martedì 12 settembre 2017

Il Fatto 12.9.17
Concorsi, la schizofrenia di governo che umilia i prof
Senza sosta - Dai quizzoni ai Tfa-Tfi, fino all’ultima beffa dei crediti universitari: legiferare a strati rende solo i docenti meno preparati
di Filippomaria Pontani

La mortificazione degli insegnanti italiani inizia da subito, anzi da prima che essi diventino tali. Pubblicato – nelle migliori tradizioni – il 10 di agosto, il Decreto ministeriale sui 24 crediti formativi per accedere al concorso per l’insegnamento (se ne è parlato sul Fatto di domenica, ed è ora oggetto di un’interrogazione parlamentare dell’on. Giulio Marcon) è un’interessante spia di cosa possa accadere a un settore importante come la scuola quando viene usato in modo dissennato e tenuto in ostaggio da un’opzione ideologica prepotente, anche in spregio al dovuto rispetto nei confronti dei giovani meritevoli.
Un minimo di pregresso. Dopo l’ultimo “concorsone” nazionale per l’insegnamento, tenutosi nella prima metà del 2000, diversi governi hanno partorito convulsi tentativi di migliorare le procedure di selezione dei docenti delle secondarie, identificando nel reclutamento il cuore del problema della scuola italiana. Che tali provvedimenti abbiano prodotto dei benefici, non credo possa sostenerlo nessuno: il vecchio concorsone, una prova secca tutta focalizzata sui contenuti delle materie da insegnare, prevedeva ad es. per la classe A052 (Materie letterarie, latino e greco nei licei) addirittura una versione dal greco al latino, e ricordo che gli idonei furono alla fine il 7% dei candidati (non pochi assai giovani, e quasi tutti, per quel che mi consta, non meno preparati dei loro colleghi universitari). Nei nuovi modelli di reclutamento, dalle cosiddette SSIS fino al più recente Tirocinio Formativo Attivo, si è proceduto in altre direzioni. La prima: comprimere e addomesticare la verifica delle competenze disciplinari in meccanismi più o meno automatici, dai demenziali quizzoni di cultura generale per le prime scremature fino alle umilianti e diseducative domande “con la clessidra” dell’ultimo concorso a cattedra del 2016.
La seconda: creare percorsi di formazione pluriennali e onerosi, che richiedono profumate iscrizioni da parte di chi li segue, o (come è il caso del FIT previsto dalla Buona Scuola renziana) comportano anni di tirocinio sottopagato. La terza: puntare molto sull’inserimento della pedagogia, saggiando la capacità dei futuri docenti di insegnare la propria materia in forma di “moduli” o “unità didattiche”, di differenziare l’insegnamento a seconda delle classi, di comprendere i ruoli di “leadership” e di “co-working”, e consimili pomposi truismi che ogni docente di buon senso apprende dopo poche settimane di attività. La quarta: in grazia del farraginoso avvicendarsi di sistemi diversi (non appena le SSIS stavano andando a regime, si è iniziato a elaborare il TFA, a sua volta ora rimpiazzato dal FIT; in ogni passaggio si sono creati “buchi” di anni), creare nei giovani l’assoluta incertezza dei modi e dei tempi in cui poter giocare le loro chances di accedere alla carriera dell’insegnamento.
Il decreto del 10 agosto (giorno di san Lorenzo) impatta dunque su una platea di aspiranti che non è composta solo di neolaureati, ma anche di laureati che aspettano da un pezzo che venga data loro la prima o la seconda occasione (l’ultimo bando TFA è del 2014). Tutti costoro, i quali pure hanno compiuto un ciclo di studi che dava loro il diritto di tentare la strada dell’insegnamento, vengono ora obbligati a maturare altri 24 CFU nelle discipline antropo-psico-pedagogiche, pena l’esclusione dal concorso per il primo percorso FIT, previsto nel 2018. Questa scelta ha almeno tre aspetti aberranti. Anzitutto, per la sua efficacia retroattiva, priva i laureati di un diritto acquisito e li obbliga non solo a sborsare soldi (fino a un massimo di 500 euro) all’università più vicina, ma a tornare sui banchi e sui libri mentre lavorano o fanno supplenze, senza alcuna certezza che quei crediti, da maturare prima del concorso anziché (come sarebbe stato naturale) nel corso del tirocinio stesso, serviranno mai a qualcosa. In secondo luogo, nel merito, i 24 CFU sono una burletta: in grazia delle cabale dei settori scientifico-disciplinari dell’università, per una metà essi saranno coperti dalle “didattiche disciplinari” (cioè, per fare un esempio, esami di “Letteratura italiana” verranno spacciati a posteriori per “Didattica della letteratura italiana”); per l’altra metà, come rileva Maria Giovanna Sandri di SI, potranno essere legittimamente coperti con esami come “Storia delle tradizioni enogastronomiche” o “Fondamenti di infermieristica” (tutti afferenti ai settori indicati nel decreto) – ed è palese che né gli Atenei, colti in contropiede nell’estate, avranno le capacità di fornire a tambur battente dei percorsi didattici coerenti, né gli studenti avranno interesse alcuno a scegliere gli esami più sostanziosi e dunque più difficili.
L’effetto peggiore è però il terzo. D’ora in poi chiunque s’iscriva all’università e contempli anche remotamente nel proprio orizzonte la possibilità di andare a insegnare a scuola (dunque anche chi non senta tale vocazione, ma saggiamente ritenga utile lasciarsi la porta aperta) inserirà i 24 CFU nel proprio piano di studio, a premio sugli insegnamenti disciplinari. In altre parole, quei crediti che gli studenti potevano finora sfruttare per acquisire una preparazione specifica più approfondita (specie in tempi in cui i corsi di laurea triennale assomigliano sempre più a “super-licei”) saranno devoluti a esami di pedagogia, di psicologia e forse di Storia delle tradizioni enogastronomiche. Ne usciranno laureati magari più aggiornati su “unità e varietà del genere umano” o sui “fondamenti biologici e neurofisiologici dei processi di sviluppo psicologico tipico e atipico” (le declaratorie del Decreto di san Lorenzo sono istruttive), ma sicuramente meno preparati nel merito di ciò che dovranno insegnare.