Repubblica 13.9.17La Bocciatura
Dall’annuale rapporto dell’Ocse sui sistemi di istruzione di quaranta Paesi arriva una sonora bocciatura per l’Italia
Laureati, l’Italia all’ultimo posto e troppi nelle facoltà umanistiche
L’Ocse: solo 18 ogni cento abitanti con il titolo, peggio soltanto il Messico Fanalino di coda per spesa in istruzione. I diplomati trovano più impieghi
di Salvo Intravaia
Pochi laureati, in Italia, e nelle facoltà che il mercato non riesce a valorizzare. Troppi Neet — i giovani che non studiano né lavorano — e investimenti col contagocce. Con Education at a glance 2017, l’annuale rapporto dell’Ocse sui sistemi di istruzione di 40 Paesi, arriva una sonora bocciatura. Tra i 25-64enni, l’Italia conta18 laureati su cento, meno della metà della media Ocse che si attesta al 37% e dato più basso dopo quello del Messico. Ma non solo: «In Italia — spiega Francesco Avvisati, analista dell’istituto con sede a Parigi — ci sono troppi laureati in Lettere che faticano a trovare un impiego che corrisponda alla loro qualifica». Pochi invece, appena il 25% (contro il 37% della Germania e il 29% del Regno Unito) i giovani che escono dall’università con un titolo che fa gola al mercato: Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica (Stem). Un mezzo disastro che si ripercuote sul tasso di occupazione dei laureati: dell’82% nell’ambito Stem, dell’81%, in quello economico- giuridico e del 74% per le materie umanistiche. Ancora più penalizzate, in termini di impiego, le donne e i giovani laureati: l’80% dei 25-64enni con un’istruzione universitaria ha un lavoro, contro il 64% dei 25-34enni, il livello più basso dei Paesi industrializzati, dove la media è dell’83%. Solo in Arabia Saudita, paese partner dell’Ocse, il tasso è inferiore: il 62%.
In Italia, in realtà, non sempre la laurea è sinonimo di occupazione, visto che il tasso di impiego dei giovani laureati è superato anche da quello dei diplomati negli istituti tecnico- professionali, che è pari al 68% contro il 64% di chi ha un titolo superiore e ha tra i 25 e i 34 anni. Per aggiustare il tiro bisogna agire su alcune leve, dice l’Ocse: tasse, borse di studio e numero chiuso. Quello che aveva tentato la Statale di Milano con lo sbarramento a Lettere. «L’incremento dei laureati nel nostro Paese — interviene la ministra dell’Istruzione e dell’Università, Valeria Fedeli — è uno degli obiettivi che ci siamo prefissati e verso il quale ci stiamo già muovendo». La strada è quella di incrementare le risorse universitarie: dell’1 per cento quest’anno e del 4,2 per cento nel 2018. Troppi, poi, i divari tra Nord e Sud in termini di livelli occupazionali, laureati e Neet. Nel Lazio il picco dei laureati (il 23%), in coda Puglia e Sicilia col 13%. Altra piaga, i Neet: in Italia al 26% tra i 15-29enni, quasi il doppio dei 14 su cento registrati a livello Ocse. Dato che schizza al 38% in Sicilia. Siamo penultimi, dietro di noi solo la Turchia. E figuriamo all’ultimo posto nell’area Ocse per spesa pubblica in istruzione. Ma i dati risalgono al 2012 e da allora qualcosa è cambiato.
il manifesto13.9.17
La guerra all’istruzione produce laureati precari e docenti sottopagati
Resistenze possibili. I risultati della guerra all’istruzione, all’università e alla ricerca nel rapporto Ocse 2017. Nove miliardi di euro sono stati tagliati a scuola e università tra il 2008 e il 2011. Da allora questi fondi non sono stati recuperati. L’Italia è un caso unico tra i paesi Ocse. Gli unici ad opporsi contro queste politiche catastrofiche sono stati i movimenti tra il 2008 e il 2010 e nel 2015 contro la «Buona Scuola». Da qui si potrebbe ripartire oggi
La protesta contro il numero chiuso alla Statale di Milano
di Roberto Ciccarelli
Maglia nera per la spesa pubblica nell’istruzione nei paesi Ocse, penultima per numero di laureati e ultima per occupati con il questo titolo di studio, l’Italia conferma anche il record dei giovani «Neet»: un ragazzo su 4 tra i 15 e i 29 anni non è impegnato nello studio, in un lavoro retribuito ufficialmente, né in un percorso formativo.
IL RAPPORTO OCSE «Uno sguardo sull’istruzione 2017» rappresenta il bilancio di due tendenze che hanno trasformato radicalmente la scuola e l’università nell’ultimo ventennio. La prima tendenza è misurabile sul tempo relativamente breve. Tra il 2008 e il 2012, regnante Berlusconi, nel nostro paese è stata condotta la più efferata guerra sociale contro l’intelligenza diffusa, i saperi e l’istruzione pubblica. Nessun paese Ocse, in coincidenza con la crisi più devastante dal 1929, ha tagliato 9 miliardi di euro ai bilanci di scuola e università. A questi bisogna aggiungere i miliardi risparmiati con il blocco degli stipendi degli insegnanti e personale: 12 mila euro a testa in sette anni. Oggi, sostiene l’Ocse, la retribuzione lorda di un prof di liceo con 15 anni di anzianità è inferiore di 9 mila dollari rispetto alla media (37 mila contro 46 mila). In termini generale, ancora nel 2014, era investito il 7,1% in istruzione (siamo ultimi tra i paesi Ocse) e l’1,6% in educazione terziaria a fronte di una media del 3,1%. La percentuale del Pil dedicato all’istruzione è del 4% contro il 5,2% nell’Ocse. Rispetto al 2010, il taglio è stato del 7%.
SUGLI STUDENTI SI INVESTE sempre meno: 9317 dollari a testa a fronte di una media europea di 10.897 dollari (media Ocse 10.759 dollari). Sull’educazione universitaria, l’Italia impiega 11.510 dollari. In Francia sono quasi cinquemila in più: 16.422 dollari. La Germania è irraggiungibile: 17.180 dollari. Dal 2014 a oggi, è ragionevole pensare, questi dati non sono cambiati di molto. Nell’ultimo triennio, quello per intendersi del governo Renzi-Gentiloni, all’istruzione sono andate briciole rispetto ai tagli inflitti nel triennio precedente e non sono stati rovesciati i devastanti effetti dell’offensiva berlusconiana. Il cospicuo bottino ottenuto dalla «flessibilità» concessa dall’Unione Europea al nostro paese è stato usato per i bonus alle imprese (i 18 miliardi di euro bruciati inutilmente per aumentare l’occupazione fissa con il Jobs Act) o per dare spiccioli al ceto medio del lavoro dipendente in crisi (i 9 miliardi degli «80 euro»). Nell’orizzonte politico del renzismo-Pd non rientrano gli investimenti pubblici su istruzione e ricerca. La plateale assenza del tema nella campagna elettorale nascente è una conferma.
LA SECONDA TENDENZA rilevata dal rapporto Ocse riguarda il tempo lungo, quello della riforma dei cicli e dei crediti voluta dal centro-sinistra Prodi-D’Alema-Amato, con ministri dell’Istruzione Berlinguer e Zecchino, dal 1996 al 2001. Non occorreva aspettare gli ultimi dati sui laureati per capire che quella riforma neoliberale è stata un fallimento. Vale la pena allora rispolverarli, considerata la forte capacità di rimozione delle responsabilità politiche e culturali in questo paese. Nel 2016, tra i 25 e 64enni, il 18% aveva una laurea. La media europea è del 33%. Tra i 25-34enni il 26% aveva una laurea. La media europea: 40%. Solo il Messico fa peggio con il 22% di laureati. Dati da scolpire nella pietra perché i «riformatori» neoliberali del «centro-sinistra» avevano un unico obiettivo: aumentare i laureati, riducendo i saperi a competenze («soft skills») usa-e-getta su un mercato che sta sostituendo il lavoro dipendente con quello precario a breve e brevissimo termine, mentre gli «inattivi», i «neet» e gli «scoraggiati» sono arrivati alla cifra choc di 13 milioni (dati Istat di ieri). A questo risultato ha contribuito il combinato disposto dell’esplosione della bolla formativa creata dagli anni Novanta e i tagli degli anni Dieci.
L’UNICO «SUCCESSO» è l’età media della prima laurea, 25 anni, in linea con l’Europa e inferiore ai paesi Ocse. Il prossimo ministro dell’Istruzione che insulterà i «fuori corso» come «costi sociali» o «choosy» è avvertito: non è vero. Cosa fanno questi (pochi) laureati? Sono precari. In più il tasso di occupazione è del 64% contro la media dell’83%, il più basso tra i paesi industrializzati, e inferiore a quello dei diplomati. Un caso raro nei paesi Ocse.
L’ENORME MOVIMENTO che, al tempo della «riforma Gelmini» tra il 2008 e il 2010, animò una contro-offensiva di massa è stato l’unico soggetto sociale a opporsi contro queste politiche catastrofiche. Un ritorno di fiamma è stato quello contro la «Buona Scuola» di Renzi nel 2015, un provvedimento che ha rafforzato l’approccio neoliberale all’istruzione dopo averlo aggravato nel mercato del lavoro. Da qui si potrebbe ripartire. Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio, ha scritto Samuel Beckett. Una massima che vale anche oggi.
il manifesto 13.9.17
«Danno esistenziale» per i docenti precari
Treviso. Al tribunale del Lavoro storica sentenza
M. Fr.
Storica sentenza del tribunale del Lavoro di Treviso che ha riconosciuto «il danno esistenziale» ad un gruppo di docenti precari che perfino da 20 anni continuavano a vedersi rinnovati i contratti a tempo da un centro di formazione professionale della Provincia di Treviso. L’accordo fra le parti ha fissato i risarcimenti dai 2 ai 15mila euro a seconda del periodo di precariato.
Repubblica 13.9.17
Torino, il primato del Politecnico al lavoro 9 su 10 a un anno dalla tesi
di Jacopo Ricca
TORINO. Meglio il Politecnico di Torino che Stanford, Oxford o Harvard, almeno per trovare lavoro subito dopo la laurea. La classifica internazionale dell’istituto britannico QS premia l’ateneo piemontese come migliore università del mondo per numero di studenti impiegati a un anno dalla fine della tesi.
La Graduate Employability Rankings 2018 mette il Politecnico di Torino sul primo gradino del podio in uno dei cinque indicatori che prendono in esame 600 università nel mondo. Il tasso di occupazione dei laureati a un anno dal titolo è pari al 94% (contro una media italiana che non va oltre il 76,2), un primato condiviso con il Moscow State Institute of International Relations. «Possiamo dire che i nostri ragazzi trovano tutti subito lavoro – spiega soddisfatto il rettore, Marco Gilli – Quel 6% che non ha un impiego a 12 mesi dalla laurea spesso lo trova poco dopo e si tratta comunque di un numero molto basso e un tasso fisiologico». La ricetta di questo successo secondo Gilli sta nella qualità della didattica: «In tutto il mondo ci riconoscono che offriamo un percorso di studi che dà fondamenti molto solidi». La graduatoria generale, che oltre al tasso di occupazione comprende il numero di laureati che siedono nei cda delle più importanti aziende del mondo, ma anche la reputazione degli atenei secondo le imprese e le partnership realizzate con queste, vede però una sola università italiana tra le prime cento del mondo. Si tratta di un altro Politecnico, quello di Milano, mentre Bologna, il Politecnico di Torino e La Sapienza di Roma si classificano subito fuori, tra il centesimo e il centotrentesimo posto.
Repubblica 13.9.17
Per combattere il fascismo meglio costruire che cancellare
di Tomaso Montanari
IL POTERE dei monumenti appare oggi inversamente proporzionale al potere della politica. Lo suggeriscono le dichiarazioni con cui vari esponenti del Partito democratico propongono di cancellare le iscrizioni dei monumenti fascisti. Ieri il deputato Emanuele Fiano ha espresso il suo consenso (poi derubricato a una meno impegnativa neutralità) rispetto alla proposta di Luciano Violante di abradere la scritta «Mussolini Dux» dall’obelisco del Foro Italico.
Il parallelo con quanto accade negli Stati Uniti non regge. Lì a chiedere, o ad attuare, l’abbattimento delle statue dei generali sudisti e dei politici schiavisti è una agguerrita opposizione civica che contesta un presidente che, in modo inaudito, simpatizza con quella terribile storia. È Trump, insomma, ad aver ridato forza e vita a quelle statue: e chi le abbatte cerca di abbattere Trump, almeno in effigie. Un fenomeno comprensibile, anche se pieno di contraddizioni e di pericoli, come ha ben spiegato Ian Buruma.
Ma da noi è, paradossalmente, il contrario: sono uomini del partito di governo a dichiarare di voler mettere le mani sui monumenti.
Ora, l’architetto Fiano e i suoi colleghi dovrebbero sapere che si tratta di monumenti tutelati dalla legge e dalla Costituzione repubblicana, e che dunque chi li manomettesse commetterebbe un reato. E, soprattutto, un partito di governo che proponga di mutilare i monumenti (per quanto nobile sia l’obiettivo finale) trasmette un messaggio di impotenza: di una politica ridotta a propaganda. Perché i governi democratici, a differenza di quelli autoritari, non praticano l’iconoclastia: essi hanno il dovere di utilizzare strumenti ben più potenti e appropriati.
Per esempio, si vorrebbe vedere rivolta contro i troppi gruppi dichiaratamente neofascisti o neonazisti anche solo una piccola parte della forza di polizia usata negli ultimi mesi contro i poveri, i marginali, i migranti. Prima ancora: il governo dispone di strumenti di intelligence, e credo che sarebbe ora di veder chiaro nelle sorprendenti ramificazioni e negli intrecci che legano non i monumenti di pietra, ma i neofascisti in carne ed ossa, ad ambienti insospettabili. Mi riferisco, per esempio, al pentolone scoperchiato dalla documentatissima inchiesta del collettivo di scrittori WuMing provocatoriamente (ma non gratuitamente) intitolata CasaP( oun)D. Rapporti con l’estrema destra nel ventre del partito renziano. Ed è ben noto che da inquinamenti di questo tipo non è esente il Movimento 5 stelle.
Dal governo di una Repubblica fondata anche sullo «sviluppo della cultura» e sulla «ricerca » ci si aspetta non la cancellazione delle scritte sui monumenti di ottant’anni fa, ma la costruzione di strumenti per leggere storicamente e moralmente quelle scritte. Il disinvestimento nella cultura e nella scuola, il sottofinanziamento dell’università e il loro orientamento sempre più professionalizzante rappresentano uno smantellamento della formazione alla cittadinanza, e dunque una distruzione dei veri anticorpi antifascisti.
Per rispondere al terribile fascismo fiorentino degli anni venti, Nello Rosselli progettava di fondare biblioteche per ragazzi in ogni quartiere della città, e mentre era chiuso in carcere Antonio Gramsci rifletteva sull’urgenza di dotare l’Italia di «servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola, nei suoi vari gradi », quelli che « non possono essere lasciati all’iniziativa privata, ma che in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province): il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici». E non si pensa senza vergogna alla nostra attuale incapacità di costruire a Milano un vero Museo della Resistenza, cioè un grande centro di ricerca, capace di redistribuire conoscenza critica attraverso i canali più moderni.
Da un partito di governo dell’Italia democratica del 2017 non ci si aspetta, insomma, una propaganda iconoclasta, ma un progetto culturale che costruisca l’antifascismo attraverso la cultura: non la cancellazione delle contraddizioni storiche, ma la capacità di mettere tutti in grado di interpretarle. Non la finzione che il fascismo non sia stato: ma la forza culturale e morale per meditare «che questo è stato» (Primo Levi).
il manifesto 13.9.17
I due carabinieri
di Claudio Canal
Ho fatto delle ricerche: ho scoperto che gli antenati dei due carabinieri che hanno violentato le ragazze americane (ma proprio americane dovevano sceglierle? Se erano bielorusse, thailandesi o nigeriane c’erano meno problemi) sono anche loro discendenti dell’africana Lucy e delle successive migrazioni dall’Africa verso il resto del mondo, Italia compresa.
Come recita l’inno Aiutiamoli a casa loro, scritto dal paroliere Minniti, musica Salvini, Feltri, Adolf H., i due carabinieri verranno al più presto rimpatriati in Kenia, Burkina, Gabon, a scelta, senza documenti, rigorosamente vaccinati, due settimane di stipendio, una confezione di preservativi e gli auguri di Mattarella.
La benemerita Ong NSF (Nei Secoli Fedele) il prossimo anno renderà conto dell’avvenuta integrazione dei due militi nella società africana (apprendimento della lingua e rispetto degli usi e leggi locali).
Non c’è bisogno invece di speciali indagini storiografiche per svelare l’enigma: il comandante generale dell’Arma, gen. Tullio Del Sette, non estraneo per conto suo alle aule giudiziarie, ha pomposamente dichiarato: Pagheranno il disonore commesso! E, fremendo, Comportamento indegno che infanga tutta l’Arma!
A piangere inebriata di sé e del disonore subito è dunque l’Arma, la vera vittima. Non le due donne il cui dolore è per sempre.
il manifesto 13.9.17
La legge contro la propaganda fascista passa alla camera
Primo via libera con il minimo dei voti alla proposta Fiano, ma il passaggio al senato è a rischio. Contraria tutta la destra e il Movimento 5 Stelle, ma perplessità anche a sinistra
di Andrea Colombo
La legge Fiano è stata approvata ieri sera dalla camera, con 261 voti a favore, 122 contrari e 15 astensioni. Gli emendamenti approvati la hanno un po’ mitigata, senza modificare l’opposizione della destra e dell’M5S, ma soprattutto senza dissipare i dubbi legittimi che la legge desta. Il tentativo di rinvio di Fdi, che aveva chiesto di far slittare il dibattito, è stato subito bocciato anche dai grillini, inizialmente favorevole allo slittamento, hanno cambiato idea dicendosi pronti al voto favorevole purché venisse approvato l’emendamento che rendeva più rigorosa la legge Scelba contro l’apologia di fascismo senza aggiungere una nuova proibizione. In effetti non è facile, in un testo di poche righe come questo, capire dove sia la differenza di questa legge rispetto a quella voluta dal ministro degli interni più duro della storia della Repubblica nel 1952 (soprattutto come alibi e copertura per la sanguinosa repressione che stava mettendo in atto contro la sinistra).
La legge prende di mira non la ricostituzione del partito fascista, proibita con disposizione transitoria dalla Costituzione ma l’oggettistica, purché sia adoperata come strumento di propaganda (e non ci capisce bene cosa la specifica significhi), la gestualità, in soldoni il saluto romano che Ignazio La Russa si è peritato di fare subito in aula durante il proprio intervento, la diffusione «dei contenuti» dei partiti fascista e nazista ma soprattutto la «propaganda in rete». In questo caso infatti la già pesante pena che va da sei mesi a due anni di carcere viene aumentata di un terzo.
