il manifesto 12.9.17
Sinistra spaccata, la sindaca Colau tra due fuochi
Verso
il primo ottobre. L'alcaldesa vuole facilitare la partecipazione dei
cittadini alla «mobilitazione», ma non mettere in pericolo i funzionari e
l’istituzione viste le decisioni del Tribunale costituzionale. Per
Podemos la consultazione è giusta, ma questa non è valida
di Luca Tancredi Barone
BARCELLONA
Il referendum dell’1 ottobre ha già ottenuto diversi risultati politici
importanti. Il primo e più rilevante dei quali è che la questione
catalana è ben salda al centro dell’agenda politica spagnola.
Da
molti punti di vista, e come è sempre stato, una manna per il governo
Rajoy. Il quale non deve più preoccuparsi dei numerosi casi di
corruzione, che l’hanno perfino portato a dover testimoniare in un
processo (cosa mai accaduta finora), né di dover spiegare gli accordi
segreti di vendita di armi all’Arabia Saudita (proprio quando gli
attentati mettono in luce il pericolo di avere amici del genere), o di
rendere conto dei 40 miliardi che il governo ha perso (su 53 spesi) per
il riscatto massiccio delle banche durante la crisi. Soldi che i
ministri popolari garantivano sarebbero tutti rientrati. Una manna anche
per i politici catalani: dei casi di corruzione del partito da cui
viene lo stesso presidente catalano Carles Puigdmont, che si chiamava
Convergència Democrática (ora ribattezzato Partit Demòcrata Català) non
si parla più.
Il secondo risultato di questa tempesta politica è
quello di aver spaccato la sinistra, soprattutto quella catalana. Se a
Madrid il referendum ha dinamitato i fragili ponti che Podemos e Psoe
stavano costruendo a livello parlamentare, è a Barcellona che la
sinistra è esplosa in mille pezzi. E questo proprio quando per la prima
volta nella storia recente spagnola un grande partito nazionale non
nazionalista come Podemos ha preso una netta posizione a favore della
celebrazione di un referendum di autodeterminazione. Solo la piccola
Izquierda Unida aveva avuto il coraggio di farlo in passato: nessun
altro aveva osato mettere in discussione questo grande tabù
postfranchista. Certo, i viola e i loro alleati chiedono che sia un
referendum «con regole», condiviso e non necessariamente vincolante, non
quello di Puigdemont, ma la sostanza resta. Peraltro, una posizione che
fino a cinque anni fa, ere geologiche fa, avrebbe potuto sottoscrivere
perfettamente anche gran parte del Partito socialista catalano.
Oggi
invece il Psc è allineato saldamente con Madrid, anche se l’abile
segretario Miquel Iceta è sempre riuscito a mantenere una posizione
autonoma rispetto all’apparato socialista (per esempio, è fra i pochi
segretari regionali a non appoggiare Susana Díaz, la governatrice
dell’Andalusia che puntava alla direzione contro Pedro Sánchez).
Fra
i militanti dello schieramento indipendentista, la Cup ha scelto di
mettere da parte la sua anima sociale antisistema per dare priorità alla
costituzione di una repubblica catalana, e già dal gennaio 2016, quando
nacque l’attuale esecutivo catalano, ha fornito appoggio esterno al
fragile governo Puigdemont con l’obiettivo proprio della celebrazione di
questo referendum. Lo stesso dicasi degli storici di Esquerra
Republicana, da sempre indipendentisti, che hanno deciso di sposare un
po’ controvoglia gli storici nemici di Convergència in un’inedita grosse
koalition in salsa catalana (il vice di Puigdemont è il leader di
Esquerra Oriol Junqueras) con lo stesso obiettivo.
Ma i cocci li
devono raccogliere soprattutto quelli della confusa sinistra
alternativa, nota con il nome di «I comuni». E cioè tutta quell’area che
va dai militanti di Podem (i viola catalani), agli storici dei verdi di
Iniciativa e Esquerra Unida (IU in Catalogna), fino agli attuali
egemoni del movimento guidato dalla sindaca di Barcellona Ada Colau e
dal deputato a Madrid Xavier Domènech, Catalunya en comú. Podem è
spaccato: l’attuale leader Dante Fachín, in guerra con Pablo Iglesias,
non è voluto entrare nel movimento di Colau – ma alcuni militanti invece
ci sono – e invita al voto il 1 ottobre (contro la posizione di
Podemos, che non lo considera un referendum valido). Ma la sua
leadership è messa in discussione dentro lo stesso partito e si dovrà
votare nei prossimi giorni.
Il raggruppamento parlamentare nel
Parlament di Barcellona, che si chiama Catalunya Sí que es Pot, pur
contando solo 11 deputati, è spaccato fra non indipendentisti e
indipendentisti; fra questi ultimi, poi, c’è chi segue Fachín e chi no. È
un miracolo che si siano messi d’accordo di votare tutti insieme la
stessa cosa: astensione, essendo l’unico gruppo d’opposizione rimasto in
aula.
E infine Colau: nella stessa giunta barcellonese alcuni
assessori chiedono di votare, e altri no. I socialisti, alleati in
giunta, minacciano di uscirne se il comune mette a disposizione i locali
per il voto. Mentre la sindaca e i suoi, che appoggiano da sempre un
referendum, ma non in questi termini, fanno i salti mortali: vogliono
facilitare la partecipazione dei cittadini alla «mobilitazione» del
primo ottobre ma non mettere in pericolo i funzionari e l’istituzione
viste le decisioni del Tribunale costituzionale. E in questi giorni
Catalunya en Comú sta consultando i militanti per sapere se il movimento
deve partecipare o meno alla «mobilitazione» (viene dato per scontato
che il referendum non ci sarà come tale). Si attendono sorprese.