Il Fatto 13.9.17
Compiti ingrati per amici fedeli: dire a Matteo che con lui non si vince
di Alessandro Robecchi
A
volte succede: devi dire una cosa a un amico, ma non sai come fare, e
di solito sono cose che a un amico andrebbero dette. Tipo: “Mi spiace
dirtelo, ma ho visto tua moglie caricare le valigie sulla Cadillac
decapottabile del vicino di casa e partire con lui”. Insomma, non è mai
bello comunicare le cattive notizie, si mischiano timore (come la
prenderà?), imbarazzo e dispiacere. E così oggi abbiamo mezzo Pd
imperlato di sudore che cerca di dire qualcosa all’amico Matteo: “Se a
Palazzo Chigi si candida qualcun altro, e magari Gentiloni, abbiamo
qualche speranza, se ti candidi tu perdiamo sicuro”.
È una cosa
brutta da dire a un uomo che crede in sé così tanto, ma qualcuno deve
farlo. Secondo le cronache politiche (vatti a fidare) per adempiere a
questo triste compito si è già creata una discreta fila. Orlando e gli
orlandiani, Emiliano e gli emilianiani (eh?), mentre Franceschini e i
franceschiniani non vorrebbero proprio dirgliela in faccia, a Matteo,
questa brutta notizia, e si propongono di farglielo capire piano piano,
magari dopo le elezioni siciliane.
Insomma, la storia è questa:
qualcuno deve dire a Matteo che nel suo renzianissimo partito – nel
nuovo Pd senza più gufi, rosiconi, disfattisti, problematici e
rompicoglioni – è rimasto qualcuno che non lo ritiene il più adatto a
fare il premier. E questo dev’essere un colpo duro. Più duro ancora
perché Gentiloni non è che stia facendo i miracoli, ma sembra più
affidabile, meno ciarliero, molto meno fanfarone. E non è che quando
Gentiloni stringe una mano o visita un luogo ci troviamo il giorno dopo –
come accadeva con Renzi – le foto ricordo, il filmino, la slide, il
videogame, il romanzo a puntate, la colonna sonora e la narrazione delle
gesta dell’eroe. Dunque Renzi sarà colpito – quando si decideranno a
dirglielo – proprio nella più profonda renzità, quella che lo porta a
pensare che “quando c’è la comunicazione c’è tutto, signora mia”.
Segnalo
a questo proposito un leitmotiv non proprio azzeccato della propaganda
in corso, l’intenso, reiterato, eccessivo, dunque noioso, richiamo ai
Mille Giorni, come se si parlasse della prima crociata, o della guerra
dei Trent’Anni, o delle Cinque Giornate. Tutto quel che di bene
(pochino, si direbbe) succede nel Paese, sembra scaturire da quei magici
Mille Giorni di cui si ricordano pagine memorabili (?) e si scordano le
altre, quelle meno nobili e un po’ vergognose, soprattutto la costante
mortificazione della dignità del lavoro in questo paese. Insomma, dire
cose come “Considero un privilegio aver lavorato a fianco di Barack
Obama…” è come dire “Sono stato fortunato a giocare con Maradona”, un
bel ricordo, ma era un altro secolo. Ricordare i fasti passati fa
orgoglio da “vecchia gloria”. Non so cosa ne pensano i guru della
comunicazione, ma dire “Quando c’ero io…” ti colloca già nel passato, il
che sembrerebbe letale per uno che ce l’ha menata con la retorica del
futuro un giorno sì e l’altro pure per mille giorni (appunto).
Il
format con cui Renzi si presenta alle sue esibizioni – con o senza libro
in promozione – conferma che non ha capito bene quel che succede, che
la formula del Golden Boy un po’ indisciplinato e contaballe non paga
più, non convince, proprio perché l’abbiamo vista in azione per mille
lunghissimi giorni, è stata stucchevole, prevedibile (anche se non priva
di spunti satirici). Forse qualcuno che gli vuole bene riuscirà a
dirglielo, forse glielo diranno gli elettori siciliani sui quali ha già
messo mille mani avanti dicendo che il voto in Sicilia non è un test
nazionale… Non c’è fretta, ma prima o poi qualcuno dovrà farlo:
avvertire Matteo che il suo format è invecchiato. Oggi va più il
grigiore tranquillo, quelli che ballano il flamenco sui tavoli non
piacciono più tanto e i Mille Giorni non sono il Sacro Graal da
ritrovare.
di Alessandro Robec