«Semplicemente surreale. Viola elementari diritti umani», taglia corto Giorgia Meloni, chiamata quasi direttamente in causa ma Salvini non è da meno: «Legge demenziale che punisce chi possiede un accendino con Mussolini». Grillo, come da copione, fa il grillocentrico: «Antifascismo a intermittenza: quando Pd e partiti limitrofi non sanno come contrastare le nostre posizioni di buon senso gridano al fascismo». La più ironica è Alessandra Mussolini: «E io che faccio, cambio cognome?».
Fiano ha contestualizzato la sua legge nel quadro di una minaccia fascista che sta riprendendo corpo in Europa. Ma non è solo la destra e tantomeno sono solo i sospetti nostalgici a criticare il provvedimento. Anche parlamentari certamente antifascisti come Parisi, di Scelta civica, hanno preso di mira con argomenti seri questa modifica del codice penale che, con il nuovo art. 293bis, rischia fortemente di sconfinare nella lesione della libertà di pensiero e di parola da un lato, e di rivelarsi del tutto inefficace, se non controproducente in termini di propaganda, dall’altro.
La discussione è stata preceduta, come era inevitabile in un’estate segnata soprattutto (ma non solo) sull’altra sponda dell’Atlantico dall’assurda «campagna delle statue», da una polemica sull’obelisco romano che, al Foro Italico, si fregia della scritta «Mussolini Dux». Intervistato da Radio 24 Fiano ha ipotizzato, per la verità tra le righe, la cancellazione della scritta: «Sono contrario all’abbattimento dei monumenti, ma l’abrasione della scritta è una cosa che, in Italia, è già stata fatta in molti posti». Poi, dopo la prevedibile ondata di reazioni polemiche, il parlamentare del Pd ha frenato a tavoletta: «Mai proposta la cancellazione della scritta o l’abbattimento di monumenti dell’epoca fascista».
Licenziata dalla camera, la legge dovrà passare per le forche caudine del senato. Sempre che si arrivi a discuterla in tempo utile, e non è affatto detto.
La Stampa 13.9.17
Legge elettorale, Renzi frena
La sfida arriva dalla sinistra Pd
Stallo alla Camera sulla riforma. Sabato Orlando lancia la sua proposta
di Ugo Magri
L’ultima giustificazione per non fare la legge elettorale arriva dal Trentino Alto Adige. La Südtiroler Volkspartei minaccia di votare contro la manovra economica casomai venisse riproposto il «Tedeschellum» già silurato a giugno dai «franchi tiratori». Con quel sistema, infatti, l’Svp dimezzerebbe le 6 poltrone ottenute nel 2013 tra Camera e Senato, dunque nemmeno a parlarne. Giusta rivendicazione o volgare ricatto, il Pd sostiene che della pattuglia Svp non si può fare a meno. Cosicché la sorte del modello tedesco, su cui tre mesi fa stava realizzandosi una vastissima convergenza, viene ora subordinata a qualche (improbabile) compromesso con i sudtirolesi. Non solo. Nella Commissione affari costituzionali della Camera è spuntato un ulteriore dubbio: si può correggere una norma, sempre sul sistema di voto in Trentino Alto Adige, su cui l’Aula aveva già detto la sua? Sembra materia da azzeccagarbugli, e invece stamane la presidente Boldrini spiegherà ai capigruppo che siamo davanti a una questione di altissimo profilo perché, se ogni volta si potesse tornare indietro, la maggioranza cambierebbe tutte le votazioni sgradite, e la democrazia non sarebbe più tale. A quel punto, il Pd allargherà le braccia: purtroppo la strada del tedesco è sbarrata.
Ecco come mai le opposizioni ieri sono insorte quando il capogruppo Pd Rosato e il relatore Fiano hanno confermato la volontà di procedere sul tedesco, ma con l’accordo Svp e il via libera della presidente Boldrini. Per gli avversari di Renzi è solo una «finta», architettata da Matteo. Il quale avrebbe deciso di lasciare tutto com’è, tanto che già si starebbe dedicando al casting, cioè alla selezione dei futuri candidati (un po’ quanto sta facendo il Cav). Di vero c’è che al segretario Pd la normativa attuale non dispiace affatto. Magari cambierà idea dopo le Regionali siciliane, però intanto tiene il punto. E a chi denuncia le contraddizioni di due leggi figlie della Consulta, pretendendo quantomeno un ritocco come sollecita il Capo dello Stato, nel giro renziano obiettano che intervenire non è un obbligo, le sentenze della Corte costituzionale sono auto-applicative, per votare non serve un decreto e nemmeno c’è bisogno di provvedimenti amministrativi per colmare certe lacune, ad esempio quelle sulle preferenze in senato. Sono sufficienti, minimizzano al Largo del Nazareno, delle banali istruzioni ministeriali che spieghino come funziona e stop. Cioè praticamente nulla. Con il vantaggio che gli eventuali contestatori non avrebbero materia contro cui appellarsi al Tar.
Scenari da incubo
Ci sono però campane diverse, perfino dentro il Pd. Dove non tutti sono così certi che i ricorsi al Tar verrebbero preclusi dalle istruzioni ministeriali, col rischio che qualche giudice in vena di protagonismo potrebbe addirittura sospendere elezioni già convocate. La minoranza dem resta convinta che un ultimo sforzo per cambiare la legge rimanga indispensabile. E già prepara uno «strappo» non solo simbolico: sabato mattina l’area che fa capo a Orlando formalizzerà una sua proposta in occasione del convegno romano intitolato «Unire il centrosinistra per unire l’Italia», protagonisti il Guardasigilli con Pisapia e Calenda. Ne anticipa il succo Martella: consisterà nel sistema proporzionale alla tedesca ma con un premio per la coalizione (o il partito) che supera il 40 per cento. Da M5S e da Forza Italia osservano interessati. Il berlusconiano Brunetta ritiene che, senza scatti di dignità, il Parlamento farà l’ennesimo regalo all’anti-politica. Per cui pretende l’impossibile: «Una riforma votata da tutti, che scontenti tutti, e dunque non favorisca nessuno».
La Stampa 13.9.17
E spunta il piano B: nuovo ricorso alla Consulta
Anche al Senato giù le soglie e no alle coalizioni
Il pool di giuristi rilancia: a gennaio sentenza della Corte per uniformare le regole
di Giuseppe Salvaggiulo
Non è il decreto legge, osteggiato dai costituzionalisti e destinato a infrangersi contro i dubbi del Quirinale, il piano B per superare lo stallo parlamentare e rendere omogenee le leggi elettorali di Camera e Senato. Ma un piano B esiste. Si basa su un forte presupposto politico-istituzionale (i ripetuti e finora inascoltati appelli del presidente della Repubblica) e su un solido impianto tecnico-giuridico, un’ottantina di pagine riccamente argomentate. Chi l’ha studiato negli ultimi due mesi e sta per renderlo pubblico lo definisce «via costituzionale alla riforma», perché prevede un nuovo ricorso alla Consulta. La Corte sarebbe investita esplicitamente della questione e potrebbe agire chirurgicamente. L’eliminazione di alcune parole in otto articoli della legge del Senato sarebbe sufficiente a uniformarla a quella della Camera.
Il piano B ha anche una tempistica. Entro questa settimana deposito della questione di incostituzionalità. Entro il 15 ottobre ordinanza del tribunale che la solleva davanti alla Consulta. Entro il 20 gennaio udienza alla Corte, con possibile sentenza. L’effetto politico sarebbe duplice: paralizzare le velleità di conclusione repentina della legislatura dopo la legge di bilancio; puntare una pistola (carica) alla tempia del Parlamento, che in caso di ulteriore inerzia sarebbe esautorato, per la terza volta in quattro anni, dalla Consulta.
La procedura
Attualmente le due leggi elettorali sono il frutto delle sentenze con cui la Corte ha sancito l’incostituzionalità del Porcellum (2014) e dell’Italicum (2017). Dalla prima sentenza residua la legge per il Senato, dalla seconda quella della Camera. Le due leggi, così malnate, sono spurie sotto diversi profili. In sintesi: alla Camera coalizioni vietate, al Senato permesse; alla Camera premio di maggioranza alla lista che supera il 40%, Senato senza premio; alla Camera soglia di sbarramento al 3%, al Senato al 3% per le liste dentro una coalizione che supera il 20% e all’8% per le liste solitarie; alla Camera capilista bloccati, al Senato preferenze per tutti; alla Camera garanzia di rappresentanza di genere uomo-donna, al Senato questione non regolata (la Consulta ha dato un’indicazione di massima, mai applicata).
Le sentenze della Consulta erano nate dai ricorsi di un pool di avvocati, coordinati dall’ex parlamentare dell’Ulivo Felice Besostri. Sono un’ottantina in tutta Italia e tra il 2015 e il 2016 hanno avviato 23 cause civili in altrettanti tribunali, invocando «la pienezza e la libertà del diritto di voto». Cinque giudici hanno sollevato le questioni su cui la Consulta si è pronunciata a gennaio.
Dopo la notifica ai tribunali, la procedura prevede che i processi a monte ricomincino (il termine tecnico è riassunzione) in vista della sentenza. Ciò è accaduto in questi mesi. A Messina, primo tribunale a dubitare dell’Italicum, dopo un’udienza estiva la sentenza è fissata per il 29 settembre. Ma l’avvocato ricorrente, Enzo Palumbo (ex senatore del Partito Liberale ed ex membro del Csm) sta per giocare una nuova carta. Depositerà nei prossimi giorni un’altra istanza, per sollevare davanti alla Consulta cinque nuove questioni di incostituzionalità delle due leggi spurie.
Il piano B, appunto.
Le nuove questioni riguardano: soglia di accesso alla Camera, candidature multiple alla Camera, soglie al Senato, vizio nel procedimento di approvazione dell’Italicum. Ma è la quinta la più importante e dirompente: la disomogeneità tra le leggi elettorali.
La stessa Corte nella sentenza sull’Italicum scriveva che «la Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee».
Esattamente il rischio dato dalle leggi spurie, cui il Parlamento non ha posto rimedio.
Non solo. Nella stessa sentenza, la Corte tracciava le modalità tecniche con cui eventualmente riproporre la questione della disomogeneità. La strada che il pool di giuristi ha ora deciso di percorrere.
Le conseguenze
Se il tribunale di Messina dovesse accogliere l’istanza e sollevare la nuova questione costituzionale, la palla tornerebbe alla Consulta. Che avrebbe in mano la pistola per sparare il colpo decisivo e rendere i sistemi elettorali omogenei. La chiave è una norma del sistema del Senato finora dimenticata: «Per tutto ciò che non è disciplinato dal presente decreto si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni del testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati». Tanto basterebbe a eliminare anche per il Senato coalizioni e soglie di accesso differenziate, introducendo capilista bloccati, preferenze di genere e premio al 40%. E l’omogenità sarebbe cosa fatta.
Resta il problema del premio di maggioranza: se lo prendono due liste diverse alla Camera e al Senato? Questione delicata. Il pool di avvocati invoca «uno slancio creativo»: se i vincitori sono diversi nei due rami del Parlamento, i premi non si attribuiscono.
il manifesto 13.9.17
Legge elettorale, rinvio “tirolese”
Alla camera. Il Pd si tiene stretto il Consultellum: no alla discussione sul sistema para tedesco per rispettare le richieste dell'Svp
di Andrea Fabozzi
Non c’è più bisogno di interpretare i discorsi allusivi di Matteo Renzi. Che l’attuale – e duplice – sistema di voto al Pd vada benissimo lo dimostrano i comportamenti concreti in parlamento. Alla camera, in commissione affari costituzionali, ieri pur di non passare al merito della discussione, che una maggioranza ampia vuole riprendere da dove si è interrotta prima dell’estate e cioè dal cosiddetto sistema tedesco rimaneggiato, il relatore Pd Fiano ha chiesto un «approfondimento regolamentale». Tradotto: una verifica con la presidente della camera Boldrini sulla possibilità di tornare indietro rispetto al voto dell’8 giugno scorso quando in aula fu approvato un emendamento M5S-Forza Italia che estende al Trentino Alto Adige le regole valide per il resto d’Italia. Tradotto ancora meglio è una perdita di tempo.
Il Pd aveva già sollevato il problema, ma il presidente della prima commissione, Mazziotti, supportato da ogni possibile parere degli uffici della camera, aveva spiegato che per il principio del ne bis in idem la maggioranza non può smentire un voto dell’aula, tantomeno in commissione. Per questo genere di ripensamenti c’è la seconda lettura della legge al senato (per fortuna del Pd e di Fiano che ne invocavano il superamento con la riforma costituzionale). Per una auto-smentita della camera servirebbe al limite l’unanimità dei gruppi, che non c’è. Ma il Pd ha un problema diverso, ed è che quel voto semi segreto di giugno (si ricorderà che per un errore tecnico fu possibile per un momento leggere il tabellone e scoprire così che i franchi tiratori decisivi erano del Pd) ha cancellato un privilegio ultradecennale degli alleati tirolesi della Svp. Alleati più volte decisivi al senato, dove all’interno del gruppo delle autonomia contano su tre voti diretti e non di rado sulla solidarietà di altri autonomisti. Svp adesso minaccia di votare contro il governo; la minaccia come quasi tutto in questi giorni va letta alla luce del prossimo voto sulla nota di aggiornamento al Def: la legge rinforzata di attuazione del nuovo articolo 81 della Costituzione (l’obbligo al pareggio di bilancio) impone la maggioranza assoluta: 161 voti al senato (quando in quell’aula l’ultima fiducia al governo ha raccolto appena 148 voti).
Il Pd naturalmente sa bene che non ci sono margini per tornare indietro, alla camera, sul voto che ha abolito i collegi uninominali maggioritari del Trentino Alto Adige, e questa dovrebbe essere la conclusione dell«approfondimento» che Mazziotti e la presidente Boldrini potrebbero fare già oggi. Ma vuole dimostrare massimo impegno a Svp, tant’è che Fiano mette a verbale che «quello del Trentino è un problema politico e la questione posta da Svp è per noi invalicabile». La soluzione (anche) a questo problema sarà nel lasciar cadere ogni ipotesi di modifica della legge elettorale e conservare il Consultellum per il senato e l’Italicum decapitato dal ballottaggio per la camera. Conclusione buona per Renzi e ormai quasi inevitabile, a forza di rinvii.
Corriere 13.9.17
Bersani: «Pisapia leader» Un passo avanti al tavolo della sinistra (tra battutine e frizioni)
D’Alema: nessuno ha in mente di eleggere un soviet
di M. Gu.
ROMA Finito il vertice fiume, all’ora del caffè il dibattito sul futuro della sinistra trasloca a Montecitorio. Nicola Fratoianni si ferma con Bruno Tabacci, uno dei deputati più vicini a Giuliano Pisapia: «Avete detto che per capirci qualcosa dobbiamo leggere il comunicato — affonda perfido il leader di Sinistra Italiana —. Io l’ho letto, ma sembra scritto dalla Tass...».
Fratoianni scherzava, ma il riferimento all’Agenzia telegrafica dell’Unione Sovietica rivela l’accoglienza non proprio affettuosa con cui gli altri spezzoni della sinistra hanno salutato il primo coordinamento fra Mdp e Campo progressista. «Pisapia non è il nostro leader», lo gela il segretario di Si. Bersani invece si mostra contento, o quanto meno rassegnato: «Giuliano leader? Assolutamente sì». E lui, che pure affida l’interpretazione della giornata a un testo cesellato dagli spin doctor, assicura che «un importante passo avanti» è stato fatto.
Un tavolone nella nuova sede dei fuoriusciti dal Pd, quattro ore di confronto e, poco prima di scappare in anticipo per raggiungere Delrio a Reggio Emilia, Pisapia bacchetta i dirigenti del nascituro Insieme: «A parte Cecilia Guerra siamo tutti uomini... Mai più riunioni come oggi. Dobbiamo allargare e cambiare le nostre pratiche autocentrate, figlie di un modo fallimentare di selezionare la classe dirigente». Al di là dei mugugni e dei dubbi che neanche il summit con 19 uomini e una donna spazza via del tutto, qualche elemento di concretezza comincia a emergere. Dopo mesi di tensione sul diverso grado di fedeltà a Gentiloni, si decide che Pisapia guiderà una delegazione a Palazzo Chigi per aprire «un confronto stringente con il governo». Se Mdp sembrava pronto allo strappo sulla legge di Bilancio, ora la mediazione prevede che si chieda «una svolta» su lavoro, scuola e sanità. Lo ius soli? «Imprescindibile». E la legge elettorale? «Irresponsabile» votare con due sistemi diversi.
Magari la chimica non è scattata e il volto del nuovo soggetto fatica a delinearsi, però Pisapia strappa l’impegno a seppellire le primarie, perché, ripete Massimiliano Smeriglio, «il leader è Giuliano senza se e senza ma». L’altra metà del tavolo incassa l’impegno scritto a costruire un centrosinistra «alternativo alle politiche sbagliate del Pd di Renzi». E non è poco per chi, come D’Alema, invoca «radicalità» per rosicchiar voti ai dem. L’ex premier lascia la sede di Mdp senza proferire parola («C’è il comunicato») dopo aver tranquillizzato a suo modo i compagni di strada, preoccupati dal diverso peso delle forze in vista del «grande momento di coinvolgimento popolare». È la prima pietra: un’assemblea costituente da celebrarsi in autunno, anche se la data non c’è. «Nessuno ha in mente di eleggere un soviet che schiaccia e mortifica, non siamo pazzi», rassicura D’Alema, cui era stato attribuito un certo zelo nel tesseramento: «Dobbiamo eleggere un’assemblea democratica che rappresenti i nostri militanti, ma anche tante altre forze con storie differenti, civiche e dell’associazionismo».
La rotta di Pisapia resta «né listone con il Pd né listino con Mdp». E la Sicilia? L’ira non gli è passata. Quando Arturo Scotto gli rimprovera di essere «sparito dai radar» tutta l’estate, l’avvocato va giù duro: «Avete deciso la linea senza farmi una telefonata». La nota congiunta informa che il coordinamento «Mdp-Cp» si riunirà «con regolare frequenza per dare concretezza agli impegni assunti».
