrebbe avuto grande fortuna a partire da Hegel che ricalcò sul Saggio volterriano la sua monumentale storia dello spirito umano, introducendo però un elemento finalistico molto ideologico: per cui ritornare a Voltaire può essere oggi, sia detto per inciso, un utile toccasana per tentazioni alla Fukuyama di dichiarare improbabili fini della storia. Voltaire intendeva, più modestamente, mettere al servizio della storia umana, oltre alle proprie straordinarie doti letterarie, una filosofia capace di smascherare, attraverso la ragione e lo spirito critico, le infinite assurdità che erano contenute nelle ricostruzioni correnti, le quali non si preoccupavano di distinguere i fatti (più o meno probabili) dai pregiudizi, la superstizione, le dicerie, le favole irrazionali, i veri e propri imbrogli del potere religioso e politico. La ragione è anche riconosciuta come un sia pur fragile fattore di progresso, che si manifesta a sprazzi in una umanità in cui prevale l’opinione fallace e incontrollata. La religione, d’altro canto, di cui Voltaire riconosce nelle culture più diverse una base morale universale, si manifesta però in varie forme di fanatismo, di violenza e di oscurantismo. Eppure, da deista, così riassume le motivazioni di un buon temperamento umano: «È la grazia che spinge il cristiano ad agire mentre la ragione muove il filosofo». E con eguale grazia la ragione, la filosofia, è pronta a riconoscere certe abilità intrinseche alla natura umana, non solo in ambito morale, che vengono prima della stessa riflessione razionale. «Anche in quei secoli rozzi [il Medioevo] si ebbero invenzioni utili, frutto di quella propensione alla meccanica che la natura dà a certi uomini, alquanto indipendentemente dalla filosofia». «Chiunque vuole leggere la storia come cittadino e come filosofo»... «Vorrà sapere come le arti, le manifatture si sono formate; seguirà il loro passaggio e il loro ritorno da un paese all’altro. I mutamenti nei costumi e nelle leggi saranno infine il suo grande oggetto d’interesse. Si conoscerà così la storia degli uomini invece di sapere una esigua parte della storia dei re e delle corti». In affermazioni come queste - osserva Roberto Finzi nell’ introduzione - Voltaire anticipa, a dispetto di chi considera l’Illuminismo un’epoca priva di senso storico, lo spirito della «nuova storia» novecentesca delle «Annales» e inaugura, dopo Montesquieu, quella che verrà chiamata «l’histoire de la civilisation», la storia dell’incivilimento. Una storia in cui, alla lunga, la società migliora e si perfeziona, ma sempre con scarse garanzie di successo per la ragione e per il pensiero critico. Nel Dizionario filosofico si racconta di un uomo che affronta con coraggio l’azione dei potenti (da John Law al papa al doge di Venezia al “mufti” di Costantinopoli) argomentando e mettendo in rilievo le contraddizioni di quei grandi della Terra, finendo via via in prigione e infine impalato. «Eppure - commenta Voltaire - aveva avuto sempre ragione».
Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni , a cura di Domenico Felice. Traduzione di Domenico Felice, Lorenzo Passarini, Fabiana Fraulini e Piero Venturelli. Introduzione di Roberto Finzi. Tomo primo pagg.CXXXIX + 866; Tomo secondo pagg XV + 963, Einaudi,
I Millenni, Torino, € 150
Pubblichiamo un ampio stralcio delle conclusioni
del «Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni»
di Voltaire intitolate «Riassunto di tutta questa storia fino al tempo in cui comincia il bel secolo di Luigi XIV»

Il Sole Domenica 17.9.17
Buenos Aires
«Desaparecidos», sparite anche le idee
Il Museo della Memoria rende omaggio agli oppositori di Videla. Peccato solo che non spieghi il loro progetto politico
di Gabriele Pedullà

Entrando, al primo colpo d’occhio, i vetri del Padellón Central appaiono appena, ma solo appena, offuscati per un pomeriggio straordinariamente assolato come questo. In una città caotica quale Buenos Aires si rivela subito al turista, è persino scontato pensare a un leggero ma persistente strato di polvere accumulatosi negli anni. Invece basta guardare più attentamente e anche dall’ingresso si capisce subito che sulla grande vetrata sono state riprodotte centinaia di fotografie in bianco e nero – lo sguardo fisso verso la camera, come in tante fototessere o sulle effigi mortuarie dei cimiteri, se non fosse che qui la maggior parte degli individui ritratti sono giovani e persino giovanissimi, nonostante i folti baffi a manubrio dei maschi, come negli anni Settanta andavano di moda tra i militanti politici di sinistra. Alcuni sono straordinariamente belli, come le loro compagne. Non pochi indossano la giacca e la cravatta. Soprattutto, sorridono in grande maggioranza: non sapendo che di lì a poco sarebbero scomparsi nella voragine della feroce dittatura militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1983, quando il generale Videla e la sua giunta si suicidarono politicamente nella disastrosa guerra delle Falkland.
È con queste fotografie che inizia la visita al museo della memoria ospitato nella sede dell’Escuela de Mecánica de la Armada (ESMA) di Buenos Aires, dove in pochi anni passarono circa 3.000 dei 30mila desaparecidos del Paese. L’Espacio Memoria y Derechos Humanos (questo il suo nome ufficiale) è stato costituito nel 2011, sotto la presidenza di Cristina Kirchner, ed è una grande vittoria della rinata Argentina democratica. Dopo la fine della dittatura, sotto la minaccia dell’esercito il parlamento approvò una serie di colpi di spugna che garantirono a quasi tutti i colpevoli la completa immunità e che ebbero il loro culmine nell’amnistia voluta dal presidente Carlos Menem nel 1990, e revocata solo al principio del nuovo secolo, negli anni della presidenza Kirchner (con il risultato che centinaia dei principali responsabili sono oggi condannati a pesanti pene detentive). Tra i progetti di Menem c’era anche la demolizione del principale luogo di detenzione illegale e tortura del Paese, appunto l’ESMA, per fare largo a un fantomatico Parco della Riconciliazione, in perfetta linea con la tesi dei golpisti, secondo i quali negli anni Settanta in Argentina si sarebbe combattuta, alla pari, una guerra civile tra una forza sovversiva e l’esercito. Solo l’intervento della magistratura impedì la realizzazione del suo disegno.
