martedì 5 settembre 2017

Il Fatto 5.9.17
Il modello Minniti oltre la demagogia
di Angelo Cannatà

Che Marco Minniti fosse un politico di sinistra serio e determinato l’ho capito subito quando l’ascoltai per la prima volta all’inizio degli anni 90. Guidava con sicurezza – da segretario regionale – il Pds calabrese (1992-1994), prima di diventare segretario organizzativo dei Ds nel 1998. Mi trovavo ancora nel Reggino nel 1997 e come “segretario di zona” del Partito democratico di sinistra – coordinavo alcune sezioni nella fascia alta della piana di Gioia Tauro – ebbi modo d’apprezzare il carattere, lo stile, l’attenzione agli ultimi, la cultura e la determinazione di Marco, lo chiamavamo tutti così riconoscendone il carisma e la leadership. Fu per me una breve esperienza politica, la cattedra di Storia e Filosofia nei licei assorbì il mio tempo, ma è a quegli anni che la memoria torna oggi che il ministro dell’Interno mostra a una platea più grande la sua capacità di “vedere”, analizzare i problemi, imporre l’agenda, mediare, in breve: la sua capacità di “fare” politica.
Dal vertice di Parigi, dopo anni di umiliazioni, è arrivato il riconoscimento di Francia, Germania e Spagna; il modello Minniti s’è imposto. Di cosa si tratta? Il capo del Viminale s’è mosso su più piani conciliando “diritti e sicurezza”:
1) Poteva continuare l’anarchia devastante degli sbarchi? “Quando in 36 ore sono arrivati 12 mila migranti, ho temuto per la tenuta democratica del Paese”, dice Minniti. Ed ecco allora le regole di condotta per le Ong (discusse e contestate, finché si vuole, ma efficaci).
2) Poteva diminuire l’afflusso di migranti senza preventivi accordi in Libia? Minniti chiude quanti più accordi possibili con le autorità locali libiche, anche se per molti l’assenza di un governo stabile era un ostacolo insormontabile; stringere patti con le diffuse autorità territoriali (“l’importante è raggiungere l’obiettivo”) ha dato buoni risultati.
3) Essenziale – per Minniti – l’aiuto operativo alla Guardia costiera di Tripoli che “ora fa il suo mestiere di prevenzione e repressione”. È il percorso accolto a Parigi. Ci deridevano, oggi accettano un modello di contenimento dell’immigrazione. Visione, strategia, azione: questo è Minniti. Questione immigrati risolta? No. Le regole di Dublino penalizzano l’Italia e sono da rivedere; lo dice anche la Merkel: “Visto che non c’è solidarietà, i Paesi d’arrivo sono sfavoriti”. C’è ancora molto da fare. Occorre vigilare sui migranti bloccati in condizioni disumane; il timore di Grillo è anche di Minniti (affinità nella differenza), “la creazione di hotspot pone la questione della tutela dei diritti” (altro che svolta a destra!), decisivi il ruolo dell’Onu e la nostra idea di umanità: “Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me” (Dostoevskij).
Il modello Minniti è il primo passo e indica una via (qualcuno ha una proposta più concreta?); ridicole le accuse di fascismo, il problema della stabilità sociale esiste, lo dicono i fatti di Roma (“Non vogliamo più migranti nel quartiere”); assurde l’inerzia e la demagogia della sinistra salottiera. Minniti opera per la sicurezza senza dimenticare che diritti, valori e umanesimo sono la sua storia, e la storia della sinistra democratica. I risultati gli danno ragione: gli sbarchi sono al minimo storico e dicono di un’azione politica lungimirante che prova a mettere un freno (anche) ai rigurgiti xenofobi alimentati dal salvinismo. Nessuno è riuscito a passare dalle parole ai fatti come il capo del Viminale (l’effetto Minniti è evidente). È uomo concreto. Coniuga sicurezza e civiltà ispirandosi alla saggezza antica: “Andrai ben sicuro seguendo il giusto mezzo”. Vorrei non essere reggino come lui; non averlo ascoltato negli anni 90; non essere stato segretario di zona del Pds quando dominava in Calabria, per poter dire – senza suscitare inutili sospetti – che è il miglior ministro dell’Interno di sempre.