La Stampa 13.9.17
Mdp prova a mettere
Pisapia sotto tutela
“Adesso si decide insieme”
Un coordinamento si riunirà per le scelte più delicate
di Francesca Schianchi
«Per oggi abbiamo deciso chi siamo, poi sul dove andiamo si vedrà…». Il deputato Ciccio Ferrara, tendenza Pisapia, sintetizza con una battuta la tanto sospirata riunione di ieri mattina tra il movimento dell’ex sindaco di Milano, Campo progressista, e i vertici di Mdp, il partito fondato da Bersani, D’Alema e Speranza dopo la scissione dal Pd. «Non abbiamo sciolto tutti i nodi», ammette Ferrara: hanno provato a mettere fine ai rinvii, si sono guardati in faccia due delegazioni per un totale di una ventina di persone, consegnati qualche critica a vicenda, e - dopo quattro ore di dibattito - partorito un comunicato limato fin nelle virgole per poter dichiarare tutti all’uscita con un largo sorriso: «Si è rafforzato e definito il percorso comune di costruzione di un centrosinistra innovativo». Anche se non c’è accordo sulla Sicilia né su quando tenere un’assemblea nazionale. E pure sulla figura di Pisapia dalle parti di Mdp si tiene a chiarire che sì, il leader è lui, ma insistendo perché eserciti il suo ruolo «in un luogo collegiale»: l’affollato «coordinamento» di ieri «si riunirà con regolare frequenza».
È dal 1° luglio scorso, dalla manifestazione voluta a Roma dall’ex sindaco di Milano, partecipata dalle prime file di Mdp, che i dirigenti delle due parti aspettano di rivedersi a quattr’occhi. Un incontro divenuto sempre più necessario nel corso dell’estate punteggiata da incomprensioni. Quattro ore di «franca discussione», come la definisce Bruno Tabacci, uomo molto vicino a Pisapia, per tentare di far ripartire un percorso: «Poi si vedrà cosa ne esce...», sospira scettico.
«Basta con il fuoco amico», chiede subito l’avvocato milanese. «Dopo la manifestazione del 1° luglio, non hai mai esercitato la leadership», gli rimprovera Arturo Scotto, dando voce alle tante critiche sussurrate in questi mesi dalle parti di Mdp; «difficile esercitarla se voi, come in Sicilia, prendete decisioni senza nemmeno consultarmi», la risposta dell’ex sindaco, contrario alla scelta di candidare Fava come a quella del Pd di sostenere Micari con Alfano. Rivolto a un D’Alema scatenato nelle critiche alla politica estera del suo ex collaboratore Minniti, ci tiene a puntualizzare la sua lealtà al governo dell’Ulivo ai tempi dello strappo di Rifondazione, e di non aver votato la fiducia al governo D’Alema né la missione in Kosovo.
Sistemate le frecciate in sospeso, è tempo di guardare avanti. Prima di tutto al rapporto col governo: «Avete abbandonato il Pd accusandolo di essere freddo con Gentiloni, sarebbe ben strano se ora, con la manovra, lo faceste cadere voi», ammonisce i compagni di Mdp Tabacci. «Avvieremo un confronto in vista della legge di bilancio per conseguire una svolta sulle politiche economiche e sociali», scrivono nella nota finale: sarà Pisapia a guidare una delegazione che porterà le proposte all’esecutivo. E poi si trovano d’accordo sulla «imprescindibile approvazione dello ius soli» e la necessità di cambiare la legge elettorale.
Entro qualche mese si terrà un’assemblea, «un grande momento di coinvolgimento popolare»: Bersani e co. avrebbero voluto organizzarla subito; Pisapia ritiene che debba farsi dopo le regionali siciliane, visto che, fa maliziosamente notare qualcuno, come dice D’Alema «solo un idiota può dire che si tratta di un fatto locale». La soluzione è annunciarla genericamente per l’autunno.
Così, parte il tentativo di far diventare un matrimonio questo accidentato fidanzamento (ma di partito si parlerà dopo il voto), aprendo anche «senza veti o pregiudizi» ad altri, come Civati e Fratoianni (che chiede subito un incontro ma al grido di «Pisapia non è il nostro leader»). Stando attenti a non toccare l’argomento spinoso delle candidature di big come Bersani e D’Alema. L’accordo è per un centrosinistra «alternativo alle politiche sbagliate del Pd di Renzi». Suscitando qualche fastidio negli alleati, Pisapia lascia la riunione per primo: è atteso a una Festa dem per un dibattito col ministro Delrio. Dove, più che alternativo, definisce il Pd «sfidante: l’avversario sono le destre».
Repubblica 13.9.17
Accordo a sinistra: “Leadership a Pisapia”
Sanati i dissidi tra Mdp e Campo Progressista. L’ex sindaco di Milano portavoce del nuovo soggetto politico Sarà lui a incontrare il governo in vista della manovra economica. “Siamo alternativi al Partito democratico”
di Mauro Favale
ROMA. Quattro ore di riunione, 18 partecipanti (17 uomini, una sola donna) ma alla fine, come dice Giuliano Pisapia, «abbiamo fatto un importante passo avanti ». La chiave sta tutta in una frase del comunicato che segna la ripartenza per il cantiere del nuovo centrosinistra, quello nato il primo luglio in piazza Santi Apostoli e sopravvissuto alle frizioni estive tra Mdp e Campo progressista e alla rottura sulla candidatura in Sicilia. «Si è rafforzato e definito — si legge nella nota diffusa al termine del vertice — un percorso comune di costruzione di un centrosinistra innovativo, capace di battere le destre e i populismi e alternativo alle politiche sbagliate del Pd di Renzi». Quell’aggettivo, «alternativo», secondo Mdp sgombra il campo dalle «ambiguità» e apre al confronto con soggetti civici ma anche con Sinistra Italiana in vista di un potenziale cartello elettorale in grado di superare gli sbarramenti per Camera e Senato.
Un’apertura raccolta da Nicola Fratoianni, segretario di Si: «Incontriamoci e confrontiamoci », dice. Ma c’è da superare uno scoglio: la guida che Mdp e Campo progressista affidano a Pisapia («È lui il leader», dice Pierluigi Bersani) e che Fratoianni contesta, proponendo, per la scelta, «un metodo democratico». «Le primarie? Non esiste al mondo», precisa Massimiliano Smeriglio, luogotenente di Pisapia a Roma. Per lui, il punto di riferimento inamovibile del nuovo soggetto è l’ex sindaco di Milano. Che da ieri avrà il ruolo di “portavoce”: sarà lui a presentare al governo, nei prossimi giorni, 3-4 punti di programma in vista della manovra. Un modo per tenere vivo il dialogo con l’esecutivo ed evitare la rottura sulla legge di bilancio che pure più d’uno in Mdp va predicando.
Il vertice (presenti, tra gli altri, Bruno Tabacci per Campo progressista e Massimo D’Alema, Roberto Speranza e Guglielmo Epifani nella delegazione di Mdp che conta anche l’unica donna, la senatrice Cecilia Guerra) conferma la volontà di lanciare la nuova formazione con un’assemblea. Non più in ottobre, come stabilito a luglio, ma «in autunno », dopo le Regionali in Sicilia. Il percorso per arrivare a quell’appuntamento, però, verrà definito in una serie di riunioni che, d’ora in poi, avranno cadenza quasi settimanale. Da decidere, ancora, il nome del soggetto (“Insieme” è provvisorio) le modalità di partecipazione all’assemblea e il nodo delle candidature. A occuparsene potrebbe essere un “comitato di garanti”: una richiesta di Pisapia raccolta da Mdp. Quanto all’ipotesi del tesseramento, Smeriglio frena Mdp: «L’organizzazione del partito viene a valle delle elezioni, prima prendiamo due milioni di voti».
Gelido il commento del Pd dopo la riunione: «Un centrosinistra senza Pd più che un’utopia è una sciocchezza», dice Lorenzo Guerini. «La competizione divisiva favorisce gli avversari», è la convinzione del vicesegretario Dem Maurizio Martina.
il manifesto 13.9.17
Pisapia&Ditta, di nuovo Insieme
Sinistre&alleanze. Bersani: «Giuliano leader, si va avanti». Smeriglio: «Vocazione di centrosinistra, ma senza pregiudiziali, chi ci sta è il benvenuto». L’assemblea sarà a novembre. D’Alema: non possiamo produrre frammentazioni. Fratoianni, Si: no all’‘uomo solo’ ma incontriamoci Acerbo, Prc: «Il progetto Mdp-Cp è un Pd bonsai»
di Daniela Preziosi
Al quinto piano di un palazzo a due passi dal Senato le squadre schierate l’una di fronte all’altra e in mezzo un tavolo (per Mdp Bersani, D’Alema, Epifani, Speranza, Laforgia, Guerra, Stumpo, D’Attorre, Scotto, Paolucci; per Campo Progressista Pisapia, Ferrara, Smeriglio, Furfaro, Capelli, Tabacci, Manconi, Monaco, Romano) fanno un po’ disfida di Barletta. Ma finisce con strette di mano e sorrisi ai fotografi. E con la consueta rassicurazione di papà Bersani: «Pisapia è il leader? Assolutamente sì».
È così archiviata – almeno per ora – l’estate incerta di «Insieme», creatura politica nata il primo luglio fra Mpd e Campo progressista, la rete dell’ex sindaco di Milano, ma subito funestata da litigi e divergenze e dalla rottura in Sicilia, dove le due formazioni non sono riuscite a convergere sul candidato Fava. Ieri mattina nella sede di Mdp ci vogliono quattro ore – quattro – di ‘dibattito’, aperto e chiuso da Pisapia, per definire la «ripartenza». L’ex sindaco mette subito in chiaro che ya basta con il «fuoco amico»: «Non andrò nel listone Pd, lavoro per un centrosinistra alternativo, ma non serve un listino di sinistra, serve un soggetto largo». Se la sua leadership è riconosciuta non servono le primarie. «Purché la eserciti senza perdere altro tempo», è la replica da parte bersaniana. Il confronto è «franco e leale», come si dice a sinistra quando si bordeggia il peggio. Si parla di Sicilia, di legge di bilancio, Pisapia è contrario al no pregiudiziale con Gentiloni. Non si parla di candidature, che pure.
Alla fine però sono tutti d’accordo, uniti anche dalla consapevolezza che una rottura sarebbe un disastro per tutti e incomprensibile per i propri potenziali elettori. E così la «ripartenza» viene annunciata da un comunicato concordato fin nelle virgole. Si parla di un percorso «definito e rafforzato», di «costruzione di un centrosinistra innovativo capace di battere le destre e i populismi e alternativo alle politiche sbagliate del Pd di Renzi». Quanto alle alleanze, punto delicato, si apre «un confronto, senza veti o pregiudizi, con tutti i soggetti civici e politici che condividono la necessità di tale percorso». Nelle traduzioni dal politichese si segnalano sfumature. Per Roberto Speranza (Mdp) la prospettiva è l’apertura di «un’interlocuzione con Sinistra italiana». Per Massimiliano Smeriglio (Cp) la prospettiva è «un soggetto di centrosinistra, senza pregiudiziali, il leader è Pisapia, e chi ci sta è il benvenuto». L’assemblea fortissimamente voluta da Mdp si farà: ma in autunno inoltrato, dopo le regionali siciliane. (Per gli amanti del genere, non sarà più «costituente» ma «democratica», ovvero favorirà «la massima partecipazione e apertura, un grande momento di coinvolgimento popolare» però non varerà subito un partito ma un soggetto politico-elettorale a due gambe, Mdp e Cp, aperto a chi aderirà al ’manifesto’ annunciato da mesi, in pratica una tela di Penelope).
Da subito si formerà un coordinamento che si riunirà ogni settimana sotto la guida di Pisapia. Una delegazione avvierà «un confronto stringente col governo in vista della legge di bilancio», la richiesta è «una svolta sulle politiche economiche e sociali a partire dal lavoro, dalla scuola e dalla sanità»: i toni si moderano, ma il senso resta «svolta o rottura». Gli altri due obiettivi sono ius soli e legge elettorale «che garantisca la governabilità».
«Restano cose da chiarire», ammette Tabacci. Ma «non possiamo produrre frammentazione, sarebbe autolesionista avere più liste a sinistre», spiega D’Alema. «Ora dobbiamo unire tutti a sinistra», sottolinea Speranza.
Ma in questo «tutti» c’è un equivoco. O almeno qualche reticenza. Fratoianni, segretario di Si, è possibilista nei confronti di una lista comune. Ma: «Pisapia non è il nostro leader. Le leadership si definiscono o perché convincono tutti – e non sarebbe questo il caso – o con metodo democratico». In ogni caso auspica «un incontro con Mdp e Cp da tenere al più presto», e se dovesse servire una leadership «discutiamo di come lo troviamo». Chiude invece tutte le porte Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista: «Il progetto di D’Alema, Tabacci, Bersani e Pisapia è una fotocopia del Pd, un centrosinistra bonsai. Sono i soliti noti, quelli che hanno votato la legge Fornero e mille altre pseudo-riforme liberiste, che si mettono insieme per riproporre la solita minestra riscaldata». Parole che chiariscono che due liste a sinistra, con ogni probabilità, ci saranno.
Due: sempreché da adesso in avanti Insieme proceda unita, anche se con due anime diverse, quella più civica dell’ex sindaco e quella più partitista degli ex Pd. La tenuta sarà testata già in queste ore. Pisapia mantiene aperto il dialogo con il Pd non renziano: ieri era con Graziano Delrio, ulivista del Pd, alla festa dem di Reggio Emilia. E sabato sarà a Roma con Andrea Orlando. Il tipo di incontri che innervosisce la ’Ditta’ ex Pd. Che fin qui infatti ha sospettato l’ex sindaco di voler aspettare l’esito del voto siciliano per la decisione finale sulla lista alternativa al Pd.
Corriere 13.9.17
Parisi: «Il simbolo dell’Ulivo non andrà a chi ci riporta indietro»
di Monica Guerzoni
«Dare il marchio all’ex sindaco di Milano? La storia non si regala»
ROMA «La storia non si regala».
Giuliano Pisapia non avrà il simbolo dell’Ulivo?
«Il simbolo non esiste separatamente dalla storia politica che ha rappresentato».
Arturo Parisi è nella sua Sardegna, «lontano con i piedi e con la testa» dai palazzi dove si discute di alchimie e formule per un nuovo, futuribile centrosinistra. Ma poiché l’ex ministro della Difesa ha letto con «incredulità e sorpresa» su La Verità che Romano Prodi sarebbe pronto a concedere all’ex sindaco il marchio dell’Ulivo, il padre del vessillo unitario smentisce donazioni in vista: «È una notizia priva di alcun senso e fondamento».
A lei risulta che Pisapia abbia mai chiesto il simbolo?
«Il simbolo appartiene all’associazione L’Ulivo - I Democratici, che ne ha ceduto l’utilizzo alle coalizioni che ne hanno fatto richiesta per correre alle elezioni, l’ultima volta nel 2006. Ma non è che basta ottenere il simbolo per appropriarsi del contenuto».
Pensa che Insieme, se mai nascerà, non sarà degno di sfoggiare sulla scheda elettorale le foglioline di Romano Prodi?
«Voglio dire che abbiamo già visto in passato tentativi simili con i simboli del Partito comunista italiano o della Dc. Come se bastasse toccare un simbolo per impossessarsi di una storia e per lucrare una rendita. Siamo al magico, alla superstizione. Quasi che i segni di quella storia possano essere ridotti a reliquia».
Pisapia non è il nuovo Prodi e Insieme, se mai nascerà, non è il nuovo Ulivo?
«Nei mesi scorsi con Prodi ci siamo spesi per una convergenza tra le forze del centrosinistra. Ed ora dovremmo accettare che l’Ulivo diventi il segno e lo strumento per una divergenza?».
Non le piace il continuo richiamo alla discontinuità rispetto al Partito democratico di Matteo Renzi?
«Ripeto. La storia dell’Ulivo, un progetto ispirato all’unità e declinato al futuro, volto al servizio di un progetto di divisione declinato al passato? Stiamo davvero parlando del nulla».
Quindi lei non crede che dopo le elezioni siciliane nascerà una lista «nuovo Ulivo» che faccia da calamita ai delusi dal renzismo? Da Pisapia a Bersani, da Franceschini a Orlando?
«Prima vorrei vederli assieme e assieme chiedere di tornare all’Ulivo. Non solo quelli che lei ha ricordato. Come dimenticare che fu proprio Prodi a volere che il segno dell’Ulivo fosse iscritto nel simbolo del Pd per rappresentare la continuità di una storia? A prescindere e al di là del segretario di turno».
Il Fatto 13.9.17
Compiti ingrati per amici fedeli: dire a Matteo che con lui non si vince
di Alessandro Robecchi
A volte succede: devi dire una cosa a un amico, ma non sai come fare, e di solito sono cose che a un amico andrebbero dette. Tipo: “Mi spiace dirtelo, ma ho visto tua moglie caricare le valigie sulla Cadillac decapottabile del vicino di casa e partire con lui”. Insomma, non è mai bello comunicare le cattive notizie, si mischiano timore (come la prenderà?), imbarazzo e dispiacere. E così oggi abbiamo mezzo Pd imperlato di sudore che cerca di dire qualcosa all’amico Matteo: “Se a Palazzo Chigi si candida qualcun altro, e magari Gentiloni, abbiamo qualche speranza, se ti candidi tu perdiamo sicuro”.
È una cosa brutta da dire a un uomo che crede in sé così tanto, ma qualcuno deve farlo. Secondo le cronache politiche (vatti a fidare) per adempiere a questo triste compito si è già creata una discreta fila. Orlando e gli orlandiani, Emiliano e gli emilianiani (eh?), mentre Franceschini e i franceschiniani non vorrebbero proprio dirgliela in faccia, a Matteo, questa brutta notizia, e si propongono di farglielo capire piano piano, magari dopo le elezioni siciliane.
Insomma, la storia è questa: qualcuno deve dire a Matteo che nel suo renzianissimo partito – nel nuovo Pd senza più gufi, rosiconi, disfattisti, problematici e rompicoglioni – è rimasto qualcuno che non lo ritiene il più adatto a fare il premier. E questo dev’essere un colpo duro. Più duro ancora perché Gentiloni non è che stia facendo i miracoli, ma sembra più affidabile, meno ciarliero, molto meno fanfarone. E non è che quando Gentiloni stringe una mano o visita un luogo ci troviamo il giorno dopo – come accadeva con Renzi – le foto ricordo, il filmino, la slide, il videogame, il romanzo a puntate, la colonna sonora e la narrazione delle gesta dell’eroe. Dunque Renzi sarà colpito – quando si decideranno a dirglielo – proprio nella più profonda renzità, quella che lo porta a pensare che “quando c’è la comunicazione c’è tutto, signora mia”.