Che raccontare davvero la recente storia argentina sia operazione tutt’altro che semplice, lo si capisce studiando con cura i volti dei giovani desaparecidos. Nello stesso Padellón Central troneggiano un paio di totem con le fototessere dei torturatori, trafugate e salvate miracolosamente da uno dei prigionieri, Victor Basterra. Che volti diversi!, pensa inevitabilmente il visitatore. Qui nessuno è bello e nessuno sorride, questi funzionari imbolsiti e catafratti nelle loro uniformi sembrano l’incarnazione stessa della banalità del male. Ma poi si torna a osservare meglio, alternando il totem con la vetrata, avanti e indietro, e si comincia a scoprire più di un persecutore che potrebbe figurare senza problemi tra i perseguitati, soprattutto tra i meno giovani. Non c’è un tipo fisico del mostro: neanche qui. E se un archivista birichino si fosse divertito a scambiare alcuni dei negativi saremmo cascati tutti nel suo scherzo.
Viene da pensare che è per questo che all’Escuela si possono fare solo visite guidate. Senza qualcuno che ci illustri il percorso passo passo, nonostante l’abbondante infografica potremmo avere l’impressione di trovarci in una caserma come tante altre, con quella sua sobria eleganza di inizio secolo che a un italiano può far pensare al Policlinico Umberto I di Roma. L’orrore, qui, rimane infatti quasi sempre invisibile. E questa forse è la prima lezione dell’ESMA, che lo rende se possibile ancora più spaventoso dei campi di sterminio nazisti. Se cancellare le tracce è così scandalosamente facile, la violenza organizzata può annidarsi praticamente in ogni luogo.
Il momento più impressionante è senza dubbio la visita al terzo piano dell’ex Circolo Ufficiali, per vedere da vicino quel che rimane dei loculi nei quali erano reclusi i prigionieri e ad ascoltare i video con le testimonianze dei pochi sopravvissuti. Poi arriva il racconto delle prigioniere incinta fatte partorire, private dei figli appena nati, drogate con una iniezione di pentotal (che i carcerieri avevano ribattezzato con macabra ironia “pento-naval”) e lanciate dagli aerei dell’aviazione militare nell’oceano nel corso dei famigerati “voli della morte”. E si può leggere la lettera alla famiglia dell’unica madre prigioniera il cui figlio venne effettivamente consegnato ai nonni, dato che in tutti gli altri casi, i bambini erano affidati a famiglie di provata fede nazionalista. Anche se la storia è nota (da noi in Italia l’hanno raccontata bene Marco Bechis in Figli e Giovanni Greco ne L’ultima madre), diversi visitatori non trattengono le lacrime.
Eppure l’Espacio Memoria non è stato pensato tanto per commuovere, quanto per spiegare. Le didascalie, le proiezioni didattiche e le guide si esprimono tutte con la massima chiarezza: la detenzione illegale, la tortura e l’uccisione di decine di migliaia di argentini per le loro idee politiche non è stata una mostruosità inspiegabile ma il risultato di estese complicità, dentro e fuori l’esercito. L’Espacio Memoria smonta sistematicamente gli alibi dei colpevoli grandi e piccoli, e allo stesso tempo punta più in alto. Non sono solo i vertici dello Stato maggiore nel suo complesso ad aver voluto e realizzato gli orrori dell’ex Circolo Ufficiali (e di centinaia di strutture analoghe, in tutta l’Argentina); dietro alla guerra sucia (la “guerra sporca) si intravede un reticolo assai più ampio di responsabilità, per il quale il museo usa la formula “complesso economico-civile-militare”, ricordando il supporto attivo della WTO nei confronti della dittatura.
L’Espacio Memoria dice chiaramente chi sono stati i vincitori di allora e non esita ad accusare il nostro presente parlando esplicitamente di “disegno neo-liberale” e raccontando gli esperimenti dei Chicago boys sulle economie dei Paesi latino-americani negli anni in cui erano guidati da governi golpisti (Cile e Argentina in testa). Il terribile sottinteso del percorso nei padiglioni dell’ESMA è che, se oggi non ci sono torturatori e stupratori di Stato, ciò dipende solo dal fatto che non c’è più nessuno che metta seriamente in discussione l’ordine economico costituito. Di sporcarsi le mani, semplicemente, si è perso ogni bisogno.
Per come è stato pensato, il racconto dell’Espacio Memoria presenta però una grande lacuna. Racconta con grande chiarezza quale era il progetto di mondo per il quale ha lottato il “complesso economico-civile-militare” responsabile della “guerra sporca”; non dice niente, invece, dei sogni concretissimi dei militanti massacrati dalla giunta di Videla. Affinché oggi il maggior numero di persone si commuova per loro, rinuncia a presentarli per quello che erano – rivoluzionari, per quanto spesso non violenti – per rinchiuderli nel ruolo, molto più accettabile, di vittime, con i loro corpi sofferenti ma non con i loro cervelli pensanti.
Chi ha concepito l’Espacio Memoria sapeva che la nuova Argentina democratica aveva anzitutto bisogno di smascherare la versione dei golpisti (accreditata anche da Menem), secondo cui negli anni Settanta si sarebbero affrontati ad armi pari due estremismi altrettanto pericolosi ed eversivi, così che, se uno aveva pagato un prezzo tanto più alto, ciò non impediva che i due belligeranti potessero e dovessero essere messi sullo stesso piano. Ricordare chi era il carnefice e chi era la vittima è sicuramente un modo molto efficace di mostrare la falsità di quanti, ancora oggi, in Argentina preferirebbero equiparare le loro posizioni, ma finisce anche per ridurre alla condizione di martiri un’intera generazione di combattivi militanti politici. Erano buoni perché hanno tanto sofferto, come miti cristiani nella fossa dei leoni, o erano buoni perché le loro idee erano buone? Per quanto si possa immaginare che molti di coloro che hanno allestito l’Espacio Memoria risponderebbero positivamente anche alla seconda domanda, essa non viene mai formulata. La forza delle vittime risulta infatti direttamente proporzionale alla genericità dei loro tratti, come nelle enigmatiche e sorridenti fotografie del Padellón Central.
