Il Fatto 16.9.17
A scuola lo smartphone non basta
Nuovo anno - Cara ministra Fedeli, i ragazzi già sanno come usarlo ma non come leggere i classici
A scuola lo smartphone non basta
di Angelo Cannatà
Primi
giorni di scuola al liceo. Osservo e prendo qualche appunto.
Innanzitutto le aule. Piccole, brutte, sovraffollate. Gli edifici
pericolanti e gli ambienti angusti in cui si fa lezione sono, nonostante
slide e proclami governativi, terribilmente identici al passato. Le
carenze strutturali rendono difficili le innovazioni: copiamo “modelli
didattici” dai Paesi anglosassoni (prevedono aule-laboratorio, spazi
multimediali, biblioteche in classe) ma non abbiamo strutture adeguate.
Mancano
aule, laboratori, professori; e i presidi devono dirigere più scuole,
spesso molto distanti tra loro. Si fanno corsi sulla sicurezza invece di
mettere in sicurezza gli edifici; si nominano supplenti per simpatia (e
amicizia) invece di seguire una graduatoria; si pongono barriere (24
crediti) per l’accesso ai concorsi invece di aprirli a tutti i laureati.
Adesso
si discute – come fosse un’urgenza – degli smartphone: “Non si può
separare il mondo dei ragazzi – dice la ministra dell’Istruzione Valeria
Fedeli – da quello della scuola”. Gli smartphone possono anche essere
utili, certo; il problema è capire quanto peso debbano avere in classe,
se possano invadere (fino a devastarli) i tradizionali spazi
d’insegnamento e se compito del docente sia educare al loro corretto
uso, o altro. Io credo che l’insegnante abbia altre priorità: leggere i
classici ad alta voce in classe; spiegarli; richiamare il contesto; la
critica; dare agli studenti spunti ermeneutici per una loro, personale,
lettura del testo. Leggere l’Elogio della follia, il Simposio, Al di là
del bene e del male
… sentire Erasmo, Platone, Nietzsche dalla
voce dell’insegnante è un’esperienza unica che solo la scuola può dare.
“C’era una volta un Paese dove l’insegnante faceva lezione. Latino,
greco, filosofia… si studiavano con passione. Era la buona scuola del
passato. Formava persone. I migliori medici, ingegneri, giuristi, che
occupano posizioni di rilievo nell’Italia di oggi, hanno studiato nella
vecchia scuola di una volta; sono affermati professionisti ma ricordano
il liceo: la severità e la comprensione; il silenzio, quando a parlare
erano i classici, mediati dalla voce dell’insegnante. Ricordo il timbro,
l’intercalare, le pause, puntuali, precise del mio professore
d’italiano. Una presenza che ha avuto un ruolo nella mia vita”. Mi scuso
per l’autocitazione, ma quando leggo della necessità dello smartphone
in classe sento che si esagera. E’ vero il contrario, cara ministra
Fedeli, proprio perché smartphone telefonini eccetera sono la
quotidianità dei ragazzi, la scuola deve offrire altro: strumenti
critici, motivazione, passione per i libri, veicolati dalla parola
dell’insegnante, da quella corrente emotiva che Gentile riteneva
essenziale nel rapporto docente-discente. La scuola gentiliana è
criticabile, certo, per il carattere elitario; ma il filosofo coglie il
punto quando osserva che il docente “rivive e trasfigura nel vivo fuoco
dell’atto di insegnare i contenuti delle discipline” (altro che
smartphone!). Ci pensi, ministra, prima d’introdurre una novità che
cambia il senso della lectio in classe. Non ho nulla contro la
tecnologia. Oggi, però, si tratta di capire se la scuola debba educare
alla riflessione, alla profondità, o veicolare l’accettazione
superficiale e supina dell’esistente abbellita dalle immagini a colori
di uno smartphone.