Segnalo a questo proposito un leitmotiv non proprio azzeccato della propaganda in corso, l’intenso, reiterato, eccessivo, dunque noioso, richiamo ai Mille Giorni, come se si parlasse della prima crociata, o della guerra dei Trent’Anni, o delle Cinque Giornate. Tutto quel che di bene (pochino, si direbbe) succede nel Paese, sembra scaturire da quei magici Mille Giorni di cui si ricordano pagine memorabili (?) e si scordano le altre, quelle meno nobili e un po’ vergognose, soprattutto la costante mortificazione della dignità del lavoro in questo paese. Insomma, dire cose come “Considero un privilegio aver lavorato a fianco di Barack Obama…” è come dire “Sono stato fortunato a giocare con Maradona”, un bel ricordo, ma era un altro secolo. Ricordare i fasti passati fa orgoglio da “vecchia gloria”. Non so cosa ne pensano i guru della comunicazione, ma dire “Quando c’ero io…” ti colloca già nel passato, il che sembrerebbe letale per uno che ce l’ha menata con la retorica del futuro un giorno sì e l’altro pure per mille giorni (appunto).
Il format con cui Renzi si presenta alle sue esibizioni – con o senza libro in promozione – conferma che non ha capito bene quel che succede, che la formula del Golden Boy un po’ indisciplinato e contaballe non paga più, non convince, proprio perché l’abbiamo vista in azione per mille lunghissimi giorni, è stata stucchevole, prevedibile (anche se non priva di spunti satirici). Forse qualcuno che gli vuole bene riuscirà a dirglielo, forse glielo diranno gli elettori siciliani sui quali ha già messo mille mani avanti dicendo che il voto in Sicilia non è un test nazionale… Non c’è fretta, ma prima o poi qualcuno dovrà farlo: avvertire Matteo che il suo format è invecchiato. Oggi va più il grigiore tranquillo, quelli che ballano il flamenco sui tavoli non piacciono più tanto e i Mille Giorni non sono il Sacro Graal da ritrovare.
di Alessandro Robec
Corriere 13.9.17
L’ambiguità dei partiti
di Francesco Verderami
Ancora una volta, in Sicilia come a Genova, alle regionarie come alle comunarie, il Movimento Cinque Stelle è costretto a dirimere in tribunale le controversie interne, provocate da un metodo di selezione dei propri candidati che era stato presentato come esempio di trasparenza e partecipazione. E che invece si rivela un meccanismo farraginoso, a dir poco permeabile alle interpretazioni se non alle manomissioni, che lascia trasparire una tendenza — quasi una serialità — nell’azione del gruppo dirigente: quella cioè di indirizzare il risultato sul «prescelto».
Stavolta la faccenda non può rimanere confinata ai meetup e alle aule di giustizia, anche perché — oltre a poter compromettere il voto in Sicilia — avviene a ridosso delle primarie per la scelta del candidato premier grillino. E siccome i Cinque Stelle puntano a vincere le Politiche e si candidano alla guida del Paese, l’opinione pubblica ha l’interesse e l’esigenza che questa corsa si svolga senza strascichi.
Sul candidato non potrà allungarsi l’ombra della combine, della pastetta, del risultato costruito a tavolino.
Perché il «pregiudizio» sul Movimento contro il quale dice di battersi Luigi Di Maio — dato già vincente alle primarie — si alimenta anche di questo: è per spazzar via l’immagine della doppiezza che non può esimersi da un atto di chiarezza. È paradossale che il sospetto del doping politico colpisca una forza che ha costruito sulla lotta al doping di Palazzo la propria identità, radicandosi nell’elettorato con un’idea semplice e perciò apparsa rivoluzionaria.
I Cinque Stelle continuano invece a dare l’impressione di disattendere la regola dell’«uno vale uno», affidandosi in realtà al metodo dell’«uno decide per tutti»: così facendo però gli elettori potrebbero concludere che in fondo l’«uno vale l’altro». Ed ecco il punto. Perché il caso siciliano che colpisce i grillini è il paradigma del caos italiano che coinvolge tutti: riguarda l’assenza di regole comuni per la scelta dei candidati. È un tema considerato secondario e dinanzi al quale i partiti fuggono, come non capissero che la discrezionalità disorienta i cittadini ed è una delle cause della delegittimazione del sistema.
Il Partito democratico per esempio, che aveva assunto le primarie come metodo, rivendicando l’innovazione, adesso ne fa un uso omeopatico: spesso sul territorio vi fa ricorso solo per dare una spinta propulsiva al proprio candidato, mentre è più propensa ad accantonarle quando la competizione può mettere a repentaglio l’indicazione dei vertici. Allo stesso modo Forza Italia, che pure in passato — ai tempi del Pdl — aveva ufficialmente annunciato una competizione interna, è tornata agli imprimatur di Silvio Berlusconi.
Questo tipo di deregulation per gli elettori ha il retrogusto dell’opportunismo, segnala l’oscillazione del potere che così manifesta la propria debolezza. E i ripetuti interventi della magistratura — anche quando non se ne vede la necessità — dovrebbero essere un ulteriore segnale di quanto sia urgente legiferare in materia. D’altronde se la giustizia può intromettersi nelle cose della politica è (anche) perché un’altra legislatura sta terminando senza che sia stato completato il dettato costituzionale, che impone di disciplinare la vita dei partiti.
Gli stessi partiti che avevano promesso, pochi mesi fa, di varare un «codice ad hoc» insieme alla legge elettorale. E poco importa se oggi non si vedono più i presupposti in Parlamento per una riforma dei meccanismi di voto. La verità è che persino nei giorni in cui le quattro maggiori forze si erano messe d’accordo sul sistema «tedesco», non c’era traccia di quelle norme nel patto.
Le regole comuni per la selezione dei candidati non toglierebbero potere ai leader di partito ma riavvicinerebbero i cittadini ai partiti. Perché a quel punto il concetto «l’uno vale l’altro» avrebbe per gli elettori un valore positivo.
Repubblica 13.9.17
Quando emigra la politica
di Ilvo Diamanti
L’IMMIGRAZIONE, ormai, è “l’emergenza”. Che divide la società. Ma anche la politica. Tanto da indurre Luigi Zanda, presidente dei senatori Pd, a rinviare il voto del Senato sullo “Ius soli”. A data da destinarsi. Sul Ddl, la maggioranza di governo oggi non ha la maggioranza. Domani si vedrà. Il diritto dei figli di immigrati nati in Italia: negato. Per paura. Per paura delle paure. Che, certo, in Italia, sono diffuse. Ma, forse, non quanto in Parlamento. Un segno, l’ultimo, dell’impotenza della politica in Italia. Incapace di decidere. Tanto più, in attesa delle prossime elezioni. L’indagine dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos (con la Fondazione Unipolis e l’Osservatorio di Pavia) rileva, d’altronde, come la percezione di insicurezza, suscitata dagli immigrati, nelle ultime settimane, abbia raggiunto gli indici più elevati, da 10 anni a oggi: il 46%. Bisogna risalire all’autunno del 2007 per trovare un indice più elevato: 51%. Mentre nel 1999, quasi vent’anni fa, il timore degli immigrati risultava altrettanto diffuso. In entrambi i casi, si trattava di stagioni elettorali molto “calde”.
NEL 1999: elezioni amministrative ed europee. Ma anche vigilia delle elezioni regionali, che si sarebbero svolte l’anno seguente. Il 2007: passaggio fra due elezioni politiche di svolta. Quelle del 2006, vinte dal Centro-sinistra guidato da Prodi. Di misura. Le consultazioni del 2008, vinte dal Polo di Centro-destra, costruito intorno a Silvio Berlusconi (accanto alla Lega e ad AN). In entrambe le occasioni, l’immigrazione ha costituito un tema di scontro. Nel 2007, in particolare, collegato alla paura della criminalità. Immigrazione e criminalità: un binomio quasi inscindibile. Ha segnato il dibattito pubblico e favorito il Centro-destra. E, parallelamente, compromesso i consensi al Centro- sinistra. Da allora, solo in questa fase la questione migratoria ha ripreso altrettanto rilievo. Certo: le misure e le vicende contano. L’afflusso dei migranti dall’Africa verso le nostre coste, i fatti di violenza che hanno suscitato sdegno e paura. A Rimini, in particolare. Ma non bisogna dimenticare il calendario politico. In primavera si vota. Per eleggere il nuovo Parlamento. E il rapporto con gli “altri”, che vengono da “fuori”, e ci invadono: diventa una questione importante. “La” questione. Amplificata dai “media”, come mostrano con efficacia i dati dell’Osservatorio di Pavia (per l’Associazione Carta di Roma). I picchi nel numero di notizie proposte dai principali TG nazionali di prima serata coincidono, non per caso, con i cicli e gli anni elettorali: 2008-2009, poi 2013. Fino agli anni recenti. Visto che dal 2015 ad oggi viviamo tempi di campagna elettorale permanente. D’altronde, l’Osservatorio di Pavia rileva come, nell’ultimo mese e mezzo, nel 10% dei servizi dei telegiornali si parli di immigrazione, mentre nel 2016 la percentuale era dell’8%. Nel mese di agosto e nella prima decade di settembre, inoltre, nel 38% dei servizi incontriamo notizie di crimini compiuti da immigrati. Un anno fa, invece la media dei 7 telegiornali era del 24%. Lo stupro di Rimini, in particolare, ha ottenuto una visibilità record: una media di 5 notizie a edizione in quattro giorni. Così la “pìetas” che, negli ultimi anni, aveva caratterizzato l’atteggiamento mediale e, al tempo stesso, sociale, verso gli sbarchi dei disperati sulle nostre coste, di recente, ha cambiato di segno. È divenuta distacco. Paura. A dispetto dei “numeri”. Perché gli sbarchi dei migranti in Italia, di recente, si sono dimezzati: da più di 23 mila nel luglio 2016 a circa 11 mila, nell’ultimo mese (dati Unhcr, confermati dal Quirinale, agosto 2017).
Così, non sorprende il grado elevato di inquietudine verso gli immigrati rilevato da questo sondaggio. Né il sensibile calo di consenso verso la concessione della cittadinanza ai figli di immigrati, nati in Italia. Il cosiddetto “Ius Soli”. Condiviso dall’80% degli italiani nel 2014. E da circa il 70% alla fine del 2016 e nei primi mesi del 2017. Mentre negli ultimi mesi il sostegno sociale allo “Ius Soli” è si è ridotto: al 57%, nello scorso giugno, e ancora, fino al 52%, negli ultimi giorni. Così si spiegano le paure della politica che invece di governare la società la inseguono. Ne riflettono ed enfatizzano i ri-sentimenti.
D’altronde l’impronta sociale della xeno-fobia – letteralmente: paura dello straniero – appare evidente, dai dati del sondaggio. Cresce fra le persone più anziane, soprattutto: con un grado di istruzione più basso. Ma è la posizione politica a marcare le divisioni più evidenti. Gli immigrati: generano “paura” e “paure” più marcate a destra. Fra gli elettori della Lega (3 su 4), ma anche dei FdI e di FI (64 -69%). All’opposto, il senso di insicurezza scende sensibilmente a Sinistra, in primo luogo nella base del PD. Mentre l’elettorato del M5s, politicamente trasversale, è diviso a metà: fra accoglienza e paura. La paura verso gli immigrati, infine, si associa all’apertura ai diritti di figli (nati in Italia) degli immigrati. Fra chi non ha paura, il consenso allo Ius soli sale fino al 77%. Mentre fra chi ha più paura degli altri si riduce a poco più del 27%.
Per questo, non ho “paura” di dire che ieri al Senato ha vinto la “paura”. Degli altri. Perché non crediamo nella nostra capacità di integrare. Non ci fidiamo degli altri. Ma neppure di noi. Tanto meno della politica. Anche perché la politica, in Italia, oggi: è emigrata…
Repubblica 13.9.17
Ius soli, il bivio per il voto utile
di Stefano Folli
LA BANDIERA dello “Ius soli” è servita al Pd per intestarsi una battaglia morale in nome dei diritti della persona, ma le probabilità che diventasse legge dello Stato in questa legislatura sono sempre state irrisorie. Il fatto che il testo avesse avuto il “sì” della Camera è secondario. Le riserve mentali erano notevoli già a Montecitorio e si sono fatte via via più condizionanti mano mano che ci si è avvicinati alla fine della legislatura. All’interno dello stesso Pd, da parte di coloro che sventolavano il vessillo, erano chiari i limiti dell’impegno: evitare qualsiasi rischio al governo.
E così è andata. Del resto, lo “Ius soli” resta una legge molto controversa. Non solo a destra e nelle file dei Cinque Stelle, il cui comportamento opportunista è sempre più evidente: anche tra gli elettori del centrosinistra non mancano i dubbiosi e vanno rintracciati in quei settori di opinione pubblica ancora incerta sul proprio voto alle prossime elezioni. Vorrebbero sostenere il Pd, specie se potesse identificarsi fino in fondo con il ministro dell’Interno Minniti, ma potrebbero astenersi o magari scivolare verso il centrodestra, in qualche caso addirittura verso la Lega. Un tempo, quando si parlava di “partito della nazione”, era proprio a questo elettorato che Renzi guardava. Oggi che il paladino forse inconscio del “partito della nazione” sembra essere Minniti, il quale non esita a recarsi alla festa di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, dove verrà senza dubbio applaudito, lo “Ius soli” viene messo fra parentesi.
Il clima è cambiato, ma non negli ultimi giorni. Era mutato già prima dell’estate, nelle settimane concitate che hanno preparato la svolta sull’immigrazione, ora approvata anche dal Papa. Il Pd ne era del tutto consapevole e si è prestato a un certo gioco delle parti. Ha tenuto in pugno la bandiera della cittadinanza per ravvivare la propria immagine di forza di sinistra. Ma fin dall’inizio aveva messo nel conto che non ci sarebbero stati i voti sufficienti al Senato in questo scorcio finale di legislatura. Non c’è da stupirsi: alla vigilia delle elezioni tutti i partiti sono propensi alla lettura dei sondaggi più che agli atti di coraggio.
Con un po’ di malizia si può trovare un’altra ragione per spiegare la corsa a zig-zag del Pd sullo “Ius soli”. Si sta preparando il terreno per imporre il tema del “voto utile”. Vale a dire uno dei cavalli di battaglia della prossima campagna elettorale. Come accade quasi sempre, il maggiore partito del centrosinistra tenterà di convincere gli elettori della sinistra (da Mdp a SI) che l’unico modo per contrastare le destre consiste nel dare più forza al Pd. Tuttavia servono solidi argomenti per suffragare una simile tesi. Lo “Ius soli” calza a pennello. È una bandiera del Pd e non è passato in Parlamento perché il partito di Renzi non ha avuto i numeri per imporlo da solo. Di conseguenza, consolidare il partito di maggioranza significa rendere più vicino il traguardo dei diritti a cui l’opinione di sinistra è sensibile. Vedremo come andrà nei prossimi mesi, ma il campo del confronto elettorale si delinea ogni giorno di più. Quel 4-6 per cento di voti a sinistra del Pd fanno gola al Nazareno e sarebbe strano il contrario.
Nel frattempo i Cinque Stelle si trovano alle prese con un passaggio insidioso. Un tribunale civile, raccogliendo il ricorso di un ex militante grillino, ha avuto da eccepire sulla procedura (le cosiddette “regionarie”) con cui il movimento ha scelto il suo candidato alla presidenza della regione Sicilia. Nessuno crede sul serio che i Cinque Stelle, a due mesi dal voto, possano essere esclusi dalle liste di una consultazione in cui al momento sono favoriti o comunque pienamente in lizza. Se mai dovesse accadere, verrebbe offerta a Grillo la più spettacolare delle occasioni per presentarsi come la vittima del sistema. E non vi sarebbe bisogno di essere un elettore del M5S per giudicare pericolosa una tale ferita al processo democratico. I Cinque Stelle si dibattono abbastanza fra le loro contraddizioni, aggravate dall’idea di aver già vinto a Palermo e a Roma, senza che un tribunale avverta la necessità di far loro un favore.
Repubblica 13.9.17
Cittadinanza: crollano i sì dal 70 al 50% in pochi mesi
di Fabio Bordignon Alice Securo
Crescono i timori sugli immigrati e fa breccia la campagna dell’opposizione
Un crollo, nell’arco di pochi mesi. Il numero dei favorevoli alla concessione della cittadinanza italiana, ai figli di immigrati nati nel nostro paese, arrivava al 70%, lo scorso febbraio. Nell’arco di pochi mesi, tuttavia, l’orientamento dell’opinione pubblica è radicalmente mutato, e la disponibilità riguarda, oggi, poco più di un cittadino su due. È quanto emerge dalla rilevazione dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza, realizzata nei giorni scorsi.
L’apertura degli italiani, sul fronte dei diritti dei migranti, è sempre stata elevata. Ciò valeva anche nelle fasi maggiormente segnate dalla paura dello “straniero”. Valeva, a maggior ragione, nei confronti di chi straniero non è, essendo nato in Italia. Valeva: fino a pochi mesi fa. Cos’è successo, in un arco di tempo così breve? Anzitutto, è tornata la paura, come testimoniano i dati presentati in queste pagine. Soprattutto, tale cambiamento del clima d’opinione ha incrociato il dibattito parlamentare sullo ius soli. Va precisato che il quesito proposto agli intervistati non fa riferimento, in modo esplicito, al testo attualmente bloccato a Palazzo Madama. Il disegno di legge già approvato alla Camera propone, infatti, il principio dello ius soli temperato - destinato ai bambini che abbiano almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo affiancato al criterio dello ius culturae - che prevede la cittadinanza per i minori nati in Italia, o arrivati entro i 12 anni di età, che abbiano completato almeno 5 anni di percorso formativo. La pressione esercitata dalle forze di opposizione sembra avere sortito visibili effetti, sia nei confronti del Parlamento sia nei confronti dell’opinione pubblica. Al punto che il capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda, pur ribadendo l’impegno del proprio partito, ha dichiarato ieri che mancano i numeri per l’approvazione della legge. Del resto, le esitazioni dei partner di maggioranza, Alfano e Ap, sono note da tempo. E prevedibili, se si considera che l’apertura sulla cittadinanza declina vistosamente, spostandosi dagli elettori collocati a sinistra –favorevoli in oltre il 70% dei casi – a quelli che si autodichiarano di centro o di (centro-)destra. Gli elettori del M5s, su questo come su altri temi, riflettono esattamente gli orientamenti generali, dividendosi a metà nei loro giudizi. Mentre i vertici del Movimento, un tempo favorevole allo ius soli, affermano ora che “le priorità sono altre”. Difficile, in questo quadro, che si possa giungere all’approvazione finale.
Almeno, in questo Parlamento.
Il Fatto 9.13.17
“Négher” stupratori, italiani brava gente
di Luisella Costamagna
Lo stupro di Rimini, con l’arresto di due marocchini, un nigeriano e un congolese. Poi la bimba morta di malaria in un ospedale in cui erano ricoverati due bambini del Burkina Faso. Era la tempesta perfetta per far scattare il “dàgli al negro” (o al négher): sono loro, i “migranti” – come hanno titolato quotidiani non solo di destra, per evocare gli sbarchi (dagli pure alle Ong) anche per chi è nato in Italia – quelli che portano malattie e violentano.