Il motto dell’Ente para la Promoción y Defensa de los Derechos Humanos ospitato nei locali di quello che fu l’ESMA è “Memoria, Verdad, Justicia”, e non c’è alcun dubbio che l’ex-Escuela adempia oggi perfettamente a questo triplice compito: anche quando ciò significa pronunciare delle accuse scomode. Quello che invece manca, e che forse mancherà ancora a lungo, è la Storia – vale a dire che qualcuno ci racconti chi erano davvero questi ventenni inghiottiti nel più grande centro di detenzione illegale del Paese, ma soprattutto quale era il futuro che è si è perso assieme a loro.

Il Sole Domenica 17.9.17
John R. Searle
Realtà delle cose e realtà umana
Il mondo fisico e quello mentale non sono opposti ma distribuiti su diversi livelli e sistemi

Da un punto di vista intellettuale il fatto sostanziale, riguardo l’era attuale, è che le conoscenze aumentano. Noi sappiamo molte più cose rispetto a ciò che sapevano i nostri bisnonni, e i nostri pronipoti sapranno cose che per noi oggi sono inconcepibili. Il grande aumento delle conoscenze ha prodotto un cambiamento enorme nello studio della filosofia. Nei secoli immediatamente successivi a Cartesio, i problemi centrali della filosofia erano epistemici, ossia avevano a che fare con la conoscenza e, in particolare, sembravano avere la pressante necessità di rispondere al problema dello scetticismo.
Infatti, nel XVII secolo le superstizioni erano ampiamente diffuse anche tra le persone istruite, ogni genere di superstizione – molte persone colte, per esempio, credevano nell’esistenza degli unicorni. Ma, nel bene e nel male, oggi abbiamo un vasto insieme di conoscenze ben consolidate e, senza ragionevole dubbio, una molteplicità di scetticismi. È molto difficile mandare gli uomini sulla luna e, per esempio, chiedersi, «Sappiamo se il mondo esterno esiste? Sappiamo se esistono davvero oggetti ed eventi oltre i nostri stati di coscienza?» Questo nostro cambiamento di posizione epistemica nei confronti del mondo però ha prodotto una seria difficoltà intellettuale: il concetto di realtà che gran parte di noi accetta deriva dalle cosiddette «scienze naturali», in particolare dalla chimica, dalla fisica e dalla biologia evolutiva.
Tuttavia, il concetto di realtà che è derivato dalla cosiddetta «visione del mondo scientifica»sembra in disaccordo con una grandissima quantità di altre cose in cui crediamo. Secondo la concezione scientifica di realtà il mondo consiste interamente di entità che per convenienza chiamiamo particelle – particelle fisiche in campi di forza – e questo è quanto, non esiste nient’altro nell’universo.
Queste particelle fisiche sono entità prive di mente e di significato e non è affatto chiaro come una tale concezione della realtà, che io chiamo «la realtà basilare», possa integrarsi con la concezione che noi abbiamo di noi stessi. Se il mondo consiste di particelle fisiche prive di mente e di significato, come si riconcilia quel fatto con il fatto che noi ci consideriamo razionali, dotati di coscienza e di intenzionalità, capaci di espressioni artistiche e creative, capaci di comportamenti morali e immorali e impegnati in ogni sorta di realtà politica?
Chiamiamo pure questa concezione «la realtà umana»”, e noi chiamiamoci agenti razionali, liberi e consapevoli. La questione che io considero centrale nella filosofia contemporanea è: come fare a riconciliare questa idea che abbiamo di noi stessi con la conoscenza del mondo che ci arriva dalla fisica, dalla chimica e dalle altre scienze naturali? Per usare un metodo stenografico, dico che il problema è quello di riconciliare la realtà basilare, la realtà descritta dalla fisica e dalla chimica, con la realtà umana, la realtà di noi uomini in quanto agenti coscienti, razionali, politici, morali, dotati di libero arbitrio e di linguaggio.
Attenzione però, non basta fare in modo che queste due realtà risultino coerenti – il che è piuttosto facile: è sufficiente postulare due realtà diverse: la realtà cosciente e la realtà incosciente, cioè la soluzione dualista o Cartesiana. Questa è una soluzione insoddisfacente. Noi dobbiamo mostrare che la realtà umana è una naturale conseguenza, un risultato naturale e in qualche modo inevitabile della realtà fisica o basilare. Una volta che hai gli elettroni, alla fine devi per forza avere le elezioni; se hai i protoni, alla fine devi ottenere i presidenti. È questo che dobbiamo mostrare. Non solo che la realtà umana è coerente con la realtà basilare, ma che ne è il risultato naturale, una sua conseguenza naturale.
Potrebbe sembrare che per risolvere questo insieme di problemi basti mettersi al lavoro, che siano necessarie solo maggiori conoscenze scientifiche, per esempio su come funziona il cervello, e una maggiore analisi filosofica della reale struttura della realtà umana. La difficoltà è che dobbiamo confrontarci con tradizioni filosofiche molto potenti, che fanno apparire le soluzioni ai problemi dettate dal buonsenso molto più difficili di quanto non siano.
Credo che alla fine quella che io chiamo la soluzione del buonsenso sia giusta, dovremmo riuscire a capire meglio come funziona il mondo e come esso si relaziona al funzionamento del nostro cervello e al funzionamento della nostra mente, ma ci sono almeno due tradizioni filosofiche che ci ostacolano.
La prima tradizione, in termini generali, è la tradizione religiosa, la quale dice che il tratto fondamentale della realtà umana è che ciascuno di noi è un’anima immortale. La realtà umana è la realtà più basilare perché contiene Dio, l’anima e l’immortalità, ed è impensabile riconciliare Dio, l’anima e l’immortalità con la concezione scientifica, perché alla base sono totalmente incompatibili. Bisogna postulare una sorta di dualismo per potere consentire tutti i fatti. È vero che c’è un mondo di particelle fisiche, ma quel mondo non è quello fondamentale, il mondo fondamentale è il mondo di Dio, dell’anima e dell’immortalità, e non è un mondo fisico, non contiene affatto proprietà fisiche, contiene anime libere e immortali, le quali sono tutte create da Dio ed esistono per sempre, sulla terra o in un aldilà. Non ho molto da dire su questa tradizione, perché ritengo che sia totalmente screditata. Vorrei tanto fosse vera, ma non lo è, quindi la ignorerò, sempre che non torni fuori nella discussione, naturalmente.
