Il Fatto 16.9.117
Panico
“Si ha più paura di essere contagiati che di ammalarsi”
di Antonello Caporale
“Tutti
i barconi di migranti sono pieni di scabbia. Mai un cardiopatico che
scappi dalla fame e si ritrovi a bordo di un gommone” dice Andrea
Carlino, storico della medicina all’Università di Ginevra.
Nell’età della paura, la gente sbarca insieme alla malattia che infetta.
Un
sovraccarico di pathos dovuto al circuito mediatico che inanella
singoli casi e – cucendoli uno a uno – fa assumere loro una stazza che
non sempre rappresenta la giusta misura del problema.
Lei insegna ai medici la storia della medicina, il cursus honorum delle singole malattie.
Quelle
contagiose sono sicuramente le più angoscianti, e prescindono dalla
capacità di incidere sulla nostra condizione, sulla nostra abilità di
resistervi e affrontarle.
Come in un sequel romanzato, con i barconi è iniziato il tam tam dell’allerta sanitaria.
La
povertà riduce le difese e alimenta i danni fisici. L’Africa nera si
associa naturalmente al tema del contagio. Da una condizione reale di
malessere però si giunge, attraverso la propalazione di notizie
cospicuamente sovradosate, all’incubo di stare per finire nel cerchio di
fuoco della morte.
Due anni fa era ebola. L’Occidente vigilava nell’ansia sulle frontiere del contagio.
Ebola, sì. E prima come non ricordare l’Aids.
O la tubercolosi.
La
tubercolosi ci riporta all’età della nostra migrazione, al secondo
dopoguerra, alla nostra povertà non ancora superata. E la tubercolosi
non aggrediva soltanto le case dei poveri, degli affamati, ma si
dirigeva anche ai piani alti della società.
Ogni giorno ascoltiamo
notizie circa malattie definitivamente debellate che, come un mostro
marino, si riaffacciano sulle nostre coste grazie ai barconi.
Di
malattie debellate ce n’è soltanto una ed è il vaiolo. C’è certezza che
il virus sia azzerato. Ma il vaiolo, per dire, non è un sorvegliato
speciale soltanto da un punto di vista sanitario. È divenuta un’arma
militare. Le guerre si fanno non soltanto con i missili, ma anche con la
chimica e i batteri. E depositi del virus si trovano negli Usa e in
Russia.
Il nord del mondo adesso si difende dal sud facendo
rivivere il tempo delle infezioni. Sembra una regressione nei primi anni
del Novecento.
Si riferisce alla malaria?
Ecco, spuntata la malaria. Come se nessun caso fosse esistito prima di quegli sbarchi.
È il circuito mediatico ad avere la mano potente.
È il potere che se ne serve per trasformare e manipolare. Oppure la politica per fare propaganda.
Ho visto che da qualche giorno c’è la zanzara Chikungunya.
Oggi a Bolzano un caso di tifo.
Il tifo noi italiani l’abbiamo conosciuto molto bene.
Il
virus non ci contagia soltanto, la malattia non ci fa unicamente
ammalare. Esiste la suggestione, la drammatizzazione, la
teatralizzazione del fenomeno.
La drammaturgia del contagio. È il quid che altre patologie non hanno.
E autorizzano un sovrappiù di eccitazione.
Esistono
atti terapeutici della medicina che compongono una scena perfettamente
teatrale. Pensi alla sala operatoria. L’intervento si sviluppa in una
cornice di movimento. Si potrebbe definire una recita a soggetto.
C’è recitazione in sala operatoria?
Sì,
anche recitazione. Sto studiando la spettacolarizzazione di pratiche
terapeutiche come il tarantismo (prende il nome dalla taranta salentina,
ndr). C’è tutto un rituale.
Esiste la potenza del messaggio virale.
Per prendere dalla cesta solo una delle tante malattie: la tubercolosi è simbolicamente potentissima.