Noi, la civilissima Italia – con oltre 6 milioni e 700 mila donne che hanno subito violenza nel corso della vita, oltre 3 milioni di vittime di stalking, una media di 11 stupri al giorno e più di 100 donne uccise ogni anno, nella maggioranza dei casi da partner o ex italianissimi – siamo assediati da barbari che portano violenza e morte.
Poi è arrivata la notizia di Firenze: due studentesse americane sarebbero state violentate da due carabinieri. Non solo italiani, ma rappresentanti dello Stato che dovrebbero proteggere. Invece avrebbero approfittato di loro in “minorata difesa” (avevano bevuto e fumato), in ascensore e sul pianerottolo. Che fare ora che il teorema del négher non torna più? A maggio, dopo lo stupro di una minorenne a Udine da parte di un richiedente asilo, risuonarono illuminate parole della presidentessa Serracchiani: “La violenza sessuale è più inaccettabile quando è compiuta da chi chiede e ottiene accoglienza”. Saviano auspicò una candidatura con Salvini. E oggi che gli stupratori potrebbero essere due appuntati italiani, che dice la saggia Debora? Nulla.
Ci pensa il compagno di partito e sindaco di Firenze Nardella a tirare le orecchie alle vittime: “È importante che gli studenti americani imparino che Firenze non è una Disneyland dello sballo”. Capito ragazze? Non è che potete venire qui, divertirvi, bere e fumare e poi passarla liscia.
Che ci facevate in giro di mercoledì alle due di notte? Perché non eravate a casa invece di andare per locali? Saranno pure carabinieri, ma sono maschi e la carne è debole. E dopo la figuraccia il Comune ha deciso di costituirsi parte civile nel processo contro i due.
Oltre alla politica, anche l’informazione sbarella: in alcuni quotidiani e tg la notizia scompare, in altri è ridotta a trafiletto o “macchia” e si riporta soprattutto la versione di un accusato: “Era sobria e consenziente”, “mi sono fatto trascinare”, “è lei che mi ha invitato a salire”… Con dichiarazioni struggenti dell’avvocato: “Da donna gli credo, ha pianto”. Chissà come se la ridono le due ragazze, sballate, poco di buono e pure a caccia di soldi, essendo assicurate anche contro lo stupro.
Per il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette “Se fosse vero, sarebbe indegno”. Poi, fortunatamente, ha tolto il condizionale. Perché, oltre alle responsabilità che ora vengono fuori (lo stop al bar della discoteca, l’uso dell’auto di servizio per accompagnarle, il silenzio con la centrale…), è indegno che carabinieri in divisa e in servizio si comportino così con due ragazze. Anche senza violenza, anche sobrie, anche se gli si fossero gettate addosso. Punto.
Per ridare credibilità e autorevolezza alle forze dell’ordine speriamo che Arma e governo seguano davvero la linea dura promessa. Per ridare credibilità e autorevolezza all’informazione, invece… sigh.
Corriere 13.9.17
La legge sulla cittadinanza via dal calendario a settembre. Soddisfatta Ap. La Lega: vittoria
Ius soli, la resa del Pd in Parlamento Zanda: non abbiamo la maggioranza
di Alessandro Trocino
ROMA «Le leggi hanno bisogno di una maggioranza e in questo momento non c’è». Se non è un de profundis , ci va vicino. Perché le dichiarazioni del capogruppo dei senatori del Pd Luigi Zanda arrivano contemporaneamente alla «sparizione» della legge sullo ius soli dal calendario di settembre dei lavori d’Aula. Sparizione accolta con rabbia dalla sinistra e da Mdp e con entusiasmo dalla Lega. Ma c’è da registrare soprattutto la soddisfazione di Ap, a lungo in imbarazzo per una legge considerata «inopportuna».
Il Pd insiste nel valorizzare l’importanza della legge. Zanda spiega che l’approvazione del ddl, che consentirebbe ai bambini nati in Italia di avere la cittadinanza, «rimane un obiettivo prioritario ed essenziale del Pd». Con il non trascurabile particolare dell’assenza di una maggioranza in Senato. «Non va bene portare il provvedimento in Aula e poi non farlo approvare». E quindi? E quindi, spiega la ministra per i Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro, «sarà importante lavorare nelle prossime settimane affinché si riesca non solo a calendarizzarlo, ma anche a creare le condizioni politiche per approvarlo».
Condizioni che, a sentire Maurizio Lupi, presidente dei deputati di Ap, partner di governo del Pd, attualmente non ci sono: «Sullo ius soli il premier, dimostrando grande senso di responsabilità, ha ascoltato la nostra richiesta e ha giudicato inopportuna la richiesta di un voto di fiducia su una questione così delicata e divisiva e non certamente prioritaria rispetto ad altre decisioni urgenti per il Paese». Una «vittoria del buon senso», dice Lupi.
Non condivide, naturalmente, Roberto Speranza, coordinatore nazionale di Mdp-Articolo 1: «Così si nega la cittadinanza a 800 mila ragazzi italiani. È una resa culturale inaccettabile e un cedimento alla destra». Non solo. Sinistra italiana si era detta favorevole a una «fiducia di scopo», pur di approvarlo, disponibilità ribadita dalla senatrice Loredana De Petris.
Renato Brunetta non si mostra invece scontento, attaccando «l’annuncite» di Renzi, che «si scontra con la realtà». Maurizio Gasparri si augura che «questo provvedimento in Aula non ci arrivi mai». La Lega esulta: «Legge affossata». Roberto Calderoli dice che «per fortuna lo ius soli è sparito dai radar. Il Pd si rassegni, non solo non c’è una maggioranza di favorevoli al Senato, ma neanche nel Paese». E Matteo Salvini: «Niente legge sullo ius soli in Senato a settembre, una vittoria della Lega e del buon senso. La cittadinanza non si regala».
E i 5 Stelle? Dopo essersi espressi in maniera contrastante, contestando «il pastrocchio» e astenendosi (con l’opposizione isolata di Roberto Fico, che è invece favorevole a una sua approvazione), ora trova una nuova variante. Con il capogruppo al Senato Enrico Cappelletti, che spiega: «Per noi la riforma è così importante che dovrebbe passare attraverso una valutazione dei cittadini tramite referendum».
E nel Pd, se l’europarlamentare Cécile Kyenge parla di «sconfitta e delusione», il ministro della Giustizia Andrea Orlando avverte: «Se serve qualche giorno in più per portare a casa un risultato così importante non credo che questo debba far dire che si è abbandonato l’obiettivo».
il manifesto 13.9.17
Senza Ius soli democrazia più povera
di Luigi Manconi
Solo un ottimismo irresponsabilmente giulivo e una buona volontà tanto ilare da farsi velleitarismo, possono indurre, ancora, a ritenere che la legge sullo ius soli venga approvata in questa legislatura. Nella più favorevole delle ipotesi, l’aula del Senato potrebbe esaminare quel testo nelle prime settimane di ottobre: ma – come ha appena detto Emanuele Fiano, capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali – non ci sono i numeri. Il che, nella sfera politica e nel dibattito pubblico, vuol dire una cosa semplice, variamente argomentabile ma dall’esito univoco: siamo minoranza e non siamo stati capaci di ottenere un maggior numero di consensi.
Sia chiaro: oggi il tema è a dir poco incandescente. Ma, se ad appiccare il fuoco e ad attizzarlo è la destra, sarebbe finalmente ora che la sinistra si domandasse seriamente perché tutto ciò sia accaduto; e se, quindi, un atteggiamento corrivo, spesso tronfio nelle declamazioni ma inerte nei programmi e nelle politiche, non abbia favorito – o non adeguatamente contrastato – lo spostamento di una parte dell’opinione pubblica su posizioni di ostilità verso la riforma della cittadinanza.
In altre parole, è plausibile che la sinistra si sia affidata troppo alla retorica di categorie come solidarietà e fraternità: e abbia utilizzato troppo poco strumenti propri dell’economia e della demografia.
Ovvero, i soli che possono consentire una gestione intelligente dei flussi migratori, sostenuta da progetti di accoglienza capaci di garantire la convivenza pacifica tra residenti e nuovi arrivati; e un’integrazione lungimirante che sappia tutelare, allo stesso tempo, la sicurezza delle popolazioni locali più vulnerabili e quella di migranti e profughi, esuli e fuggiaschi, tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia.
Un’impresa enorme, dall’esito tutt’altro che scontato e che comporterà fatiche e sofferenze. Ma che – ecco il punto – non ha alternative.
Questo è il vero terreno politico, ed è stato disertato da anni. Si pensi a come questa assenza della politica abbia comportato implicazioni profonde nella mentalità diffusa e nel senso comune.
Un quarto di secolo fa, la frase «non sono razzista ma» aveva tra i molti significati uno particolarmente rivelatore: registrava, cioè, l’indebolirsi del tabù del razzismo non più sottoposto, con l’acutizzarsi dei conflitti, a quell’interdizione morale e politica che rendeva il concetto di superiorità gerarchica di una razza qualcosa di sommamente riprovevole, osceno da portare in società e messo ai margini della discussione pubblica.
E, tuttavia, quelle stesse parole già introducevano delle deroghe al rifiuto assoluto del razzismo nelle società democratiche. «Non sono razzista (ho addirittura molti amici di colore), ma qui i romeni sono troppi».
Oggi, in quella frase, c’è ancora tutto questo, portato all’esasperazione e a una sorta di parossismo paranoide.
Ma c’è qualcos’altro, persino più significativo e drammatico. C’è anche un grido d’aiuto e una richiesta di soccorso: aiutatemi a non diventare razzista. Fate in modo che la mia inquietudine nei confronti di un altro – diverso e ignoto – non si traduca in intolleranza, aggressività, violenza.
È, in quello spazio tra l’ansia collettiva verso lo straniero (xenofobia) e la volontà di sopraffazione nei suoi confronti (razzismo) che avrebbe dovuto agire, sin dalla fine degli anni Ottanta, la politica. Così non è stato.
E, nell’autunno del 2017, siamo ancora alle prese con una legge sulla cittadinanza che risale al 1992. E rischiamo di dovercela trascinare ancora per i prossimi anni. E se pure fosse vero che «non ci sono i numeri», quella mobilitazione politica che non è stata attivata finora, andrebbe intrapresa con la massima urgenza e determinazione.
Il che vorrebbe dire, ad esempio, che al Senato la battaglia dovrebbe esser condotta fin da subito.
Sono convinto che queste non siano astrazioni, bensì il loro esatto contrario e c’è un piccolo esempio che è lì a dimostrarlo.
Da qualche giorno, alcuni intellettuali hanno promosso un testo indirizzato al Presidente della Repubblica e ai presidenti di Senato e Camera, nel quale si chiede l’immediata discussione della legge sullo Ius soli.
Fra loro, tre degli studiosi più schivi che il nostro Paese conosca: Ginevra Bompiani, Goffedo Fofi e Carlo Ginzburg. Persone il cui valore intellettuale è accompagnato dalla più scabra sobrietà e dal più severo stile di vita; e che hanno intrattenuto, nel tempo, un rapporto di equilibrato interesse per la politica verso la quale hanno sempre mantenuto una giusta distanza e un prudente sospetto.
Se oggi hanno deciso di esporsi su un piano che può apparire impopolare (ma già in migliaia hanno sottoscritto il loro testo) è perché credono che questo tema possa sfuggire alle dinamiche della politica politicante, pena il restarne vittima. E perché, soprattutto, hanno compreso che in gioco non c’è un obiettivo politico-programmatico tra i molti, bensì la qualità della nostra democrazia e del nostro ordinamento giuridico.
Corriere 13.9.17
Cuperlo: questo impegno non può essere archiviato Le alleanze vanno riviste
di Marco Galluzzo
ROMA «Mi auguro che la legge non sia veramente archiviata, e che il Partito democratico abbia il coraggio e la determinazione di andare avanti. A chi dice che i numeri non ci sono, io dico costruiamo le condizioni e andiamoli a trovare: questa è una delle leggi che, se ci sarà, darà il segno della legislatura».
Gianni Cuperlo è un deputato, è perfettamente consapevole che a Palazzo Madama la maggioranza è ballerina, che il capogruppo Luigi Zanda ha dovuto prendere atto con rammarico dello stop allo ius soli. Eppure resta convinto che la partita non sia chiusa.
Perché?
«È una di quelle leggi che risponde a un impegno della legislatura, che ci siamo assunti di fronte a quasi un milione di ragazzi che l’attendono. È una legge di civiltà ed è utile per il nostro Paese, soprattutto per il passaggio storico che stiamo attraversando».
Il partito di Alfano e le destre non la pensano così.
«Capisco che ognuno faccia i suoi calcoli elettorali, ma l’obiezione che trovo più fragile e contraddittoria è quella di una destra che ha paura del provvedimento alimentando un clima di maggiore pericolo per il Paese. È esattamente l’opposto, è un testo che va nella direzione di far sentire parte di una comunità centinaia di migliaia di persone che nel Paese sono cresciute, hanno studiato, si sono diplomate».
Per una legge ci vogliono i numeri, dice Zanda: è una presa d’atto?
«Non sono al Senato, non so valutare. Ma voglio pensare che questo ritardo serva a creare le condizioni per trovare i numeri. Il partito di Alfano ha già votato questo testo alla Camera, ed è un testo che fa parte dell’identità di un partito, a questo punto il dato dovrebbe far riflettere per le future alleanze. La legislatura sul tema dei diritti civili ha fatto enormi passi avanti, è necessario completare un mosaico, non vedo alternativa».
Perché con lo ius soli ci dovrebbe essere più sicurezza?
«Perché parliamo di inclusione sociale, è una cosa che serve all’Italia per diventare un Paese più maturo. Anche la storia dell’Europa ci dice questo: nasce come contaminazione, e quando ha scelto la strada dei muri, del Continente fortezza, è andata incontro a drammi e tragedie. Credo che il Pd debba essere molto fermo, ci sono delle cose che sono giuste in sé al di là del consenso e io sono convinto che, se ci mostreremo compatti, alla fine la bontà della riforma verrà confermata».
il manifesto 13.9.17
Arrestato l’avvocato dei Regeni. Ma Gentiloni insiste sulla linea «morbida»
di Eleonora Martini
È stato arrestato dalla polizia egiziana, l’avvocato Ibrahim Metwaly Hegazy, collaboratore dei legali della famiglia di Giulio Regeni, scomparso domenica scorsa nell’aeroporto internazionale del Cairo mentre si accingeva a prendere l’aereo per Ginevra dove era atteso dal Gruppo di lavoro sulle sparizioni forzate dell’Onu.
Mentre il ministero dell’Interno egiziano si trincerava dietro i «no comment» e «nessuna informazione» sul caso, la Commissione egiziana per i diritti e la libertà (Ercf) ha fatto sapere che dopo tante ricerche l’avvocato Hegazy è stato rintracciato perché è comparso davanti a un magistrato di sicurezza del Cairo in stato di arresto.
Al momento di andare in stampa non abbiamo informazioni su quali siano le accuse formali anche se le autorità egiziane avevano già oscurato il sito dell’Ercf dove l’ong aveva pubblicato l’ultimo rapporto sulle sparizioni forzate in Egitto, considerato dal governo di Al Sisi «pieno di calunnie». L’avvocato Hegazy, il cui figlio era scomparso nel 2013, era stato inviato a Ginevra dall’Ercf per parlare dell’omicidio di Giulio Regeni e dei tanti desaparecidos egiziani.
Eppure il presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni sembra non essersi accorto di nulla, visto che, ascoltato ieri per due ore dal Copasir, ha solo ripetuto: «La ricerca della verità sulla morte di Regeni è un dovere di Stato», giustificando ancora l’invio dell’ambasciatore italiano Cantini al Cairo come un’azione che «aiuta la ricerca della verità».
Una posizione ben condivisa dal presidente del Copasir, Giacomo Stucchi (Lega), che cerca di spostare l’attenzione sulle «valutazioni» da fare «anche sull’Università di Cambridge».
L’ambasciatore Cantini, che si prepara ad insediarsi domani al Cairo, è stato ricevuto ieri dal presidente del Senato, Pietro Grasso, con tanto di raccomandazioni sulla « delicatezza del compito che gli è stato assegnato». L’agenda degli interessi comuni ai due Paesi comunque la redigerà domani il ministro Alfano che incontrerà il suo collega egiziano Sameh Shoukry a Londra, a margine di una riunione ministeriale sulla Libia.
Il Fatto 13.9.17
In 100.000 con Milena. Le firme per un’altra Rai
Su Change.org - Moltissime adesioni all’appello rivolto dal “Fatto” per l’azienda: dare alla Gabanelli ciò che le era stato promesso, la gestione delle news online
La Gabanelli si è autosospesa dalla Rai dopo aver rifiutato la condirezione di Rainews
di Lorenzo Giarelli
In soli tre giorni la petizione a favore di Milena Gabanelli ha già raggiunto quota 100.000 firme. L’idea era stata lanciata sulle colonne del Fatto Quotidiano da Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio e in poche ore la sottoscrizione, a cui si può aderire dal sito ilfattoquotidiano.it o direttamente su change.org, aveva già mosso migliaia di commenti in sostegno della giornalista.
La vicenda è ormai chiara: Milena Gabanelli si è autosospesa dalla Rai (aspettativa non retribuita), dopo che il nuovo direttore generale Mario Orfeo, mentre avallava contratti milionari a giornalisti diventati all’improvviso “artisti”, le aveva offerto la condirezione di Rainews, la struttura che gestisce il canale all-news della Rai e un anonimo portale online su cui nessuno ha mai puntato. Niente a che vedere con la proposta a cui la Gabanelli stava già lavorando prima che l’ex direttore generale Antonio Campo Dall’Orto venisse a sua volta allontanato dalla Rai, sfiduciato dal Consiglio d’amministrazione. Secondo l’accordo, la Gabanelli avrebbe dovuto dirigere una testata tutta nuova, con la possibilità di gestire un centinaio di giornalisti e un team di grafici all’altezza di competere con gli altri grandi player dell’informazione. Risorse e fiducia che sono venute meno con l’offerta di Orfeo.
Milena Gabanelli è stata messa nelle condizioni di non avere scelta. Con l’autosospensione ha rinunciato allo stipendio, mentre il servizio pubblico ha di fatto deciso di rinunciare a un pezzo prezioso della propria offerta.