C’è un’altra tradizione che pretende di opporsi a questa, ma commette un errore peggiore della tradizione di Dio, dell’anima e dell’immortalità, ed è la tradizione del materialismo scientifico. Il materialismo scientifico dice che c’è una soluzione semplicissima al problema che ho descritto, ed è che la realtà umana non esiste. Noi abbiamo l’illusione di avere una coscienza e di avere tutti questi altri fenomeni, in realtà c’è solo il mondo delle particelle fisiche prive di mente e di significato e tutto ciò che esiste realmente deve essere riconducibile a quello. Verrebbe da pensare che nessuno possa credere a una cosa talmente ridicola, ma vi assicuro che è una opinione diffusa nei dipartimenti di filosofia degli Stati Uniti e più avanti avrò delle cose negative da dire a riguardo.
Quindi, abbiamo queste due tradizioni che ci rendono difficile rispondere alle domande che ho posto e devo dire due parole su ciascuna di loro. Una è la tradizione di Dio, dell’anima e dell’immortalità, la tradizione del dualismo religioso, e la seconda tradizione è quella del materialismo scientifico. Nella cultura in cui vivo, il materialismo scientifico è una minaccia molto più grande della tradizione religiosa, quindi gli dedicherò più tempo.
Il problema della tradizione religiosa è che postula l’esistenza di una serie di entità che quasi certamente non esistono. Sarebbe bello se esistessero, ma per quando ne so, non siamo vegliati da un essere divino e non consistiamo di anime immortali. Consistiamo di corpi umani fin troppo mortali e fragili e racchiuso nel corpo umano c’è il cervello umano, e questo cervello umano è la fonte della coscienza e di quasi tutte le altre caratteristiche che ho descritto come caratteristiche della realtà umana.
Il problema del materialismo scientifico così come l’ho definito è che nega i fatti ovvi. Nega il fatto che abbiamo una coscienza e che essa sia irriducibile a qualcos’altro, a un qualche fenomeno oggettivo o a un fenomeno terzo. Ma com’è possibile? Ebbene, è un semplice dato di fatto che in questo momento io sia consapevole di pensare a questioni filosofiche. Non potrebbe però trattarsi di un’illusione? Dopotutto, la scienza ci ha insegnato che molte convinzioni di buonsenso, come per esempio credere nella solidità di un tavolo, sono illusioni. Si possono spiegare utilizzando una concezione più fondamentale della realtà. Una concezione più fondamentale della realtà non mostrerebbe che allo stesso modo anche la coscienza è un’illusione?
L’analogia non funziona. L’idea è che dovremmo credere, proprio come abbiamo mostrato, che il colore e la solidità siano illusioni, che i tramonti siano illusioni, che lo siano gli arcobaleni, e così potremo dimostrare che la coscienza è un’illusione. Perché non possiamo farlo? La risposta credo sia molto semplice: la distinzione tra l’illusione e la realtà è una distinzione tra come le cose ci sembrano consapevolmente – sembra che ci sia un arco in cielo, sembra che il sole tramonti dietro il monte Tamalpais ¬– e come sono realmente. Non c’è nessun arco reale in cielo e il sole non tramonta dietro il monte Tamalpais. Noi sostituiamo l’illusione consapevole con una considerazione scientifica più basilare, che preserva la spiegazione dell’illusione. Possiamo mostrare come avviene l’illusione. Ora, perché non possiamo farlo con la coscienza?
La risposta è piuttosto semplice: quando si parla dell’esistenza stessa della coscienza, non possiamo fare la distinzione illusione contro realtà, perché se hai consapevolmente l’illusione di essere cosciente significa che sei cosciente. Puoi sbagliarti sulle varie caratteristiche della coscienza ¬– pensavi di essere innamorato e invece era soltanto uno stato mentale, a quanto pare avevi bevuto troppo – ma nel caso dell’esistenza stessa della coscienza, non puoi fare una distinzione tra illusione e realtà, perché l’illusione cosciente della coscienza è la coscienza.
Per ripetere il concetto: se sei cosciente di avere l’illusione di essere cosciente, allora sei cosciente. La distinzione tra realtà e illusione è la distinzione tra apparenze coscienti e realtà sottostanti, ma quando si tratta dell’esperienza cosciente stessa, quella è la realtà sottostante – non puoi fare la distinzione illusione contro realtà per l’esistenza stessa della coscienza.
Traduzione di Laura Pagliara
La Lectio Magistralis di John R. Searle si è tenuta ieri a Pordenone a Palazzo Montereale Mantica nell’ambito di Pordenonelegge. L’ultimo libro di Searle è «Vedere le cose come sono», edito da Cortina

Il Sole Domenica 17.9.17
Attualità di Giulio Preti (1911 – 1972) / 1
La buona logica dell’umanesimo
A quasi 50 anni, «Retorica e logica» resta il testo più chiaro per superare la falsa dicotomia tra le «due culture»
di Alessandro Pagnini

Nel 2018 Retorica e logica di Giulio Preti compirà cinquant’anni. Quel pamphlet, a lungo dimenticato, resta per me uno dei capisaldi della filosofia italiana del secondo dopoguerra, e mi fa piacere constatare, dai riferimenti di giovani studiosi come Redaelli e Colanero, che non solo si faccia rileggere oggi per il ritorno in auge, sia pure in termini in parte nuovi, della polemica sulle «due culture», ma perché gli esiti teorici cui allora approdava Preti sembrano costituire l’indispensabile «punto di partenza» per trattarne.
Per Preti non aveva senso parlare alla Snow di scienziati e di letterati come di due gruppi «antropologici» affetti l’uno da progressismo e ottimismo, l’altro da individualismo, conservatorismo, nonché da una sorta di compulsione a farsi carico della tragicità della «condizione umana» due gruppi di «intellettuali» caratterialmente antitetici e non comunicanti. Come aveva poco senso parlare di lettere e scienze in quanto insiemi di discipline, di materie di studio, caratterizzate da oggetti specifici, da linguaggi incomunicabili, da metodi di ricerca non mutuabili.
