Il Fatto 5.9.17
Fiabe moderne: i robot rubano il lavoro ai giovani
di Furio Colombo
Caro
Furio Colombo, i robot rubano il lavoro. Lo annunciano illustri
sociologi, grandi giornali, carrellate televisive in cui al robot manca
solo un basco o una bandana per farlo sembrare un essere umano al
lavoro. Ma è davvero quella la ragione del non lavoro per i giovani?
Marina
Se
i robot fossero la ragione della disoccupazione, non si capirebbe come
ha fatto Obama, durante la sua presidenza (in tutto, otto anni) a
portare i senza-lavoro del suo Paese al minimo mai toccato in un Paese
industriale, 4,4 per cento (cioè praticamente nessuno) di gente senza
lavoro. Nel mondo di Obama si capisce che più robot vuol dire più
lavoro, più produzione, più vendita. Dunque più esseri umani, a monte e a
valle delle varie classi di robot impegnati nei vari snodi produttivi.
Il vuoto di lavoro ha sempre due grandi cause: una crisi o una cultura.
La crisi c’è stata, è stata brutta e lunga, ed è rimasta a lungo un
enigma anche per i grandi esperti che poi vanno a spiegare il non molto
che sanno a Davos o al Forum Ambrosetti. Oppure è una cultura. Adriano
Olivetti, capo di una azienda di fama e di successo mondiale, non faceva
parte della Confindustria italiana perché (cito lui) “indesiderato”.
Infatti Olivetti, in quegli anni Cinquanta in cui tutti si dedicavano a
deprecare il costo del lavoro e, dove possibile, a licenziare, lui,
Olivetti, assumeva operai, impiegati, tecnici, dirigenti, produceva
molto e vendeva molto nel mondo. Ecco perché dico che il lavoro
(crearlo, offrirlo, limitarlo, pagarlo male, toglierlo) è un fenomeno
culturale. Un’analogia utile è quella con il mondo e il destino delle
donne. Non è vero (ma c’è voluto del tempo per fugare la superstizione)
che le donne non sanno o non possono. Semplicemente una cultura (che era
anche la nostra, fino a poco fa) le escludeva in base a una credenza.
Nel mondo produttivo, la credenza, nata prestissimo nella fervida
ricostruzione del dopoguerra, lentamente e poi rapidamente ha dato i
suoi frutti. Non è la speculazione sbagliata o il manager inetto a
fermare l’impresa. È la credenza, largamente infondata e fermissima, che
il lavoro sia il primo costo da abbattere. La maggioranza degli
imprenditori vi si sono dedicati con furore. Hanno creato imprese senza
vita, senza slancio, senza capacità di avere un’immagine che produce
affezione, dunque consumo. Hanno messo a carico dei clienti o
consumatori il lavoro di attesa (le banche quasi senza sportelli) di
trasporto, di montaggio, di installazione e – se ne sono capaci – di
riparazione. Un salone di banca, gremito di gente esausta e con un solo
impiegato, ti aspetta mentre tu stai già pensando dove e come cambiare
banca. Piccolissimi risparmi sul lavoro impiegatizio non compenseranno
mai gli errori dei manager, che sono la vera causa, oltre i loro salari,
nella grande carestia del lavoro.
L’importante, per un capo
azienda disputato con cifre da calciatore fra una impresa e l’altra, è
dimostrare di avere licenziato molto, moltissimo. E il Parlamento
comincerà subito con una nuova legge sul lavoro dei giovani.