“Siccome noi cittadini siamo i veri proprietari della Rai – si legge nell’appello a margine della petizione, firmato da Gomez, Padellaro e Travaglio – vogliamo rompere questo muro di silenzio e di assuefazione, rivendicare il nostro diritto a un’informazione pubblica libera e indipendente (soprattutto nell’anno delle elezioni) e smascherare il giochino di chi tenta di ridurre questo ennesimo scandalo a normale routine burocratica, contrattuale o caratteriale. Perciò lo diciamo forte e chiaro: noi stiamo con Milena Gabanelli e la rivogliamo subito in televisione”. Tra le tante adesioni ci sono anche quelle di alcuni colleghi della Gabanelli. È il caso, per esempio, di Lucia Annunziata, direttrice di Huffington Post e storica conduttrice di In Mezz’ora su Rai3, che ha annunciato la propria solidarietà alla giornalista: “Nel Regno Unito la Bbc
online è una delle prime cinque fonti di informazione, non si capisce perché la Rai non debba ambire a occupare la stessa posizione in Italia. Chi meglio di Milena per farlo?”.
Solidarietà alla Gabanelli anche da parte di Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega, che ha aderito all’appello: “Sarebbe bello che tutti i quotidiani e le testate che hanno a cuore la Rai come servizio pubblico aderissero senza gelosie”.
Ci sono poi le voci dei comuni cittadini, la gran parte di quei 100.000 che continuano a lasciare commenti a margine della propria firma per la campagna. Filippo Amato scrive: “Firmo perché Milena Gabanelli, assieme a Riccardo Iacona e pochi altri, rappresenta perfettamente ciò che un giornalista dovrebbe essere. La sua presenza in Rai è doverosa per gli scopi di informazione, educazione e sviluppo del senso critico della popolazione”. Gli fa eco Giulio Antilici: “Firmo perché pagando il canone, controvoglia, pretendo che una professionista valida come la Gabanelli resti in Rai per continuare l’eccellente lavoro svolto in questi anni”.
Noi stiamo con Milena e siamo sempre di più.
di Lorenzo Giarelli
Repubblica 13.9.17
Ecco perché i telefonini faranno sparire anche i docenti
di Marco Lodoli
BISOGNA essere assolutamente moderni, diceva Rimbaud, e dunque non dovremmo mai temere le novità, non dovremmo farci prendere dalla nostalgia per il tempi andati, perché la vita è comunque rognosa e nessuna epoca è mai stata rose e fiori. Dovremmo cedere serenamente alle nuove tecnologie, perché ogni forma di resistenza sembrerebbe solo polverosa, passatista, conservatrice: e nonostante mi ripeta tutto questo, faccio una certa fatica a immaginare una classe con trenta ragazzi che con il ditino frenetico lavorano sul loro smartphone, cercando poesie, formule matematiche, immagini artistiche, vicende storiche e ogni luminosa schermata dello scibile umano. In realtà, se dobbiamo essere assolutamente sinceri, molti studenti già sono incantati da quel bagliore ipnotico. Tengono il loro smartphone sulle ginocchia, tra le pagine del libro, nella manica del maglione, proprio non riescono a spegnerlo neppure per mezz’ora. Sta lì, acceso, come una possibilità sempre aperta, come un ponticello teso verso l’universo, come una bellissima distrazione. Il professore parla, spiega roba morta e sepolta, scrive con l’antichissimo gessetto sull’antidiluviana lavagna, ma i suoi studenti sono altrove, proiettati attraverso le loro seducenti finestrelle verso mondi lontanissimi, miliardi di volte più interessanti delle povere ciance che arrivano dalla cattedra tarlata. Ora bisognerebbe fare il passo definitivo. Abolire i libri, carta malinconica, pronta a ingiallire, faticosa da portare sulla schiena, e sostituire queste anticaglie con la leggerezza e la rapidità e la modernità dello smartphone. Ricordo quando dieci anni fa una mia studentessa, con una smorfia di disgusto in faccia, mi disse: “Prof, i libri sono vecchi”, e non intendeva sputare sui contenuti dei libri, ma proprio su loro, su quei mucchi di fogli rilegati. E ormai ci siamo. Anche il ministro è d’accordo a staccare la spina, a finirla con l’accanimento terapeutico, a introdurre una pietosa eutanasia: il libro agonizza, lo smartphone riluce trionfante; il libro è un reperto, un coccio etrusco, un capitello scheggiato dai secoli, lo smartphone è fico, è una fontana che zampilla immagini, suoni, parole. Ma mi si stringe il cuore a pensare a una classe senza libri, senza la quiete profonda che deriva dalla lettura, senza il fruscio delle pagine girate. Temo che il passo seguente sarà l’accantonamento degli insegnanti: si premerà un tasto e apparirà un prof virtuale che reciterà la sua splendida lezione su Dante o sull’area del trapezio. E forse poi non serviranno più nemmeno gli studenti, basterà che lascino sul banco il loro smartphone acceso e collegato.
Repubblica 13.9.17
E Corbyn l’equilibrista si riavvicina alla Ue
di Enrico Franceschini
IL CASO. IL LEADER LABURISTA BRITANNICO DAL SÌ ALLA BREXIT ALLA NUOVA CONSEGNA: “VOGLIAMO IL PIENO ACCESSO AL MERCATO COMUNE”
UN PASSO alla volta, Jeremy Corbyn si avvicina all’Europa. «Restare nel mercato comune deve essere oggetto di negoziati » con Bruxelles, ha detto ieri il leader laburista, con un’ulteriore modifica della sua posizione. Aveva sempre sostenuto che bisogna «accettare la Brexit», perché questa è stata il risultato del referendum dello scorso anno sull’Unione Europea. Quindi ha ipotizzato che la Gran Bretagna rimanga in qualche modo nell’unione doganale, quella al cui interno non si pagano dazi per l’import-export, il “modello Turchia”. Poi ha parlato della possibilità che, per un periodo di transizione di qualche anno, al termine della trattativa di “divorzio” dalla Ue, ovvero a partire dal marzo 2019, il Regno Unito resti parte del mercato comune, accettando dunque la libera circolazione di merci e di persone, il “modello Norvegia”. Infine, ora, sembra pronto a considerare che la permanenza nel mercato comune sia a tempo indeterminato.
Parlando al congresso annuale dei sindacati britannici, e in una serie di interviste di contorno con la Bbc e altri media inglesi, Corbyn ha dichiarato: «Il Labour rispetta il risultato del referendum. Ma vogliamo una Brexit che garantisca i nostri posti di lavoro attraverso un pieno accesso al mercato comune europeo». E ha aggiunto: «Vogliamo un rapporto che ci consenta di commerciare con la Ue. Se questo debba avvenire attraverso una piena appartenenza al mercato comune o attraverso nuovi accordi, sarà oggetto di negoziati. Per noi il risultato è più importante del metodo per arrivarci». L’impressione è che Corbyn voglia per così dire passare il Rubicone, o restringere la Manica, tenendo comunque Londra stretta all’Ue.
Ma è una lunga marcia ancora piena di ombre. Un suo portavoce nega che il leader e il partito abbiano cambiato davvero posizione: «La permanenza nel mercato comune sarebbe solo temporanea ». Tuttavia Tom Watson, vice capo del Labour, afferma l’esatto contrario: «Ci resteremo per sempre». Di certo c’è che Corbyn è passato da un sì alla Brexit a un sì alla “soft Brexit” a un forse sì a una Brexit così soft da apparire poco diversa da un no. Posizione difficile, come riflette una vignetta del Times, che lo ritrae a quattro zampe, in precario equilibrio, nel tentativo di accontentare tutti. Il suo obiettivo, in realtà, appare chiaro. Non perdere gli elettori laburisti che hanno votato per la Brexit in nome di un disagio economico e culturale davanti a globalizzazione, de-industrializzazione e immigrazione; ma tenere con sé anche i laburisti che hanno votato no alla Brexit. Ai primi promette la difesa dei posti di lavoro, se necessario attraverso il compromesso del mercato comune (che comporta però la libertà di immigrazione).
Ed è convinto che i secondi, quando si tornerà alle urne (in teoria fra 5 anni, ma non è escluso prima se Theresa May verrà disarcionata dal proprio partito) voteranno comunque per lui piuttosto che per i conservatori. Non è detto che, se la situazione economia peggiora ulteriormente, Corbyn finirà per seguire l’esortazione di Tony Blair, chiedendo un secondo referendum sull’uscita dalla Ue (o sugli accordi per uscirne), schierandosi per restarci dentro. Intanto, sullo sfondo, i sindacati minacciano scioperi a oltranza, anche illegali (cioè senza il sostegno di oltre il 50% dei lavoratori, come richiede la legge britannica). Se questo paese è avviato a un “inverno dello scontento”, in primavera la Brexit potrebbe cominciare a franare.
il manifesto 9.13.17
Norvegia: l’alleanza anti immigrati funziona: governo confermato
Norvegia. Il voto conferma il governo, 27% ai socialdemocratici Verdi e sinistra al 3,2 e al 2,4%
di Guido Caldiron
Chi ha detto che il potere logora i populisti? Al contrario, dalle urne norvegesi esce rafforzata l’alleanza tra i conservatori e la nuova destra anti-immigrati che quattro anni fa aveva cacciato i socialdemocratici dal governo e che oggi confermano la propria crisi realizzando il secondo risultato peggiore dal 1924.
LE DUE LEADER DELLA DESTRA locale, la premier Erna Solberg alla testa del Partito conservatore e dell’esecutivo di Oslo, e la sua alleata Siv Jensen, attuale ministra delle finanze e che guida il Fremskrittpartiet, il Partito del progresso schierato su posizioni xenofobe e identitarie, hanno festeggiato il risultato delle elezioni politiche che hanno visto riconfermato il consenso nei confronti del governo. Attestandosi rispettivamente intorno al 25,1 % e al 15,3 %, i loro partiti crescono, anche se di poco, rispetto alle precedenti consultazioni, mentre i socialdemocratici perdono oltre 3 punti e mezzo attestandosi intorno al 27%.
AL DI LÀ DEI NUMERI è però la formula politica inaugurata nel 2013, e a cui molti osservatori avevano in realtà pronosticato vita breve, ad uscire rafforzata dal voto. Malgrado gli esponenti della destra plurale abbiano vantato durante la campagna elettorale la propria capacità nell’aver fatto attraversare bene al paese le due maggiori crisi degli ultimi decenni: quella dei rifugiati, gestita attraverso un drastico peggioramento della politica migratoria nazionale e la chiusura delle frontiere e quello che è stato presentato come «il più grande choc petrolifero degli ultimi trent’anni», che per l’economia della Norvegia, primo produttore di greggio in Europa, è stato contenuto grazie ad una serie di agevolazioni fiscali, a spiegare l’esito del voto sono però altri fattori.
SE LA POSSIBILITÀ di un’alternanza di governo con la sinistra è stata minata prima di tutto dagli errori compiuti dalle incertezze politiche mostrate dai socialdemocratici, mentre la stessa figura del loro leader, l’ex capo della diplomazia norvegese Jonas Gahr Store ha richiamato l’attenzione degli elettori più per la sua denuncia dei redditi milionaria, oltre 64 milioni di corone, 7 milioni di euro, che per le proposte avanzate, il successo politico più marcato sembra raccoglierlo la nuova destra. Si è avuto l’impressione che a dettare i tempi della campagna elettorale sia stata l’astro montante del Partito del progresso, la giovane e aggressiva ministra dell’Immigrazione Sylvi Listhaug che nelle ultime settimane ha attraversato il paese soffiando sull’inquietudine di una parte della popolazione che – malgrado il tasso di disoccupazione locale superi di poco il 4% – attribuisce incertezza e preoccupazioni alla presenza degli stranieri.
ALLA VIGILIA DEL VOTO, il tour di Listhaug ha fatto tappa addirittura a Rinkeby nella periferia di Stoccolma, dove al pari dei quartieri popolari di Malmö si sono registrati negli scorsi anni degli incidenti in stile banlieue, per «imparare dagli errori della Svezia ed evitare che si ripetano a casa nostra». 39 anni, figlia di agricoltori, originaria dell’ovest del paese, sostenitrice dei valori della «vera cristianità», si presenta sempre con un una grande croce al collo, in opposizione alla linea improntata all’accoglienza della Chiesa ufficiale, fan di Thatcher e Reagan e del negazionismo climatico di Trump, la ministra dell’immigrazione è diventata ospite fisso dei tabloid popolari e delle trasmissioni tv più seguite anche grazie a sparate velenose: ha invitato i suoi compatrioti a denunciare chi possiede un permesso di soggiorno e si è presa un periodo di vacanze all’estero, ha accusato il capo dei cristiano-democratici di coprire gli imam radicali con la scusa della protezione religiosa e non perde occasione per denunciare «i pericoli e la decadenza della cultura permissiva della sinistra».
«In molti erano convinti che arrivando al governo, il Partito del progresso avrebbe perso consensi, ma grazie a questo attivismo provocatorio ha mantenuto forza e ha almeno in parte fatto vincere il governo», spiega il politologo Anders Ravik Jupskas. Quanto ai partiti minori, i centristi hanno raggiunto il 10%, mentre Verdi e estrema sinistra si sono fermati al 3,2 e al 2,4%.
il manifesto 9.13.17
Forze di pace in Ucraina. Merkel appoggia Putin
Ucraina. Se la missione funziona Berlino è pronta a rivedere le sanzioni contro Mosca e a invitare gli Usa a fare lo stesso
di Yurii Colombo
MOSCA La missione dell’Onu che monitora la situazione in Ucraina, ieri ha informato che dall’inizio dell’anno sono morti 41 civili nella guerra a bassa intensità che si combatte nel Donbass tra le truppe dell’esercito ucraino e quelle delle repubbliche ribelli indipendentiste. I soldati rimasti uccisi si contano invece a centinaia, malgrado formalmente da più di un anno nella regione viga il cessate il fuoco.
TUTTAVIA IN QUESTE ORE qualcosa si sta muovendo per arrivare alla pace. Qualche giorno fa Putin aveva lanciato dalla Cina la proposta di una risoluzione Onu che preveda il dislocamento di una forza di pace al confine del Donbass, un corpo di interposizione per rendere più agevole l’opera della missione Ocse già attiva sul territorio. La proposta sembrava essere caduta nel vuoto dopo che il presidente ucraino Poroshenko aveva replicato di essere favorevole all’idea, a condizione che le truppe fossero dislocate anche nel Donbass controllato dai «ribelli». Poroshenko aveva inoltre chiesto che la Russia, in quanto « paese aggressore» non partecipasse alla missione.
UNA CONTROPROPOSTA indigeribile dal Cremlino. A smuovere le acque poi è arrivato l’inatteso apprezzamento della Germania per l’iniziativa russa. E Putin ha preso subito la palla al balzo per telefonare l’altro ieri a Merkel. La cancelliera ha confermato l’interesse per la risoluzione russa a condizione che la missione possa agire anche nel Donbass, come chiede Kiev. Putin, a sorpresa, come ha informato in una nota il ministero degli esteri si è dichiarato disponibile a emendare in quel senso la risoluzione: «A conclusione del colloquio con Angela Merkel il leader russo si è dichiarato disponibile a emendare la risoluzione russa…cioè ad assicurare che la missione di pace possa condurre viaggi e ispezioni in entrambe le linee del fronte».
A rendere ancora più significativo il rinnovato dialogo tra Berlino e Mosca ci ha pensato il ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel, il quale poche ore dopo la telefonata tra i due leader europei, ha dichiarato al Handelsblatt di Dusseldorf che in caso di via libera Onu alla missione e di «tenuta» del cessate il fuoco «verranno tolte le sanzioni». Gabriel si è dichiarato convinto che «anche gli Usa a quel punto inizieranno a levare qualche sanzione».
QUALE SARÀ LA POSIZIONE americana lo si saprà nei prossimi giorni, per ora è sicuro invece che Kiev è stata presa in contropiede dalla mossa di Putin. Pavel Klimkin, ministro degli esteri ucraino ha reagito scompostamente alle parole del capo della diplomazia tedesca richiamando «Gabriel a non flirtrare con la Russia» e sostenendo che le «sanzioni dovranno essere cancellate solo quando gli accordi di Minsk saranno adempiuti completamente».
Resterebbe aperta la questione della partecipazione russa alla missione, a cui gli ucraini si oppongono. Tuttavia anche su questo terreno Mosca sarebbe disposta a cedere. «A patto che partecipino paesi alleati come la Bielorussia o l’Armenia» si precisa al Cremlino. Una cosa è certa: la Germania non vede l’ora di riprendere a commerciare a pieno ritmo con la Russia. Prima dell’introduzione delle sanzioni l’interscambio annuo tra i due paesi superava i 100 miliardi di dollari.
E oltre 6.000 aziende tedesche – dal settore automobilistico a quello chimico – hanno filiali o unità produttive in Russia. Un patrimonio che a Belino non vogliono disperdere.
il manifesto 9.13.17
La diplomazia segreta scrive le nuove alleanze in Medio Oriente
Medio Oriente. Si rafforza l'alleanza dietro le quinte tra Israele e Arabia saudita. Nei giorni scorsi un principe saudita, forse l'erede al trono Mohammed bin Salman, avrebbe segretamente visitato lo Stato ebraico. Profumo d'intesa anche tra gli ex nemici Hamas ed Egitto.
Re Salman dell'Arabia saudita assieme al figlio e principe ereditario Mohammed
di Michele Giorgio
In Medio oriente si fanno due i tipi di diplomazia. Una alla luce del sole e un’altra dietro le quinte. Nulla di nuovo in effetti ma non è mai stato tanto evidente come in questo momento in cui si apprende di Paesi nemici a parole e alleati negli stessi obiettivi. Il caso di Israele e Arabia saudita fa scuola.
Un paio di giorni fa è girata la notizia che l’erede al trono saudita, il potente principe Mohammed bin Salman, avrebbe visitato Israele in segreto per discutere di strategie comuni in Siria e nei confronti del “nemico” Iran. A riferire per primo l’indiscrezione, mai confermata ufficialmente, è stato Simon Aran di Radio Israele. Aran non è andato oltre un non meglio precisato «principe saudita è giunto in Israele» mentre i media arabi hanno chiamato in causa proprio Mohammed bin Salman. Immediata è partita la condanna della visita da parte dei giornali legati al Qatar, pronti ad inserire l’indiscrezione nella crisi lacerante, cominciata tre mesi fa, tra Doha e Riyadh. Dall’Arabia saudita ha replicato il giornale Elaph che ha smentito tutto aggiungendo che, in realtà, è stato un principe qatariota e non saudita a trascorrere due giorni a Tel Aviv.
Comunque sia andata, la settimana scorsa il premier israeliano Netanyahu non ha certo sottolineato senza motivo che i rapporti attuali con gli Stati arabi «sono i migliori di sempre nella storia di Israele» anche senza la pace con i palestinesi. «Ciò che sta accadendo con loro – ha detto Netanyahu durante una riunione al ministero degli esteri – non è mai avvenuto neppure quando abbiamo firmato accordi. C’è cooperazione in vari modi e a vari livelli, anche se ancora tutto non è palese». Da parte sua Aran ha ricordato che quasi venti anni fa «c’erano rappresentanti arabi in Israele, tra cui l’ambasciatore della Mauritania e rappresentanti del Qatar, della Tunisia, del Marocco e dell’Oman» e che «un diplomatico israeliano era stato inviato a Doha». Ma quella era la «pace di Oslo» in cui israeliani e palestinesi negoziavano un accordo “finale”, che non è mai arrivato, mentre oggi il governo più a destra della storia di Israele raccoglie a piene mani consensi da Paesi arabi con i quali tecnicamente sarebbe ancora «in guerra».