Per Preti, consapevole dell’artificiosità e della storicità di ogni contrapposizione del genere, era questione, invece, di «costruire» una coppia oppositiva che fosse euristicamente in grado di dar conto della complessità e al tempo stesso dell’unità della nostra cultura. Quella contrapposizione vedeva l’una di fronte all’altra le humanae litterae e la scienza come formae mentis, e cioè come atteggiamenti e disposizioni mentali che configurano allo stesso tempo due diverse forme dello spirito oggettivo, con due diverse scale di valori, due diverse nozioni di verità, due diverse strutture del discorso, che non negano o «eliminano», bensì soltanto gerarchizzano. Certo, l’esistenza di queste due forme è un’esistenza storica (e Preti, in Retorica e logica, ne traccia anche una genealogia), e la loro consistenza non è quella di essenze o di idealità platoniche, bensì quella di schemi eidetici, di astrazioni ricavate dalla sostanza comune della civiltà occidentale che si offrano come categorie idonee a una analisi fenomenologica, trascendentale, della cultura. E un’ultima raccomandazione accompagnava la proposta di Preti: il tipo di analisi che serve all’oggettivazione di quella coppia oppositiva deve essere “scientifico” nel senso di voler essere wertfrei, il meno possibile contaminato da ideologie, inclinazioni soggettive, riferimenti a tradizioni e a visioni contingenti. Un po’ come la contrapposizione che negli stessi anni elaborava il filosofo americano Wilfrid Sellars tra «immagine scientifica» e «immagine manifesta» della realtà (non sovrapponibile a quella tra lettere e scienza, ma analoga nel modo di essere costruita), «due concezioni, ugualmente pubbliche, ugualmente non-arbitrarie, dell’uomo-nel-mondo» che Sellars invitava a capire come stessero insieme «in una visione stereoscopica».
Si è detto che Redaelli e Colanero riprendono il discorso sulle due culture a partire da Preti. Ma loro stessi riconoscono di limitarsi a un lavoro più empirico e classificatorio relativamente al rapporto che alcuni scrittori del Novecento intrattengono con la scienza e a una esemplificazione delle modalità di superamento, per loro auspicabile, della dicotomia lettere-scienza, che non a una riconsiderazione teorico-critica della dicotomia stessa. Ne risulta uno spaccato significativo della cultura italiana dagli anni cinquanta del secolo scorso ad oggi, sulla falsariga dei lavori esemplari sulle «due culture» in Italia di Pierpaolo Antonello e di Massimo Bucciantini (inspiegabilmente neppure citato), e ne risultano approfondimenti interessanti soprattutto degli atteggiamenti nei confronti della scienza di Calvino, Primo Levi, Rodari, Sinisgalli e Gadda.
Diverso e più ambizioso è il lavoro degli autori di Humanities e altre scienze (titolo che insinua provocatoriamente che le Humanities siano e debbano essere scienze), che si interrogano su come esigenze palesi di comunicazione tra le varie conoscenze specialistiche (i bandi europei di finanziamento alla ricerca, per esempio, danno in genere per presupposta una interdisciplinarità che nell’attuale assetto universitario italiano, diviso in rigidi settori scientifico-disciplinari, non è neppure contemplata) possano dar luogo a una concreta transdisciplinarità. Non vi è dubbio che oggi problemi che riguardano la crisi ambientale, la conservazione e la trasformazione dell’habitat umano, le diseguaglianze sociali ed economiche, la distribuzione dell’energia, il cosiddetto sviluppo sostenibile, la «salute», lo studio della coscienza e del mente/corpo, non ammettono più una contrapposizione e una lotta egemonica tra cultura umanistica e cultura scientifica. Mentre invece richiedono anche una riflessione metadisciplinare da parte di ogni specialista al fine di conseguire strutture cognitive comuni e comunicanti con altri portatori di conoscenza che consentano concretamente al ricercatore di far parte di una comunità del sapere allargata e interattiva.
La «filosofia» che ispira il libro curato da Monica Cini è quella di Edgar Morin (ma anche i riferimenti a Luciano Gallino sono centrali), il modello pratico è quello delle scienze cognitive, sul quale stanno crescendo e stanno dando risultati rilevanti campi nuovi come quelli delle Medical Humanities, delle Health Humanities (molto interessanti i capitoli dedicati a teatro e medicina e a economia e «felicità»), delle Cognitive Humanities, delle Environmental Humanities, delle Digital Humanities (che stanno profondamente cambiando l’impostazione degli studi in archeologia, musicologia, filologia e anche nella «critica letteraria»).
Ma non si pensi che queste siano nuove discipline da aggiungere ai curricula tradizionali come ulteriori specializzazioni, come materie nuove per «ignoranti istruiti», come li chiamava Ortega. La vera sfida sta nel perseguire una conoscenza come «sapere» e non come «informazione», e nello sperimentare ibridazioni, mutuazioni di metodi, cooperazione tra ricercatori di ambiti diversi, assunzioni di responsabilità collettiva nel momento in cui la soluzione di problemi e l’avanzamento della conoscenza richiede una radicale messa in questione dei quadri di riferimento tradizionali.
Preti oggi commenterebbe che siamo sulla strada per l’avvento di un’èra «scientifica», non nel senso riduzionista positivista, ma proprio perché è la forma mentis della scienza moderna l’unica in grado di autotrascendersi, di mettere in discussione le proprie premesse sostantive sulla base di un apriori formale che vale in ogni ambito e relativamente a ogni oggetto. E direbbe che non c’è neppure bisogno di attendere la formalizzazione di una teoria della complessità, come sembrano auspicare gli autori del libro curato da Cini, per realizzare la visione olistica auspicata.
Basta una mentalità scientifica, quella stessa che faceva del grande economista Keynes un «ermafrodita mentale» (nella magistrale definizione di Leopold Woolf), per essere innovativi anche senza aver prima codificato un novum organum o una “nuova” teoria della conoscenza.
Le due culture. Due approcci oltre la dicotomia , Aracne, Roma, pagg. 166, € 12
Monica Cini (a cura di), Humanities
e altre scienze . Superare la disciplinarità , Carocci, Roma,
pagg. 127, € 14
Stefano Redaelli e Klaus Colanero

Il Sole Domenica 17.9.17
Populismi
La «droite» e il culto del capo
La longevità della destra francese analizzata da Marco Gervasoni che ne sottolinea i tratti distintivi rispetto agli altri Paesi europei
di Emilio Gentile

Nelle ultime elezioni presidenziali francesi, l’eventualità dell’elezione di una donna di estrema destra alla presidenza della Quinta Repubblica non è avvenuta. La candidata del Front National Marine Le Pen ha subito una sconfitta schiacciante dall’inatteso successo di Emmanuel Macron, che ha vinto con il 66 per cento dei voti, contro il 34 per cento della sua antagonista. Ma è molto significativo il fatto che, al primo turno solo, tre punti percentuali (21 per cento alla Le Pen, 24 per cento a Macron), avevano distanziato i due candidati. E ancor più significativo è l’aumento dei voti alla candidata del Front National nel secondo turno, con oltre dieci milioni di voti.
