Il Fatto 6.9.17
Secondo Mark Lilla, docente di Storia alla Columbia UniversityIn una società fatta di minoranze la sinistra perde
di Stefano Pistolini
Per
gli americani di buona volontà, è in pieno svolgimento l’era
masochistica della sconfitta. Costoro, secondo Mark Lilla, docente di
Storia alla Columbia University, sono i progressisti versione XXI
secolo, proprio gli stessi che, in un inatteso exploit di positivismo
condussero prima al trionfo e poi alla riconferma presidenziale di
Barack Obama.
Un successo ormai lontano, adombrato dalla miriade
di sconfitte che questi democratici subiscono dall’America repubblicana –
sia in versione educatamente conservatrice, sia attraverso le scalmane
populistiche del tempo di Trump – a ogni scadenza che conta, a livello
locale, di Stato e nazionale. Perdenti cronici, pieni di buoni
propositi, eppure implacabilmente smentiti dall’esito delle urne, pronte
a premiare chi minaccia, promette e strepita.
Cosa diavolo sta
succedendo in America, qual è il malfunzionamento politico, si è chiesto
Lilla, prima in un op-ed sul New York Times e poi in un pamphlet che ne
amplifica la trattazione, rendendola ancora più nervosa: The Once and
Future Liberal – After Identity Politics (HarperCollins) si mette di
impegno – con tutti i rischi di una lettura elitaria – a gettare benzina
sul fuoco. E forse conviene dare ascolto alle sue tesi anche dalle
nostre parti, dove alcuni oggetti della sua critica sono perfettamente
identificabili (la questione-migranti in testa).
La teoria di
Lilla è che il liberalismo americano sia “scivolato in un panico etico
riguardo alle identità razziali, sessuali e di genere, che ha finito per
distorcere il suo messaggio e impedirgli di divenire una forza
unificante capace di governare”. La mobilitazione in favore delle cause
identitarie, a cominciare da quella per la disparità razziale e contro
le forme di razzismo, fino a quelle in difesa delle comunità omosessuali
o di altre entità a rischio di discriminazione, ha finito per
modificare l’essenza della visione liberal, trasformandola in una
galassia di militanze “nel nome di…”, che genera aggregazioni
minoritarie invise alla maggioranza, che le percepisce come estranee.
Questa politica delle identità, secondo Lilla, mina il perseguimento del
bene comune, obiettivo primario della visione liberal americana. E la
divisione in gruppi di rivendicazione – le donne, gli afroamericani, gli
ispanici, i gay, gli indiani ecc. – alimenta “una divisiva retorica
della differenza” che, in nome del vittimismo, concede motivazioni alla
egemonica sopraffazione del potere bianco. “Una delle lezioni della
recente elezione presidenziale, col suo ripugnante esito, è che l’età
del liberalismo identitario deve finire”, scrive Lilla. Troppi
democratici indulgono in una “politica dei narcisismi”, indifferente
alla soluzione dei reali problemi dell’America. Indispensabile per lui è
il ritorno a un pragmatismo della politica che si ponga innanzitutto un
obiettivo: vincere. Riprendere il controllo del maggior numero
possibile dei centri di potere. Il progresso, in termini sociali,
economici, di uguaglianza e opportunità, transita per il potere
politico, che deve costituire il target primario. I progressisti devono
ricominciare a fare una cosa: vincere le elezioni, qualunque sia la
posta in palio. Se nel 2016 un consistente numero di elettori di Barack
Obama ha votato Donald Trump, la causa sta proprio nel progressivo
predominio delle politiche identitarie, che hanno fatto sentire fuori
posto chiunque non s’identificasse in una di esse.