In questo vortice in cui i nemici di un tempo ora si scoprono alleati, si sviluppa il rapporto tra il movimento islamico Hamas e il regime egiziano di Abdel Fattah el Sisi. Il Cairo è in guerra con i Fratelli musulmani, denunciati come una «organizzazione terroristica». E «terroristi» per gli egiziani fino a qualche tempo fa erano pure i Fratelli musulmani in Palestina, ossia Hamas, accusato di contribuire alla destabilizzazione del Sinai, mantenendo rapporti «ambigui» con le cellule armate filo-Isis che operano nella penisola. Con una svolta a 180 gradi el Sisi ora intavola trattative con Hamas che, da parte sua, ha spedito al Cairo il suo leader Ismail Haniyeh e gran parte della sua direzione politica per continuare il dialogo. La ragione dietro questa svolta sarebbe la necessità per il Cairo di cooptare Hamas nella «lotta al terrorismo» e di migliorare le condizioni di vita a Gaza. In realtà gli egiziani puntano a scaricare il presidente dell’Anp, Abu Mazen, “ostacolo” per la realizzazione di un piano volto a portare al comando il loro uomo, il “reietto” Mohammed Dahlan, con l’appoggio di un Hamas addomesticato e pronto a cooperare alla sicurezza del Sinai.
Sebbene si svolga alla luce del sole invece non riceve sempre la dovuta attenzione la diplomazia russa che pure si sta confermando il perno sul quale ruotano le soluzioni per i focolai di crisi in Medio Oriente. La visita del ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, domenica scorsa a Gedda e il suo viaggio due giorni fa ad Amman – a poche settimane dal precedente tour in Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Qatar – hanno rafforzato ulteriormente la posizione di Mosca nella regione. Lavrov in Arabia saudita ha affrontato il tema delle “zone di sicurezza” in Siria, frutto dell’accordo tra Mosca, Ankara e Teheran sottoscritto a maggio ad Astana, precisando che le aree «non saranno utilizzate per dividere il paese in enclavi». Poi ha sottolineato che la Russia «sostiene attivamente» gli sforzi dell’Arabia Saudita di riunire i gruppi siriani di opposizione per rendere «più efficaci i colloqui» con i rappresentanti del governo di Damasco. Da parte sua il ministro degli esteri saudita Adel al Jubeir ha espresso soddisfazione per la posizione russa “neutrale” sullo Yemen. E ieri a Mosca c’era il primo ministro libanese e alleato degli Usa Saad Hariri.
Il Fatto 9.13.17
Chi vincerà la guerra all’Isis? Corsa tra curdo-americani e russo-siriani per l’oro nero
Spallata finale - Le due forze alleate alla conquista del baluardo petrolifero e geopolitico di Deir Ezzor
di Enrico Piovesana
In Siria si avvicina la resa dei conti tra Washington e Mosca, lanciati in una pericolosa corsa per il controllo della più strategica regione del Paese: la provincia orientale di Deir Ezzor, ultima roccaforte dell’Isis dove si trovano i principali giacimenti di petrolio e gas del Paese che finora hanno garantito la sopravvivenza economica del Califfato e porta d’accesso all’Iraq che consentirebbe la realizzazione della ‘mezzaluna sciita’ da Beirut a Teheran: incubo di sauditi, israeliani e americani. In una sorta di riedizione della corsa tra Armata Rossa e Alleati per la liberazione di Berlino alla fine della Seconda guerra mondiale, le forze russo-siriane e quelle curdo-americane si sono lanciate, rispettivamente da ovest e da nord-est, alla conquista dell’ultimo baluardo dello Stato Islamico. La contesa è iniziata dopo che, nei giorni scorsi, l’esercito di Assad, supportato dalle forze speciali russe e dall’aviazione di Mosca oltre che dalle milizie sciite filo-iraniane, sono riuscite a spezzare l’assedio dell’Isis a Deir Ezzor che durava da 3 anni, ricongiungendosi con la resistenza governativa asserragliata dal 2014 nell’aeroporto cittadino. Le forze di Damasco sono riuscite a sfondare le linee del Califfato riconquistando la strategica altura del Monte Thardeh, presa dall’Isis proprio un anno fa, dopo che l’aviazione Usa aveva bombardato “per errore” l’ultima linea delle forze governative a difesa della pista, provocando un massacro fra i soldati siriani (oltre 100 morti e centinaia di feriti) che furono costretti a ritirarsi, consentendo all’Isis di avanzare e chiudere l’assedio.
Verso la città controllata dallo Stato Islamico, colpita anche da missili russi lanciati dalle navi di Mosca nel Mediterraneo, avanzano ora rapidamente anche le milizie curde e quelle arabe filo-saudite delle Forze siriane democratiche (Sdf), supportare dall’aviazione di Washington, che nei giorni scorsi ha anche condotto blitz con squadre di forze speciali per portare in salvo, insieme alle loro famiglie, una ventina di presunte spie occidentali infiltrate negli alti comandi Isis.
Offensive parallele, e per certi versi coordinate, che dopo la sconfitta del comune nemico vedranno inevitabilmente gli schieramenti contendersi il controllo della provincia di Deir Ezzor, dei grandi giacimenti di al-Tank e al-Omar e di tutta l’area a est dell’Eufrate fino al confine con l’Iraq. Proprio in questa regione della Siria orientale, come rivela un documento dell’intelligence militare americana del 2012, gli Usa auspicavano che i ribelli jihadisti sostenuti dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo creassero un “principato salafita per isolare il regime siriano sostenuto da Russia e Cina” e contrastare “l’espansionismo sciita di Iran e Iraq”.
Il comando militareUsa ha ammonito l’esercito siriano a fermare la sua avanzata sulla sponda ovest dell’Eufrate, ma Damasco ha già inviato al fronte pontoni e imbarcazioni per oltrepassare il fiume. La riconquista governativa di Deir Ezzor e della Siria orientale rappresenterebbe una svolta militare fondamentale nel conflitto siriano, un passo decisivo verso la vittoria del regime di Assad e dei suoi sostenitori russi e iraniani, una prospettiva che manderebbe all’aria i piani americani, sauditi e israeliani di ridefinizione degli equilibri politici del Medio Oriente.
Il manifesto 13.9.17
La famiglia sconfinata
Scaffale. L'ultimo libro della sociologa Chiara Saraceno, pubblicato da Laterza interroga gli «equivoci» generati da padri, madri & altri
di Vittorio Filippi
Famiglia è una delle parole più usate nel lessico della quotidianità e uno dei concetti ritenuti più chiari, più semplici, perfino più (apparentemente) «naturali». Un termine che diamo per scontato nella sua (supposta) ovvietà. E su cui, per pigro trascinamento semantico, portiamo avanti tutta una serie di stereotipi e di preconcetti che ci impediscono di vedere le profonde e veloci trasformazioni che negli ultimi decenni hanno rivoluzionato la stessa parola famiglia, tanto è vero che negli Stati Uniti il Censis Bureau vi aggiunge l’espressione living arrangement.
CHIARA SARACENO, figura notissima di studiosa di sociologia della famiglia, in questo veloce volume (L’equivoco della famiglia, Laterza, pp. 208, euro 15) ci aggiorna sulle vicende della famiglia italiana facendo soprattutto pulizia delle ambiguità e delle ovvietà che vi pullulano e che rendono spesso la famiglia un ideale o una ideologia. In sette capitoli affronta agilmente tutti quei mutamenti – che in sintesi definiamo sociali, ma che in realtà sono demografici, culturali, religiosi, lavorativi, tecnologici, di welfare, giuridici – che hanno trovato nella famiglia il pivot più eclatante e visibile ma che in realtà sono i mutamenti con cui la modernità e la post modernità hanno rovesciato, in pochi lustri, la società italiana.
Una «apocalisse culturale» per dirla con de Martino, una «grande trasformazione» per dirla invece con Polany, che sono silenziosamente avvenute tra le mura di casa, nella quotidianità del vivere insieme, nelle relazioni affettive e di cura che connotano le figure dette appunto familiari. Saraceno parla di famiglia come «sostantivo plurale» e di famiglie «(s)confinate», cioè con architetture affettive ampie, mutevoli, variegate che spesso vanno al di là delle rigide (e datate) definizioni normative e talvolta anche degli schemi mentali di qualcuno. Tratta anche di nuovi padri e nuove madri (e anche del diventare genitori nell’epoca della riproduzione assistita). E dei diritti dei bambini, in primis ad avere dei genitori, pure dello stesso sesso, ma anche il diritto a essere liberati dallo sfruttamento lavorativo – 64mila minori di 14 anni hanno avuto un infortunio sul lavoro nel 2013, dice l’Inail – nonché il diritto allo ius soli per quella seconda generazione di migranti nati e cresciuti qui.
Si fanno più complessi poi i rapporti e i passaggi tra generazioni, generazioni sempre più squilibrate per motivi demografici, lavorativi, di welfare, perfino tecnologici, anche se «gli anziani costituiscono spesso l’unica rete di protezione disponibile per le generazioni più giovani», ammette Saraceno. Nonostante sia molta la ricchezza nascosta nel lavoro di cura – appannaggio com’è noto delle donne – il gender gap italiano è sconcertante. Perché le donne continuano a essere penalizzate dal minor tasso di occupazione e dai bassi salari. Per non parlare delle troppe madri (il 20%) che devono abbandonare il lavoro per occuparsi dei figli (specie il secondo o il terzo).
Al di là delle immagini edulcorate, inoltre, la famiglia ha anche un suo lato oscuro talvolta ospitato dalla cronaca nera: quasi una donna su tre è vittima di violenza nel corso della vita, frutto di «modelli di genere polarizzati», a cui vanno aggiunti i casi di matricidio e parricidio.
E INFINE LE POLITICHE per la famiglia, sollecitate dal calo della fecondità, dalla povertà dei nuclei numerosi, dalla maggior occupazione delle donne e dall’invecchiamento del paese: politiche che latitano non solo per motivi finanziari, ma anche perché fanno riferimento a modelli che non esistono più – ecco un esempio di «equivoco della famiglia» – mentre il dibattito sulle politiche di sostegno diventa facilmente ideologico («quali» famiglie aiutare?) e quindi inconcludente.
UN LIBRO INDICATO soprattutto per coloro che – ignorando o respingendo la dilatata complessità delle famiglie attuali – si rifugiano con accorata nostalgia nella famiglia (astratta perché idealizzata e ideologicizzata) di un astorico buon tempo antico. Dimenticando la lezione di uno dei padri della sociologia, il francese Emile Durkheim, che nel 1888 scrisse: «Non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore per tutti (…). La famiglia di oggi è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa, perché le circostanze sono diverse».
Repubblica 13.9.17
Nel nuovo “Credo” la chiesa del dialogo
Al patriarca Bartholomeos verrà donata oggi una diversa traduzione della preghiera che supera le divisioni fra Occidente e Oriente
di Alberto Melloni
Mancano otto anni (sembra tanto, ma è il tempo dedicato all’attesa del grande giubileo) al centenario del concilio di Nicea del 325. Il primo detto “ecumenico”. Quello che con la sua “esposizione della fede” (“il Credo” diciamo noi) ha segnato la storia
cristiana facendo della sinodalità una esperienza che certo non appartiene alla “essenza” della Chiesa, ma è lo strumento con cui essa cerca di restare fedele al Vangelo nel tempo.
Quel concilio doveva garantire a Costantino l’unità dottrinale dell’impero e sedare un conflitto teologico lacerante sul modo di pensare Dio e dunque sul modo di pensare la natura del potere. La teologia di Ario, infatti, affermava una ineguaglianza fra il Padre e il Figlio: non era una quisquilia per teologi, ma la tesi che avrebbe permesso ad ogni potere di sacralizzare il proprio sistema discendente di dominazione come specchio dell’ordine divino. Il concilio, invece, fece la scelta più difficile: e disse che al cuore del mistero di Dio vi è la relazione e fece della dottrina trinitaria il cuore della fede cristiana.
La «esposizione della fede dei 316 padri» approvata a Nicea fu ampliata nel successivo concilio di Costantinopoli ed è diventata parte della vita liturgica di tutte le chiese cristiane fino ad oggi.
Essa ha assorbito una questione che ha pesato come un macigno nei rapporti fra Oriente e Occidente. Il simbolo niceno-costantinopolitano, infatti, non ammetteva ritocchi. La sua immobilità segnalava un paradosso: per dire ciò che è essenzialissimo alla fede di e in Gesù servono parole e organi (il credo e il concilio) a lui ignote.
Ciò nonostante l’Occidente introdusse nella versione latina del Credo, le parole “e dal Figlio” — il Filioque — là dove i padri costantinopolitani aveva detto che lo Spirito si avventura (l’ekporesis è il cammino di chi lascia una città) procedendo “dal Padre”. Una addizione d’origine iberica che l’Occidente difese spiegando che significava “attraverso il Figlio”, lasciando dunque intatta la fede nicena. E che invece molti Orientali considerarono o considerano intollerabile: fino a giudicare i patriarchi che hanno abbracciato il papa come troppo indulgenti verso “l’eretico di Roma”.
Fatto sta che il Filioque è stato oggetto di conflitto, ora attutito ora riacutizzato: ma è anche un’occasione per chiedersi come l’Occidente tradurrebbe oggi nelle lingue vive il testo greco del simbolo. Non certo per illudersi di aggirare l’ostacolo della divisione con una furbizia filologica, ma per chiedersi quale sia il nesso che esiste fra il male del mondo, condannato dalle chiese con giusta energia, e la loro divisione, troppo spesso derubricata a questione tecnico-teologica. Così diciotto secoli dopo, il
Credo domanda alle chiese se hanno memoria o meno dell’unità di fede — premessa che decide della celebrazione comune dell’eucarestia — che quel testo enunciava.
L’Occidente infatti s’è legato a una traduzione latina, che ha il Filioque e che soprattutto organizza in strofe a cui il canto aggiunge un po’ di trionfalismo tonale. Ma non ha mai perso il testo greco, con una metrica interna tutta diversa e del quale la Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto, da ultimo con un atto del 1995 della Santa Sede, la intangibilità.
L’Occidente dunque ha conservato il diritto di recitare il
Credo in greco (lo hanno fatto anche i papi) e anche quello di tradurlo: specie ora, in una liturgia fatta di lingue vive, che nascono da traduzioni sulle quali il papa ha ridato da pochi giorni alle conferenze episcopali e ai vescovi i poteri che loro competono.
Da questa constatazione deriva l’ipotesi o l’esperimento di una traduzione — che come insegna Tullio Gregory è il ponte da cultura a cultura — del Credo: una traduzione nuova, “dal basso”, e come si vedrà, desiderosa di conservare in una sola parola ciò che il greco dice in una parola, anche a costo di alterare la memorizzazione oggi più diffusa. È stata confezionata in occasione della visita che il Patriarca Ecumenico Bartholomeos farà oggi a Bologna, e alla fondazione dove Giuseppe Alberigo e Giuseppe Dossetti hanno seminato l’amore per lo studio e per i concili: non è una proposta, è un dono.
Ruminata per molto tempo fra alcuni dotti, discussa con una filologa del calibro di Silvia Ronchey, nota a pochissime ma autorevoli figure delle chiese d’Oriente e d’Occidente, questa traduzione lascia il Credo latino alla sua storia: e cerca di far rivivere le rime nascoste della fede comune e il battere di quell’“uno” che sembra un ritornello: il Dio uno, il Figlio uno, la chiesa una, il battesimo uno.
A otto anni dal centenario di Nicea si contenta di dire che scoprire l’unità della fede vissuta dalle chiese e la sinodalità che ha permesso loro di conservare la fedeltà al vangelo sono ancora lì, come un eredità, come un traguardo, come un seme di pace di cui il mondo battuto dalla violenza attende i germogli.
Repubblica 13.9.17
“Crediamo in un Dio Uno”
Crediamo in un Dio Uno Padre, Onnipotente, Fattore del cielo e della terra, dei visibili e degli invisibili ~ E [crediamo] in un Signore Uno, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Unigenito, il Generato dal Padre prima di tutti i secoli, [Dio da Dio], luce da luce, Dio vero da Dio vero generato non fatto, consustanziale al Padre per mezzo del quale tutto fu creato.
Lui [che] per noi, gli uomini, e per la salvezza nostra discese dai cieli e s’incarnò di Spirito Santo e da Maria Vergine s’inumanò.
Il Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, Lui [che] morì e fu sepolto e risorse il terzo giorno, secondo le Scritture e ascese nei cieli, e intronizzato alla destra del Padre e di nuovo tornerà nella gloria giudicante i vivi e i morti, Lui, il cui Regno non avrà fine.
~ E [ crediamo] nello Spirito Santo il Signore e il Vivificante che si diparte dal Padre e con il Padre e il Figlio il Conadorato e Conglorificato il Parlante per mezzo dei Profeti.
~ [Crediamo] la chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica ~ Confessiamo un battesimo Uno per la remissione delle colpe, attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del secolo futuro ~Amen.
Corriere 13.9.17
Dan Brown
Torna l’autore del «Codice da Vinci» che fa cominciare così il suo «Origin»: una scoperta, tre capi religiosi...
di Dan Brown
Sul vecchio treno a cremagliera che arrancava per la vertiginosa salita, Edmond Kirsch osservava la cresta frastagliata sopra di lui. In lontananza, il massiccio monastero di pietra costruito nella parete a picco pareva come sospeso, magicamente fuso con il fianco verticale della montagna.
Quel luogo sacro e senza tempo della Catalogna resisteva da secoli all’inesorabile forza di gravità senza mai sfuggire al suo scopo originario: isolare i religiosi dal mondo moderno.
“Per ironia della sorte, ora saranno i primi a conoscere la verità” pensò Kirsch, chiedendosi quale sarebbe stata la loro reazione. Storicamente, gli uomini più pericolosi sulla terra erano uomini di Dio... specialmente quando qualcuno minacciava le loro divinità. “E io sto per sollevare un vespaio”.
Quando il treno raggiunse la vetta, Kirsch trovò una figura solitaria ad attenderlo sulla banchina: un uomo scheletrico e avvizzito che indossava la tradizionale veste talare paonazza dei vescovi cattolici con rocchetto bianco e lo zucchetto. Kirsch riconobbe i lineamenti ossuti dalle foto che aveva visto di lui e avvertì una inaspettata scarica di adrenalina.