Quanti, fra questi milioni di elettori, specialmente quelli appartenenti ai ceti popolari, conoscevano l’abate Augustin Barruel e Louis de Bonald, Édouard Drumont e Lucien Rebatet, il generale Georges Boulanger e il colonnello François de La Rocque? Erano protagonisti dell’estrema destra francese nella sua lunga storia, iniziata nel 1789 con la lotta dei reazionari contro i rivoluzionari, che diede origine alla secolare «guerre franco-française», come è stata chiamata dagli stessi francesi, scandita da episodi violenti, come l’Affare Dreyfus alla fine dell’Ottocento, e da momenti di guerra civile, come avvenne nella Seconda guerra mondiale fra la Francia libera del generale De Gaulle, schierata con gli Alleati, e la Francia reazionaria del generale Petain, collaboratrice della Germania nazista.
Eppure, se non saranno stati molti a conoscere i personaggi citati fra gli elettori di Marine Le Pen, il suo partito appartiene a «una tradizione politica che in alcun Paese europeo mostra una longevità così evidente come in Francia». È quanto sostiene Marco Gervasoni, uno fra i migliori storici italiani della Francia contemporanea, in un recente libro, pubblicato un mese prima delle elezioni presidenziali francesi del 2017. Anche se nell’introduzione Gervasoni cautamente ricordava come «gli storici sbaglino meno allorché raccontano il passato rispetto a quando cercano di predire il futuro», nella conclusione, tuttavia, accennava alla possibilità di una smentita delle rilevazioni demoscopiche, che davano perdente al secondo turno la candidata del Front National, osservando che «quasi sempre la storia della Quinta Repubblica francese ha riservato inedite sorprese».
La sconfitta della Le Pen non sminuisce l’importanza del suo partito nazionalista, fondato nel 1972 dal padre, Jean-Marie, adottando come simbolo una fiamma tricolore, direttamente ispirato al simbolo del Movimento sociale italiano. È uno dei più forti movimenti di estrema destra nell’Europa contemporanea; per giunta, nato e cresciuto nella stessa nazione madre della moderna democrazia europea, travagliata oggi da una crisi che, sia pur col metodo democratico, potrebbe trasformarla radicalmente sotto l’impeto di nuove ondate di nazionalismo antidemocratico.
Che ciò avvenga nella madre della democrazia europea, non è tuttavia un evento straordinario e imprevedibile. In Francia, infatti, la tradizione dell’ “extrême droite”, la sua stessa denominazione, risale al 1789, per svolgersi nel corso dei successivi due secoli attraverso variegati movimenti culturali, ideologici e politici, fino all’attuale Front National.
Se in tutti i Paesi europei è possibile rilevare storicamente una linea di continuità nella tradizione dei movimenti di estrema destra, è però vero, come afferma Gervasoni, che nessun altro Paese europeo «può disporre di una continuità così evidente come quella messa in mostra nel caso francese».
Nel corso della sua lunga storia, la tradizione dell’estrema destra francese si è ampliata con nuovi movimenti, sorti nelle situazioni di crisi delle repubbliche, che si sono avvicendate in Francia. Gli storici, soprattutto francesi, discutono animatamente sulla peculiare natura di ciascuno di questi movimenti e sulla validità storica della loro associazione nella categoria generica di “extrême droite”, o nella categoria, cronologicamente circoscritta fra le due guerre mondiali, di un fascismo alla francese, che, secondo qualche storico, avrebbe addirittura preceduto geneticamente il fascismo italiano; oppure nella genericissima categoria, oggi in voga, del “populismo”, che giustamente suscita nello storico italiano molte perplessità sulla sua validità analitica, essendo ormai diventata un “passe-partout”.
Senza lasciarsi invischiare in diatribe teoriche che spesso si svolgono al di sopra della storia con mere disquisizioni verbali, Gervasoni ripercorre sinteticamente la storia della “Francia nera” soffermando l’attenzione sui momenti più importanti, cercando di mettere in rilievo sia le concordanze che le dissonanze fra i vari movimenti considerati più rappresentativi dell’estrema destra. Dalla sua narrazione, emerge il filo conduttore che lega, nel corso di due secoli, i vari movimenti dell’estrema destra francese nella individuazione del nemico: la libertà individuale, l’eguaglianza, l’umanitarismo, la rappresentanza parlamentare, ai quali si sono poi aggiunti il socialismo, il comunismo, l’internazionalismo, la plutocrazia capitalista, spesso condensati nel mito antisemita dell’ebraismo come il peggior nemico interno della nazione francese. Alla schiera dei nemici, l’estrema destra attuale iscrive l’europeismo, la globalizzazione, il libero mercato, la migrazione di genti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente.
E però altrettanto importante osservare come, specialmente dalla fine dell’Ottocento in poi, l’ estrema destra francese si sia appropriata di taluni elementi dei suoi nemici, considerati geneticamente di sinistra, come il mito della nazione sovrana, divenuto caposaldo permanente della “Francia nera”; il suffragio universale, usato come strumento antiparlamentare di una democrazia plebiscitaria; e la stessa idea di rivoluzione, come azione volontaria per cambiare con la violenza l’ordine esistente. Ma due sono, secondo Gervasoni, gli elementi costanti nella lunga e varia tradizione dell’estrema destra francese: il cesarismo e il culto del capo. Se così è, si può allora constatare come, nell’Europa contemporanea, sia la sinistra a far propri, nelle sue attuali versioni pragmatiche, il cesarismo e il culto del capo. Come già aveva fatto la sinistra rivoluzionaria all’epoca dei fascismi.