È naturale che
l’ostilità espressa nei confronti dei movimenti – Black Lives Matter,
per citare uno dei più rilevanti, che contesta la persecuzione sofferta
dai neri a opera delle forze di Polizia – e l’acredine nei confronti
delle mobilitazioni nelle università, abbia procurato a Lilla parecchie
critiche. Ma lo storico insiste: “Le elezioni non sono incontri di
preghiera. Nessuno è interessato a sentire la tua storia personale”,
sostenendo che Trump e i suoi si sono insinuati con successo proprio
negli interstizi di questo scenario multiplo di rivendicazione, che ha
accentuato le divisioni nel fronte progressista, creando gruppuscoli
rumorosi, ma destinati alla sconfitta. La sua proposta sta nell’avvento
di una nuova forma di progressismo, basato sulle finalità comuni. “Serve
realismo, una visione disincantata di come viviamo” scrive,
scagliandosi contro i guerriglieri della giustizia sociale e la loro
“rancorosa retorica dei distinguo”.
Lilla riconosce il ruolo
svolto dai movimenti per i diritti civili nei decenni passati, ma li
ritiene controproducenti negli scenari attuali, per come risucchiano
energia allo scopo unico di riportare i Democratici ai posti di comando.
Black Lives Matter, secondo Lilla, “è l’esempio di come non si
costruisca la solidarietà”. I suoi sono argomenti incendiari, che hanno
il pregio di gettare una luce su cosa sia accaduto nelle ultime stagioni
in America e su come Trump e il suo canone di distorsione delle verità
siano riusciti a trasformare i movimenti identitari nella minaccia
contro “l’America per come la conosciamo”. Steve Bannon, spin doctor
della vittoria di Trump, ha ispirato a questo dettato la campagna del
suo candidato. E ha vinto. “Non abbiamo bisogno di altre marce – scrive
Lilla –, ci servono più sindaci”. L’unica identità da perseguire nel
fronte democratico è quella di americani”, dando vita a una forza
unitaria capace di governare. Obama vinse perché nelle sue parole non
isolava mai un gruppo, ma parlava sempre di “noi”. Come Bill Clinton
prima di lui, aveva capito che le settorializzazioni in politica sono
l’anticamera della sconfitta. E che è necessario un lavoro concreto di
coinvolgimento e inclusione, non di distinguo. Così si vince e si
acquista il potere di decidere. La destra ci è riuscita, investendo
capitali in network, siti internet, blog e talk show. La visione
paranoica del potere incarnata da Trump ha radici in quel brodo
mediatico, condito di ansia economica, crimine e rancori culturali. “I
liberal si ricordino che il nostro primo movimento identitario è stato
il Ku Klux Klan. Chi segue quel solco, deve prepararsi a perdere”.
Le
università devono smettere d’essere ossessionate dalle marginalità
sociali e dal culto degli ultimi. Pena il perpetuarsi dei successi di
chi, come la lega Bannon-Trump, ha puntato al bersaglio grosso. The
Devil’s Bargain ovvero “il patto del diavolo” è il titolo di un altro
libro appena uscito, a firma di Joshua Green, inviato di Bloomberg
Businessweek. Bannon, scrive Green, ha insegnato a Trump come utilizzare
lo scontento dell’elettorato e l’insofferenza dei lavoratori bianchi
verso l’immigrazione, l’Islam e le battaglie delle minoranze. Il “muro” è
stato la metafora perfetta. “Prima l’America”, lo slogan elementare.
Lilla riparte da lì, dalla constatazione che la politica è un’arte
pragmatica, che perde sostanza se praticata in un’ottica perdente. “Se
davvero vogliamo proteggere gli automobilisti neri dalla persecuzione da
parte delle forze di Polizia, servono procuratori dotati di visione
democratica. E dunque nominati da legislatori di mente aperta”. Che
perciò devono essere sistemati al loro posto, vincendo le elezioni.
Queste non sono Olimpiadi. L’importante non è partecipare. Le cose non
cambieranno a colpi di flash mob. Bisogna convincere gli americani a
mettere in buone mani il Congresso, il governo delle città e degli
Stati. Bisogna legiferare. Non protestare. Meno simboli e più decisioni.
Strano, no? Suona come “vecchia politica”. Eppure ha le sembianze di un
antidoto. O forse di una colossale fregatura intellettuale. Dove sta il
vero?