mercoledì 13 settembre 2017

Corriere 13.9.17
L’ambiguità dei partiti
di Francesco Verderami

Ancora una volta, in Sicilia come a Genova, alle regionarie come alle comunarie, il Movimento Cinque Stelle è costretto a dirimere in tribunale le controversie interne, provocate da un metodo di selezione dei propri candidati che era stato presentato come esempio di trasparenza e partecipazione. E che invece si rivela un meccanismo farraginoso, a dir poco permeabile alle interpretazioni se non alle manomissioni, che lascia trasparire una tendenza — quasi una serialità — nell’azione del gruppo dirigente: quella cioè di indirizzare il risultato sul «prescelto».
Stavolta la faccenda non può rimanere confinata ai meetup e alle aule di giustizia, anche perché — oltre a poter compromettere il voto in Sicilia — avviene a ridosso delle primarie per la scelta del candidato premier grillino. E siccome i Cinque Stelle puntano a vincere le Politiche e si candidano alla guida del Paese, l’opinione pubblica ha l’interesse e l’esigenza che questa corsa si svolga senza strascichi.
Sul candidato non potrà allungarsi l’ombra della combine, della pastetta, del risultato costruito a tavolino.
Perché il «pregiudizio» sul Movimento contro il quale dice di battersi Luigi Di Maio — dato già vincente alle primarie — si alimenta anche di questo: è per spazzar via l’immagine della doppiezza che non può esimersi da un atto di chiarezza. È paradossale che il sospetto del doping politico colpisca una forza che ha costruito sulla lotta al doping di Palazzo la propria identità, radicandosi nell’elettorato con un’idea semplice e perciò apparsa rivoluzionaria.
I Cinque Stelle continuano invece a dare l’impressione di disattendere la regola dell’«uno vale uno», affidandosi in realtà al metodo dell’«uno decide per tutti»: così facendo però gli elettori potrebbero concludere che in fondo l’«uno vale l’altro». Ed ecco il punto. Perché il caso siciliano che colpisce i grillini è il paradigma del caos italiano che coinvolge tutti: riguarda l’assenza di regole comuni per la scelta dei candidati. È un tema considerato secondario e dinanzi al quale i partiti fuggono, come non capissero che la discrezionalità disorienta i cittadini ed è una delle cause della delegittimazione del sistema.
Il Partito democratico per esempio, che aveva assunto le primarie come metodo, rivendicando l’innovazione, adesso ne fa un uso omeopatico: spesso sul territorio vi fa ricorso solo per dare una spinta propulsiva al proprio candidato, mentre è più propensa ad accantonarle quando la competizione può mettere a repentaglio l’indicazione dei vertici. Allo stesso modo Forza Italia, che pure in passato — ai tempi del Pdl — aveva ufficialmente annunciato una competizione interna, è tornata agli imprimatur di Silvio Berlusconi.
Questo tipo di deregulation per gli elettori ha il retrogusto dell’opportunismo, segnala l’oscillazione del potere che così manifesta la propria debolezza. E i ripetuti interventi della magistratura — anche quando non se ne vede la necessità — dovrebbero essere un ulteriore segnale di quanto sia urgente legiferare in materia. D’altronde se la giustizia può intromettersi nelle cose della politica è (anche) perché un’altra legislatura sta terminando senza che sia stato completato il dettato costituzionale, che impone di disciplinare la vita dei partiti.
Gli stessi partiti che avevano promesso, pochi mesi fa, di varare un «codice ad hoc» insieme alla legge elettorale. E poco importa se oggi non si vedono più i presupposti in Parlamento per una riforma dei meccanismi di voto. La verità è che persino nei giorni in cui le quattro maggiori forze si erano messe d’accordo sul sistema «tedesco», non c’era traccia di quelle norme nel patto.
Le regole comuni per la selezione dei candidati non toglierebbero potere ai leader di partito ma riavvicinerebbero i cittadini ai partiti. Perché a quel punto il concetto «l’uno vale l’altro» avrebbe per gli elettori un valore positivo.