Marco Gervasoni, La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen , Marsilio, Venezia, pagg. 318, € 17,50

Il Sole Domenica 17.9.17
Diario borghese
Ernst Jünger in crociera
Nel 1936 si imbarca su un piroscafo diretto in Brasile. Un viaggio insolito per un amante del pericolo
di Ambrogio Borsani

Quando si imbarcò per il Brasile, nel 1936, Ernst Jünger si portava già addosso quattordici ferite e quattro onorificenze militari ottenute nella Legione Straniera e sui fronti della Prima Guerra Mondiale. Aveva pubblicato sette libri con notevole risalto. L’ultimo, Ludi Africani, era uscito in coincidenza con il viaggio in Brasile. In Traversata atlantica Jünger scrive: «Ho cercato di leggere il mio nuovo libro […] ma poi l’ho gettato fuori bordo. È affondato nella schiuma cristallina senza lasciare traccia. Da dove verrà mai questa ripugnanza non appena il lavoro è concluso?».
Il piroscafo Monte Rosa era partito il 20 ottobre dal porto di Amburgo. Strano viaggio per uno come Jünger, più portato a una vita spericolata che a una crociera borghese. Fin da ragazzo aveva provato un sincero orrore per la noia delle abitudini, per gli angusti confini della nascita. Forse nel 1936, a 18 anni di distanza dagli spaventi adrenalinici del fronte, persino una crociera borghese poteva sembrargli una modica quantità di alterazione della vita domestica. Quale era la sua quotidianità in quel periodo? Oramai scrittore affermato, lasciava a casa due figli piccoli, l’ultimo di appena due anni, e la moglie, alla quale aveva affidato il compito, in sua assenza, di organizzare il loro trasloco a Costanza.
Viene da chiedersi come potesse porsi di fronte a un viaggio organizzato l’uomo che aveva scritto Tempeste d’acciaio, uno dei libri più sconvolgenti sulla Grande Guerra. Dalle descrizioni di notti allucinate dove le granate gli sparavano in faccia i brandelli di carne del suo compagno di trincea, non era facile passare alle giornate tranquille di una nave da crociera dove le compagne di viaggio, signore divorziate, gli sbattevano in faccia voglie di avventura.
Ma Jünger è scrittore di molti registri. E alcune tra le sue pagine migliori sono proprio nei diari, dove riesce a variare le intensità, i livelli dei linguaggi, a gestire i contrasti, a modulare le grida e i sospiri. Lo fa per esempio in Giardini e strade. Il libro inizia con un’atmosfera idilliaca, semina delle barbabietole e dei ravanelli, sarchiatura delle patate, contemplazione dei coleotteri... tutto fino a quando arriva la cartolina di arruolamento per la Seconda Guerra Mondiale. «I fiori e i frutti oramai fioriscono e maturano senza di noi», si limita ad annotare partendo per il fronte, dove il linguaggio si incamminerà per altre strade.
Traversata atlantica è apparentemente un normale diario di viaggio. Ma è evidente la progettualità, l’intenzione di ricavarne un libro. Lo si deduce anche dalle lettere al fratello Friedrich, giustamente incluse in questa edizione, usate come appunti per l’opera. Emerge nel viaggio in Brasile la visione contraddittoria di Jünger, che rimanda alla realtà contraddittoria del mondo. Civiltà-natura, ordine-libertà, lotta-riflessione. In Brasile rileva i tre strati della società: il mondo naturale dei tropici, il sedimento del colonialismo e le formazioni della civiltà.
La nave ferma in diversi porti, Recife, Santos, Rio, Bahia, ma lui, sbarcando, non segue i percorsi turistici dei suoi compagni di viaggio. Gira in modo autonomo. Osserva la vita, le case coloniali con una certa nostalgia, scopre i «negri» con occhi nuovi, «come per le piante che si osservino nel luogo in cui prosperano»
Si immerge nelle profondità del normale a cercare l’anima nascosta delle cose. «In ogni viaggio deve essere compreso un pellegrinaggio in senso antico», scrive in San Pietro, recentemente pubblicato da Lupetti. «Altrimenti di esso non rimane altro che un cumulo di immagini con cui il viandante ricolma il proprio intimo come un album di cartoline illustrate».
Quando la nave fa scalo a Santos subito riemerge l’altra anima di Jünger, la sua ossessione per la natura, quasi rousseauiana. Si immerge nella foresta verso cui sente «una forza di attrazione narcotica». La sua passione per i coleotteri è seconda solo a quella per la scrittura. Segue col fiato sospeso le farfalle e rimane incantato davanti a una maranta gigante. E il suo entusiasmo si accende di fronte agli adorati coleotteri. Va in estasi quando si imbatte in un Trachyderes succinctus, «Mi ricordo ancora di quando da ragazzo acquistai un esemplare simile da un commerciante della Breiterstrasse a Hannover – era il primo pezzo esotico delle mie collezioni. Quante volte da allora ho provato il desiderio di osservarlo “sulle piste selvagge e libere”. Adesso è accaduto e, in segno di gratitudine, gli regalo la libertà».
È così preso da queste sue passioni che tralascia altri percorsi più battuti. Dopo lo scalo a Rio, parlando con un giornalista scrive: «Ho scoperto di essermi perso la vista del Mangue, un quartiere dove dimorano migliaia di cortigiane di ogni etnia, razza e colore, e in cui ogni notte viene accoltellato un marinaio».
I coleotteri esercitavano una forza magnetica su di lui. Anche nello scalo che il Monte Rosa fa a Casablanca, sulla via del ritorno, Jünger visita i mercati straripanti di vita e le piazze con i saltimbanchi, ma alla fine si allontana dalla città e va alla ricerca di un Carabus richteri, uno scarafaggio che ha la fortuna di trovare sotto una delle prime pietre che smuove. Avrebbe ottenuto anche notevoli soddisfazioni come entomologo, due coleotteri oggi portano il suo nome: il Carabus Saphyrinus Juengeri e la Cicindela Juengeri Juengerorum.
Questa edizione, ha molti pregi, la traduzione di Alessandra Iadicicco, e soprattutto la cura di Detlev Schöttker, che ha incluso, oltre alle lettere del fratello, anche le reazioni dei lettori e un suo importante saggio sull’esperienza di viaggio in Jünger.
Traversata atlantica è anche la dimostrazione che si possono utilizzare i canali del turismo di massa come mezzi di trasporto, poi salutare ad ogni porto o aeroporto i compagni di viaggio e tracciare le proprie strade secondo la profondità degli interessi personali. Avendone. Il Trattato del ribelle, si può applicare anche in mezzo alle masse.
