Corriere 12.9.17
I giudici della Consulta preoccupati dall’ipotesi urne con le «loro» regole
di Francesco Verderami
La necessità di interventi del Parlamento già auspicata nel dispositivo sull’Italicum
ROMA
Nemmeno le agenzie di scommesse accetterebbero oggi puntate sul varo di
una nuova legge elettorale. Per quanto ci sia ancora chi attende le
Regionali siciliane come un evento catartico che possa sbloccare lo
stallo, in Parlamento c’è la crescente consapevolezza che l’assenza di
un’intesa tra forze politiche e i tempi sempre più stretti a ridosso
dello scioglimento delle Camere, impediranno — a meno di clamorosi colpi
di scena — di approvare una riforma. In tal caso alle urne si andrebbe
con i sistemi di voto per Camera e Senato riscritti dalle sentenze della
Corte costituzionale.
E proprio tra i giudici della Consulta si
avverte «forte preoccupazione» dinnanzi a questa prospettiva. Nonostante
il capo dello Stato abbia più volte esercitato la propria moral suasion
sui legislatori, invitando almeno ad «armonizzare» i due testi, dopo il
mancato accordo sul«tedesco» a giugno tutto lascia presagire che non
saranno esperiti altri tentativi. Ecco il motivo che ha spinto
autorevoli membri della Corte a perorare «ancora una volta» la causa di
una riforma elettorale con le maggiori cariche istituzionali, confidando
venga scongiurata una deriva dai contorni quasi fatalisti.
Le
argomentazioni sono rimaste confinate nell’ambito di colloqui informali e
riservati, e hanno riguardato solo ed esclusivamente alcuni temi
affrontati in punto di diritto, per non correre il rischio di valicare i
limiti che separano l’azione dei giudici dal ruolo del Parlamento.
Sarebbe un evento senza precedenti. Ma è chiara la posizione della
Corte, espressa peraltro pubblicamente ai tempi del verdetto
sull’Italicum.
In quell’occasione i giudici erano stati attenti a
non sconfinare, e con un abile esercizio di scrittura a metà strada tra
interpretazione giurisprudenziale e indicazione politica avevano
espresso la loro posizione. Per un verso avevano esortato le Camere a
legiferare, spiegando come la Costituzione «esiga» che per «non
compromettere il corretto funzionamento della forma di governo
parlamentare», i due differenti sistemi di voto non debbano «ostacolare
all’esito delle elezioni la formazione di maggioranze omogenee». Per
l’altro, proprio per non finire in offside e per evitare buchi
normativi, avevano sottolineato che la loro sentenza «era suscettibile
di immediata applicazione».
Ecco attorno a cosa si arroccano
quanti ritengono si possa andare alle urne con il doppio Consultellum.
Così, ogni qualvolta gli viene posto il problema «tecnico» di varare una
riforma, rispondono pronti: «Tecnicamente quali punti andrebbero
ritoccati?». Come a dire: se bisogna farlo, significa che la sentenza
non è auto-applicativa e che la Corte ha lasciato un vuoto legislativo;
in caso contrario si entrerebbe nell’ambito delle prerogative del
Parlamento. E ogni volta, davanti alle colonne d’Ercole costituzionali, i
colloqui si interrompono.
Così, in bilico tra giurisprudenza e
politica, prosegue una contrapposizione che alimenta sotto traccia il
braccio di ferro. Ovviamente la pressione politica è tutta sul Pd e sul
suo segretario, che insiste a ripetere: «Per varare la riforma
dev’esserci l’accordo di tutti». Perché Renzi ricorda quanti remarono
contro l’intesa di giugno tra i quattro maggiori partiti, ripetendo
ancora oggi ciò che disse a Cazzullo sul Corriere dopo il fallimento del
«tedesco»: «Extra costituzionale non era il patto sulla legge
elettorale, fuori dalla Costituzione ci sono certi fatti accaduti sul
caso Consip». Era stato Napolitano a parlare di «patto extra
costituzionale» per la connessione tra legge elettorale e voto
anticipato.
Ora che la legislatura sta arrivando a scadenza
naturale e che della riforma non c’è traccia, emergono i timori tra i
giudici costituzionali. E si avverte al fondo un’altra loro
preoccupazione: e cioè che, per effetto delle sentenze, alla Corte sia
di fatto intestata la paternità dei due sistemi di voto e le venga
scaricata la responsabilità politica della (quasi certa)
«ingovernabilità». Mentre i Consultellum, ai loro occhi, sono «figli»
del Parlamento.