“Valdespino è venuto ad accogliermi di persona”. Il vescovo Antonio Valdespino era una figura temuta e rispettata in Spagna: non solo amico fidato e consigliere del re, ma uno dei più influenti e accesi difensori dei tradizionali valori cattolici e delle politiche conservatrici.
«Edmond Kirsch, suppongo?» chiese il vescovo appena Kirsch scese dal treno.
«Mi dichiaro colpevole» rispose Kirsch con un sorriso, stringendo la mano ossuta del suo ospite. «Monsignore, desidero ringraziarla per aver organizzato questo incontro».
«E io le sono grato per averlo richiesto». La voce del vescovo era più forte di quanto Kirsch si aspettasse, chiara e squillante come il suono di una campana. «Non ci capita spesso di essere interpellati da uomini di scienza, tanto meno da persone del suo calibro. Mi segua, prego».
Valdespino precedette Kirsch lungo la banchina, e l’aria fredda della montagna gli fece svolazzare la veste talare. «Confesso che lei è diverso da come immaginavo» disse. «Mi aspettavo uno scienziato, ma vedo che lei è piuttosto...». Osservò con un accenno di disapprovazione l’elegante abito Kiton K50 e le scarpe Barker in pelle di struzzo. «Stiloso, credo sia la parola giusta?»
Kirsch rispose con un sorriso garbato. La parola “stiloso” era passata di moda da anni.
«Leggendo l’elenco delle sue imprese» disse il vescovo «non ho ancora ben capito cosa faccia, esattamente».
«Sono specializzato in teoria dei giochi e modelli informatici».
«Quindi crea giochi per computer, quelli con cui si divertono i ragazzi?»
Kirsch intuì che il vescovo fingeva di non capire nel tentativo di apparire all’antica. In realtà, Kirsch sapeva che Valdespino era uno studioso assai ben informato di tecnologia, che spesso metteva in guardia gli altri dai suoi pericoli. «No, monsignore, in realtà la teoria dei giochi è un campo della matematica che studia i modelli per formulare previsioni sul futuro».
«Ah, sì. Mi pare di aver letto che qualche anno fa lei aveva previsto una crisi monetaria europea, giusto? E sebbene nessuno le abbia dato ascolto, ha salvato la situazione inventando un programma informatico che ha fatto resuscitare l’Unione Europea. Come dice quella sua frase famosa? “Ho trentatré anni, la stessa età di Cristo quando ha compiuto la sua resurrezione”».
Kirsch si schermì, imbarazzato. «Un paragone infelice, monsignore. Ero giovane».
«Giovane?» Valdespino fece una risatina. «Perché, adesso quanti anni ha... quaranta?»
«Appena compiuti».
L’anziano vescovo sorrise mentre il vento continuava a gonfiargli la veste. «Be’, gli umili dovrebbero ereditare la terra, e invece è andata ai giovani... a quelli che sanno tutto di tecnologia, che stanno tutto il tempo a guardare uno schermo di computer anziché dentro la propria anima. Devo ammettere che non avrei mai immaginato di avere motivo di incontrare il giovane uomo che guida la carica. La definiscono un “profeta”, sa?»
«Dal suo punto di vista non un buon profeta, monsignore» rispose Kirsch. «Quando ho chiesto se potevo incontrare lei e i suoi colleghi in privato, ho calcolato che c’era solo un venti per cento di possibilità che accettaste».
«E, come ho detto ai miei colleghi, un devoto può sempre trarre giovamento dal confronto con un non credente. È ascoltando la voce del diavolo che possiamo meglio apprezzare quella di Dio». Il vescovo Valdespino sorrise. «Scherzo, ovviamente. La prego di perdonare il mio senso dello humour. Sto invecchiando. Di tanto in tanto i miei filtri vengono meno». Gli fece cenno di proseguire. «Gli altri ci stanno aspettando. Da questa parte, prego».
Kirsch osservò il luogo in cui erano diretti, un’enorme cittadella di pietra grigia appollaiata sul ciglio di una parete che scendeva a strapiombo per centinaia di metri fino a un lussureggiante tappeto di colline boscose. Impaurito dall’altezza, distolse lo sguardo dal precipizio e seguì il vescovo lungo il sentiero accidentato che costeggiava il bordo del dirupo, concentrandosi sull’incontro che lo aspettava. Kirsch aveva richiesto un’udienza con tre importanti capi religiosi che avevano appena partecipato a una serie di conferenze in quel monastero.
Il Parlamento delle religioni del mondo.
Fin dal 1893, centinaia di capi spirituali di quasi trenta religioni diverse si riunivano periodicamente, a distanza di qualche anno, in una località sempre diversa per una settimana di dialogo interreligioso. A quegli incontri partecipavano influenti sacerdoti cristiani, rabbini e mullah di tutto il mondo, insieme a pujari induisti, monaci buddisti, giainisti, sikh e altri.
L’obiettivo dichiarato del parlamento era “promuovere l’armonia tra le religioni del mondo, costruire ponti tra le diverse spiritualità e celebrare i punti di incontro di tutte le fedi”.
“Un nobile scopo” pensava Kirsch, pur ritenendolo un futile esercizio... una ricerca senza costrutto di casuali punti di corrispondenza in un’accozzaglia di antichi racconti, favole e miti. Mentre il vescovo faceva strada sul sentiero, Kirsch guardò giù lungo il versante della montagna, colpito da un pensiero ironico. “Mosè è salito su una montagna per ricevere la parola di Dio... io invece per il motivo opposto”.
A indurlo a salire quella montagna, si era detto Kirsch, era stato un obbligo morale, ma lui sapeva che c’era anche una buona dose di superbia... il desiderio di provare la gratificazione di trovarsi faccia a faccia con quei religiosi e predirne l’imminente scomparsa.
“Vi siete divertiti abbastanza a definire le nostre verità”. «Ho letto il suo curriculum vitae» disse il vescovo di punto in bianco, lanciando un’occhiata a Kirsch. «Ho visto che ha studiato a Harvard».
«Sì. Per la laurea di primo livello».
«Capisco. Ho letto di recente che, per la prima volta nella storia di Harvard, tra i nuovi studenti ci sono più atei e agnostici che non seguaci di una qualsiasi religione. È una statistica assai significativa, signor Kirsch».
“Sì, significa che i nostri studenti sono sempre più svegli” avrebbe voluto rispondergli Kirsch.
Il vento aveva preso a soffiare più forte quando arrivarono all’antico edificio di pietra. Dentro l’ingresso fiocamente illuminato, l’aria era greve del profumo forte dell’incenso. I due uomini procedettero attraverso un labirinto di corridoi bui, e gli occhi di Kirsch fecero fatica a adattarsi mentre camminava dietro Valdespino. Alla fine arrivarono a una porticina di legno. Dopo avere bussato, il vescovo si chinò ed entrò, facendo segno al suo ospite di seguirlo. Kirsch varcò la soglia, titubante.
Si ritrovò in una sala rettangolare dalle pareti altissime tappezzate di antichi volumi rilegati in pelle. Altri scaffali si protendevano dalle pareti, simili a costole, inframezzati da radiatori di ghisa che crepitavano e sibilavano, dando l’inquietante sensazione che la stanza fosse viva. Kirsch fece scorrere lo sguardo sulla passerella protetta da una balaustra ornata che girava tutto attorno alla sala a livello del secondo piano e capì con certezza dove si trovava.
“La famosa biblioteca di Montserrat” pensò, sorpreso di esservi stato ammesso. Si diceva che quella stanza sacra custodisse testi unici e rarissimi, accessibili soltanto ai monaci che avevano dedicato la loro esistenza a Dio e che vivevano segregati su quella montagna. «Lei ha chiesto riserbo» disse il vescovo. «Questo è il nostro luogo più riservato. Pochissimi estranei vi sono mai entrati». «Un vero privilegio. La ringrazio».
Kirsch seguì il vescovo a un grande tavolo di legno a cui erano seduti due uomini anziani. Quello sulla sinistra sembrava logorato dal tempo, con occhi stanchi e una barba bianca arruffata. Indossava un abito nero sgualcito, una camicia bianca e un cappello floscio di feltro.
«Le presento il rabbino Yehuda Köves» disse il vescovo. «È un eminente studioso dell’ebraismo e ha scritto un gran numero di testi sulla cosmologia della cabala».
Kirsch allungò il braccio sopra il tavolo e strinse educatamente la mano al rabbino. «È un piacere conoscerla» disse. «Ho letto i suoi libri sulla cabala. Non posso dire di averli capiti, ma li ho letti».
Köves rispose con un affabile cenno del capo, asciugandosi con un fazzoletto gli occhi acquosi.
«E qui» proseguì il vescovo, indicando l’altro religioso «abbiamo l’ allamah Syed al-Fadl».
(traduzione di Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli )
Repubblica 13.8.17
Quale mistero porta Robert Langdon a Bilbao? Così inizia il nuovo romanzo
Dan Brown
Il Codice Guggenheim
di Dan Brown
Il professor Langdon sollevò lo sguardo verso il cane alto una quindicina di metri seduto nella piazza. Il pelo dell’animale era un tappeto vivente d’erba e fiori profumati. “Io ce la sto mettendo tutta per trovarti bello” pensò. “Ci sto davvero provando”. Osservò la creatura ancora per qualche istante, poi proseguì lungo una passerella sospesa e scese una larga rampa di scalini la cui superficie discontinua aveva lo scopo di
costringere il visitatore ad alterare il ritmo dell’andatura. “E ci riesce benissimo” decise Langdon, rischiando di cadere per ben due volte sui gradini irregolari.
Arrivato in fondo alla scalinata, si fermò di botto, fissando l’enorme oggetto che incombeva minaccioso più avanti.
“Ora posso dire di averle viste proprio tutte”.
Davanti a lui si ergeva un ragno gigantesco, una vedova nera, le cui sottili zampe di ferro sostenevano un corpo tondeggiante a un’altezza di almeno dieci metri. Sotto l’addome del ragno era sospeso un sacco ovigero di rete metallica pieno di sfere di vetro.
«Si chiama Maman» disse una voce.
Langdon abbassò lo sguardo e vide un uomo snello in piedi sotto il ragno. Indossava uno
sherwani di broccato nero e sfoggiava un paio di baffi arricciati alla Salvador Dalí al limite del ridicolo.
«Mi chiamo Fernando» proseguì l’uomo «e sono qui per darle il benvenuto al museo». Esaminò una serie di targhette di riconoscimento posate sul tavolo davanti a lui. «Posso avere il suo nome, per favore?».
«Certamente. Robert Langdon ».
L’uomo alzò lo sguardo di scatto. «Ah, mi scusi! Non l’avevo riconosciuta, signore!».
“Faccio fatica a riconoscermi io” pensò Langdon, avanzando impacciato in frac nero con farfallino e gilet bianchi. “Sembro un Whiffenpoof”. Il classico frac di Langdon aveva quasi trent’anni e risaliva ai tempi in cui lui era membro dell’Ivy Club di Princeton ma, grazie al costante regime di nuotate quotidiane, gli andava ancora alla perfezione. Nella fretta di fare i bagagli, aveva preso il portabiti sbagliato dall’armadio, lasciando a casa lo smoking che indossava di solito in quelle occasioni.
«L’invito diceva “bianco e nero”. Spero che il frac sia adatto».
«Il frac è un classico! Lei è elegantissimo! ». L’uomo gli si avvicinò a passi svelti e gli appiccicò una targhetta con il nome sul risvolto della giacca. «È un onore conoscerla, signore» aggiunse. «Sicuramente sarà già stato da noi?».
Langdon osservò da sotto le zampe del ragno l’edificio scintillante davanti a loro. «In realtà mi vergogno a dirlo, ma non ci sono mai stato».
«No!». L’uomo finse di cadere all’indietro. «Non è un amante dell’arte moderna?».
Langdon aveva sempre apprezzato la sfida dell’arte moderna... in particolare gli piaceva cercare di capire il motivo per cui determinate opere erano considerate dei capolavori: i quadri di Jackson Pollock realizzati con la tecnica del dripping, i barattoli di zuppa Campbell di Andy Warhol, i semplici rettangoli di colore di Mark Rothko. Detto questo, Langdon si sentiva molto più a proprio agio a discutere del simbolismo religioso di Hieronymus Bosch o delle pennellate di Francisco Goya.
«Ho gusti più classici» rispose. «Me la cavo meglio con da Vinci che con de Kooning».
«Ma da Vinci e de Kooning sono così simili! ».
Langdon sorrise, paziente. «Allora è evidente che ho parecchio da imparare su de Kooning».
«Be’, è nel posto giusto!». L’uomo indicò con il braccio l’enorme edificio. «In questo museo troverà la miglior collezione d’arte moderna sulla terra! Spero se la goda».
«È quello che intendo fare» rispose Langdon. «Vorrei solo sapere perché mi trovo qui».
«Lei come tutti gli altri!». L’uomo si fece una bella risata, scuotendo la testa. «Il suo ospite è stato molto misterioso sullo scopo dell’evento di questa sera. Neppure il personale del museo sa cosa succederà. Il mistero è metà del divertimento... Girano un sacco di voci! Ci sono centinaia di ospiti dentro, molte facce famose, e nessuno ha la minima idea di cosa ci aspetti stasera! ».
Langdon sorrise divertito. Poche persone al mondo avrebbero avuto la sfrontatezza di spedire degli inviti all’ultimo minuto dicendo in sostanza: “Presentati qui sabato sera. Fidati di me”. E ancora meno sarebbero riuscite a convincere centinaia di VIP a mollare tutto e a saltare su un aereo per il Nord della Spagna per partecipare all’evento.
Langdon uscì da sotto il ragno e proseguì lungo la passerella, alzando lo sguardo verso un enorme striscione rosso che sventolava sopra di lui: “Una serata con Edmond Kirsch”.
“A Edmond è sempre piaciuto mettersi in mostra” pensò, divertito.
Una ventina di anni prima, il giovane Eddie Kirsch era stato uno dei primi studenti di Langdon all’università di Harvard... un ragazzo con una zazzera ribelle, appassionato di computer, il cui interesse per i codici lo aveva portato a iscriversi al seminario di Langdon per gli studenti del primo anno: “Codici, cifrari e il linguaggio dei simboli”. Langdon era rimasto profondamente colpito dalla finezza intellettuale di Kirsch e, nonostante alla fine il giovane avesse abbandonato il mondo polveroso della semiotica per la promessa di un brillante futuro nel mondo dell’informatica, tra i due si era venuto a creare un legame studente-insegnante che li aveva tenuti in contatto per vent’anni, dopo che Kirsch si era laureato.
“Ormai l’allievo ha superato il maestro” pensò Langdon. “E di parecchi anni luce”.
Ora Edmond Kirsch era un miliardario noto in tutto il mondo, un guru dei computer, futurologo, inventore, un imprenditore che agiva fuori dagli schemi. A quarant’anni aveva già ideato un’incredibile quantità di tecnologie avanzate che rappresentavano un enorme balzo in avanti in diversi campi quali robotica, neuroscienze, intelligenza artificiale e nanotecnologie. E le sue accurate previsioni sulle future scoperte scientifiche avevano creato intorno a lui un’aura mistica.
Langdon sospettava che l’insolito talento di Edmond per le previsioni derivasse dalla sua vastissima conoscenza del mondo. Era sempre stato un insaziabile bibliofilo, e leggeva tutto quello che gli capitava sotto mano. Langdon non aveva mai incontrato nessuno che avesse la sua passione per i libri e la sua capacità di assimilarne il contenuto.
Negli ultimi anni Kirsch aveva vissuto principalmente in Spagna, attribuendo questa scelta al fatto di essersi innamorato del suo fascino da Vecchio Mondo, dell’architettura d’avanguardia, degli stravaganti cocktail bar e del clima perfetto.
Una volta all’anno, quando Kirsch tornava a Harvard per parlare al Media Lab dell’MIT, Langdon lo raggiungeva per pranzare in uno dei nuovi ristoranti alla moda di Boston di cui lui non conosceva neppure l’esistenza. Non parlavano mai di tecnologie: con lui Kirsch voleva discutere solo di arte.
Copyright © 2017 by Dan Brown © 2017 Mondadori Libri S. p. A., Milano Traduzione di Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli
La Stampa 13.8.17
Gianfranco Ravasi: come gli ebrei nel deserto
È il cammino a unire oggi laici e credenti
di Gianfranco Ravasi s.j.
È una delle grandi e costanti esperienze dell’umanità. Non per nulla la storia della nostra civiltà inizia con un duplice cammino, quello di Abramo, il padre della fede ebraica e cristiana, dalla mesopotamica Ur fino alla terra promessa, e quello «nostalgico» di Ulisse alla ricerca della patria perduta. Una rete di cammini per secoli ha avvolto il nostro globo, spesso seguendo un vessillo religioso, tant’è vero che il viaggio si è trasformato in pellegrinaggio: gli Ebrei protesi verso Gerusalemme, cantando gli «inni delle ascensioni» a Sion; i cristiani rivolti ai santuari mariani o a quelli dei martiri (Santiago di Compostela ne è l’emblema) o a Roma; i musulmani pellegrini alla Mecca; gli hindu verso i fiumi sacri col Kumbh Mela.
La modernità ha secolarizzato questi itinerari, ma li ha spesso segnati ancora di una ritualità laica. I colossali trasferimenti di massa per eventi spettacolari; la frenesia sostenuta dalla velocità degli aerei che rende le persone in un esodo permanente, ben diverso da quello quarantennale degli Ebrei nel deserto, certi di una meta promessa; le drammatiche migrazioni di popoli che lasciano dietro di sé scie di cadaveri: sono alcune delle tante tipologie dei nuovi cammini. Rimane, perciò, sempre vero l’asserto di uno dei romanzi-simbolo del Novecento, On the Road di Jack Kerouac che dichiarava: «La strada è la vita».
Sì, la parabola dell’esistenza è proprio nella via, già per i primi cristiani che erano chiamati «i seguaci della Via», cioè di quel Cristo, venuto alla fine del secolare cammino messianico di Israele, che si era autoproclamato «Via, verità e vita». Certo, per molti oggi può essere ripetuta la confessione del grande pensatore francese Montaigne: «A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, rispondo che so bene quello che sfuggo, ma non quello che cerco». Una convinzione reiterata dall’ateo Bertolt Brecht: «L’auto è ferma ai bordi della strada. L’autista cambia la ruota. Io non so da dove vengo né so dove vado. E allora perché attendo con impazienza il cambio della ruota?».
Credenti e non credenti siamo, allora, insieme invitati a interrogarci sul senso del nostro cammino. I percorsi sono diversi, spesso sotto un sole sfolgorante, altre volte in mezzo a vegetazioni lussureggianti. Importante è non sedersi ai bordi del sentiero, inerti e scoraggiati, ma continuare la ricerca di una meta perché, come già insegnava il Socrate di Platone, «una vita senza ricerca non merita di essere vissuta».