il manifesto 13.9.17
Senza Ius soli democrazia più povera
di Luigi Manconi
Solo
un ottimismo irresponsabilmente giulivo e una buona volontà tanto ilare
da farsi velleitarismo, possono indurre, ancora, a ritenere che la
legge sullo ius soli venga approvata in questa legislatura. Nella più
favorevole delle ipotesi, l’aula del Senato potrebbe esaminare quel
testo nelle prime settimane di ottobre: ma – come ha appena detto
Emanuele Fiano, capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali –
non ci sono i numeri. Il che, nella sfera politica e nel dibattito
pubblico, vuol dire una cosa semplice, variamente argomentabile ma
dall’esito univoco: siamo minoranza e non siamo stati capaci di ottenere
un maggior numero di consensi.
Sia chiaro: oggi il tema è a dir
poco incandescente. Ma, se ad appiccare il fuoco e ad attizzarlo è la
destra, sarebbe finalmente ora che la sinistra si domandasse seriamente
perché tutto ciò sia accaduto; e se, quindi, un atteggiamento corrivo,
spesso tronfio nelle declamazioni ma inerte nei programmi e nelle
politiche, non abbia favorito – o non adeguatamente contrastato – lo
spostamento di una parte dell’opinione pubblica su posizioni di ostilità
verso la riforma della cittadinanza.
In altre parole, è
plausibile che la sinistra si sia affidata troppo alla retorica di
categorie come solidarietà e fraternità: e abbia utilizzato troppo poco
strumenti propri dell’economia e della demografia.
Ovvero, i soli
che possono consentire una gestione intelligente dei flussi migratori,
sostenuta da progetti di accoglienza capaci di garantire la convivenza
pacifica tra residenti e nuovi arrivati; e un’integrazione lungimirante
che sappia tutelare, allo stesso tempo, la sicurezza delle popolazioni
locali più vulnerabili e quella di migranti e profughi, esuli e
fuggiaschi, tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia.
Un’impresa
enorme, dall’esito tutt’altro che scontato e che comporterà fatiche e
sofferenze. Ma che – ecco il punto – non ha alternative.
Questo è
il vero terreno politico, ed è stato disertato da anni. Si pensi a come
questa assenza della politica abbia comportato implicazioni profonde
nella mentalità diffusa e nel senso comune.
Un quarto di secolo
fa, la frase «non sono razzista ma» aveva tra i molti significati uno
particolarmente rivelatore: registrava, cioè, l’indebolirsi del tabù del
razzismo non più sottoposto, con l’acutizzarsi dei conflitti, a
quell’interdizione morale e politica che rendeva il concetto di
superiorità gerarchica di una razza qualcosa di sommamente riprovevole,
osceno da portare in società e messo ai margini della discussione
pubblica.
E, tuttavia, quelle stesse parole già introducevano
delle deroghe al rifiuto assoluto del razzismo nelle società
democratiche. «Non sono razzista (ho addirittura molti amici di colore),
ma qui i romeni sono troppi».
Oggi, in quella frase, c’è ancora tutto questo, portato all’esasperazione e a una sorta di parossismo paranoide.
Ma
c’è qualcos’altro, persino più significativo e drammatico. C’è anche un
grido d’aiuto e una richiesta di soccorso: aiutatemi a non diventare
razzista. Fate in modo che la mia inquietudine nei confronti di un altro
– diverso e ignoto – non si traduca in intolleranza, aggressività,
violenza.
È, in quello spazio tra l’ansia collettiva verso lo
straniero (xenofobia) e la volontà di sopraffazione nei suoi confronti
(razzismo) che avrebbe dovuto agire, sin dalla fine degli anni Ottanta,
la politica. Così non è stato.
E, nell’autunno del 2017, siamo
ancora alle prese con una legge sulla cittadinanza che risale al 1992. E
rischiamo di dovercela trascinare ancora per i prossimi anni. E se pure
fosse vero che «non ci sono i numeri», quella mobilitazione politica
che non è stata attivata finora, andrebbe intrapresa con la massima
urgenza e determinazione.
Il che vorrebbe dire, ad esempio, che al Senato la battaglia dovrebbe esser condotta fin da subito.
Sono convinto che queste non siano astrazioni, bensì il loro esatto contrario e c’è un piccolo esempio che è lì a dimostrarlo.
Da
qualche giorno, alcuni intellettuali hanno promosso un testo
indirizzato al Presidente della Repubblica e ai presidenti di Senato e
Camera, nel quale si chiede l’immediata discussione della legge sullo
Ius soli.
Fra loro, tre degli studiosi più schivi che il nostro
Paese conosca: Ginevra Bompiani, Goffedo Fofi e Carlo Ginzburg. Persone
il cui valore intellettuale è accompagnato dalla più scabra sobrietà e
dal più severo stile di vita; e che hanno intrattenuto, nel tempo, un
rapporto di equilibrato interesse per la politica verso la quale hanno
sempre mantenuto una giusta distanza e un prudente sospetto.
Se
oggi hanno deciso di esporsi su un piano che può apparire impopolare (ma
già in migliaia hanno sottoscritto il loro testo) è perché credono che
questo tema possa sfuggire alle dinamiche della politica politicante,
pena il restarne vittima. E perché, soprattutto, hanno compreso che in
gioco non c’è un obiettivo politico-programmatico tra i molti, bensì la
qualità della nostra democrazia e del nostro ordinamento giuridico.