Ernst Jünger, Traversata atlantica ,
a cura e con una postfazione di Detlev Schöttker, traduzione di Alessandra Iadicicco, Guanda, Milano, pagg. 232, € 22

il manifesto 17.9.17
Il Divino fortificato
A Firenze, Casa Buonarroti, "Michelangelo e l'assedio di Firenze". Baluardi, bastioni, muraglie contro gli Asburgo: i disegni «bellici» di Michelangelo alla base della mostra curata da Alessandro Cecchi
di Tommaso Mozzati

FIRENZE La Casa Buonarroti di Firenze ha da poco cambiato direttore. Per questo – dopo la stagione brillante coordinata da Pina Ragionieri, ora presidente, cui si devono capitoli di rilievo nella recente storia culturale cittadina a partire da Il giardino di San Marco del 1992 per arrivare al Michelangelo nell’Ottocento del ’94 o all’appuntamento con Cecco Bravo, pittore barocco, 1999 – spetta ad Alessandro Cecchi, già alla guida della Galleria Palatina a Pitti, il compito di tenere vivo il calendario di un’istituzione tanto illustre (il palazzo su via Ghibellina ospita le raccolte della famiglia Buonarroti, in quella che fu la residenza signorile dell’artista) quanto coesistente, in termini di programmazione, con altre sedi celebri, dagli Uffizi all’Accademia passando per il Bargello.
Perciò, al banco di prova della mostra promossa nel quadro rinnovato della Fondazione che regge il museo, appare ben scelto il tema dell’appuntamento in cartellone fino al 2 ottobre: un’indagine sui rapporti di Michelangelo con la Seconda Repubblica fiorentina, quella sorta in opposizione al dominio dei Medici negli anni estremi delle Guerre d’Italia, quando il papa Clemente VII, un discendente della famiglia, si trovò a tal punto stretto nella tenaglia degli interessi sullo Stivale – francesi, spagnoli, senza contare le ingerenze dell’Inghilterra di Enrico VIII – da subire per la prima volta nell’era cristiana di Roma un sacco da parte delle truppe lanzichenecche dell’Imperatore Carlo V, barbaramente avviatosi il 6 maggio 1527.
Da quel momento la popolazione di Firenze poté nutrire il sogno politico di tornare a una pristina libertà, un’illusione durata appena tre anni con in mente il modello della non lontana esperienza «democratica» ispirata al suo nascere dalle prediche visionarie di Savonarola e sostenuta fino a circa il 1512 dal governo di Pier Soderini; e nel corso di una simile, breve avventura, accesa fra le difficoltà di un drammatico frangente, la figura del Buonarroti si ritagliò un ruolo peculiare, creatosi – in mezzo a paure e incertezze – ingegnere delle difese militari.
L’argomento del percorso si dimostra stringente non solo perché Cecchi, che cura la mostra, sta per pubblicare il proprio informatissimo resoconto di quel naufragio, finito con un assedio da parte delle truppe asburgiche che dai tempi del drammatico Marietta de’ Ricci di Agostino Ademollo (romanzo storico del 1840) attende un résumé documentato e affidabile in grado di delinearne moventi, sviluppi e passioni. È anche il patrimonio conservato a Casa Buonarroti a legittimare l’operazione oggi proposta nelle sale. L’imponente corpus di disegni che è il tesoro di quel museo, composto da autografi di mano dello scultore (accanto alla ricca corrispondenza diretta e indiretta), include infatti i venti fogli in cui compaiono studi per baluardi, bastioni e muraglie che sono stati ricondotti all’attività di governatore generale delle fortificazioni svolta da Michelangelo durante un’emergenza siffatta a partire dal 6 aprile 1529 (purtroppo – certo per ragioni conservative – ne è esposta solo un’accorta selezione, insieme ad alcuni documenti originali relativi alla medesima vicenda).
Risulta dunque opportuno per il senso stesso dell’iniziativa – e pure nella differenza delle posizioni espresse dalla letteratura critica su quei lavori impressionanti, prossimi a carapaci compatti o a scivolose lame di coltello, propensi a soluzioni aguzze contro i colpi impattanti dell’artiglieria – che il catalogo verifichi nel saggio di Mauro Mussolin le posizioni favorevoli a scaglionare su una cronologia più ampia i pensieri michelangioleschi per belliche apparecchiature, mettendo in luce come l’artista avesse teso prima del 1527 a presentarsi nella veste di architetto militare, con l’offrirsi allo stesso pontefice – arcinemico della libertà fiorentina – quale provetto consigliere di strategie difensive.
Una simile specifica sfata il sentimento apocalittico di frattura cronologica che da sempre si lega all’esperienza della Seconda Repubblica; aiuta a capire in che modo quel cantiere – anche in continuità con quanto già compiuto – si prestasse a ritracciare una geografia urbana e un intero immaginario cittadino, consegnando un piano progettuale al ricostituito potere mediceo sotto la conduzione di Alessandro e poi di Cosimo. Nelle settimane della morsa imperiale si crea insomma la nuova Firenze, quella che non a caso vedrà sorgere l’imponente Fortezza da Basso sull’antica Porta Faenza; ugualmente il linguaggio delle arti, della cultura indigene (ancora splendenti di un’allure da koiné universale) si declina in nuove forme nel corso di quei mesi, come icasticamente testimoniato in mostra – pur nell’inevitabile assenza di qualche prestito eloquente (ad esempio la trasferta, potenzialmente costosissima, del Ritratto di giovane del Pontormo dal Getty Museum) – dai Diecimila Martiri dello stesso pittore, una meditazione drammatica sul lessico di Michelangelo temperata dalla conoscenza di Dürer e preceduta negli spazi del museo dalle opere del suo maestro, l’Andrea del Sarto dell’effusa, fosca Madonna col Bambino e San Giovannino eseguita sul ’30.
Non a caso la colta cura che il progetto riserva alla produzione libraria animata in quegli anni dalla stamperia dei Giunti (è assai meditato il saggio di Antonio Corsaro sul tema) viene rinviata continuamente in catalogo al ricordo dell’impresa imposta a un intellettuale come Benedetto Varchi proprio da Cosimo I de’ Medici, e cioè il racconto dell’assedio confluito nell’avvincente Storia fiorentina: una memoria evidentemente considerata dal Duca di Firenze – negli anni quaranta, quando la sua posizione si era consolidata – fra i veri fondamenti del proprio dominio incontrastato.