lunedì 11 settembre 2017



https://www.sundaypost.com/fp/smyllums-children-lanarkshire-kids-home-scandal-revealed-hundreds-orphans-laid-rest-nuns-mass-grave/

Il Fatto 11.9.17
Orrore in Scozia: una fossa comune con 400 bimbi nell’ex orfanatrofio
Figli di nessuno
La struttura, chiusa 36 anni fa, era gestita dalle suore
Orrore in Scozia: una fossa comune con 400 bimbi nell’ex orfanatrofio
di Sabrina Provenzan

Quattrocentodue. Neonati, bambini piccoli e piccolissimi. Accatastati in una fossa comune, in un campo anonimo, nei pressi dell’orfanotrofio cattolico di Smyllum Park, nel Lanarkshire, in Scozia. Una scoperta sconvolgente, frutto della determinazione dei giornalisti dello scozzese Sunday Post in collaborazione con il quarto canale di BBC Radio.
In quell’orfanotrofio, gestito dalle suore dell’ordine delle Figlie della Carità di san Vincenzo di Paola, fra il 1864 e il 1981, quando fu chiuso, passarono 11.600 bambini. Piccoli senza più famiglia, o affidati all’istituto da famiglie troppo povere per occuparsene.
Come Eddie McColl, 73 anni, finito a Smyllum con i fratelli John, William, Stephen e Francis dopo la morte del padre. “Era un inferno. Venivamo puniti per qualsiasi sciocchezza. Mi ha segnato per sempre”.
Eddie e i suoi fratelli lasciarono Smyllum nel 1961. Tutti tranne Francis, il più piccolo. “Un giorno ricevetti una chiamata. Francis era in ospedale, aveva avuto un incidente. Ma non mi dissero mai dove fosse o cosa fosse accaduto. Dopo un mese lo cercai all’orfanotrofio. Era morto. Nessuno ci aveva informato”. Sono molti i “sopravvissuti” segnati da quegli anni di abusi, percosse, violenze. Ora raccontano di bagni gelati, nessun assistenza medica, i pochi regali di Natale confiscati. Le visite dei familiari regolarmente impedite.
Fra i persecutori più crudeli Charles Forsyth, lui stesso un bambino di Smyllum. Riposa nel cimitero dell’orfanotrofio, a pochi metri dalla fossa comune, con le suore e altri membri dello staff. Ma per le vittime di sevizie, malnutrizione e incuria, raccontano i sopravvissuti e sembrerebbero confermare le ricerche, le suore non avevano pietà. A ricordarli non ci sono lapidi. Sono stati gettati in buche anonime nel terreno. Bambini di nessuno. La verità sulle loro storie e sulla loro morte non sarebbe forse mai emersa se due di quei sopravvissuti si fossero rassegnati, come tanti altri, a non sapere mai.
Nel 2003, Franck Docherty e Jim Kane, già ospiti di Smyllum, scoprono, in una zona abbandonata del cimitero del paese, una fossa con resti umani. Cadaveri di bambini. L’orfanotrofio è chiuso da anni ma le suore della Carità gestiscono ancora la parrocchia del paese. I due uomini riescono, con fatica, ad ottenere un’ammissione dalle religiose: dai loro registri risulta che in quel cimitero siano sepolti 120 piccoli. Docherty and Kane sono convinti che le vittime siano molte di più, ma muoiono lo scorso anno senza riuscire a provarlo. Sono i giornalisti a raccogliere il testimone con un immane lavoro di inchiesta. La disamina di oltre 15mila certificati di morte porta alla conclusione che a Smyllum morisse un bambino ogni tre mesi. Fra loro c’è Francis. Morto a 13 anni per emorragia cerebrale. Ad Eddie qualcuno aveva detto che il fratello era stato colpito con una mazza da golf. Il certificato di morte sembra confermarlo.
Storia atroce, che ricorda quella dell’Istituto delle suore di Tuam, in Irlanda, l’ex orfanotrofio cattolico dove nel marzo scorso è stata confermata l’esistenza di una fossa comune: 800 bimbi morti tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del secolo scorso. E potrebbe essere solo l’inizio di un’inchiesta molto più ampia. Ad accertare la verità si è impegnato pubblicamente il Primo Ministro scozzese Jack McConnell. Da mesi, sulle rivelazioni di vittime e familiari indaga lo Scottish Child Abuse Inquiry, che ha sentito fra gli altri due rappresentanti delle Figlie della Carità. Avrebbero dichiarato di non aver trovato prove di abusi, ma non hanno fatto commenti sul numero di corpi nella fossa comune. “I nostri valori sono contrari a qualsiasi forma di abuso. Offriamo le nostre sincere e profonde scuse a chiunque abbia sofferto mentre era affidato a noi” hanno dichiarato.
Intanto, un portavoce della Chiesa di Scozia ha preso le distanze, chiarendo che le Figlie della Carità hanno sempre operato come organizzazione separata. Negli Anni Novanta, l”Inferno” è stato ristrutturato. Oggi ospita case private.

Corriere 11.9.17
Fossa comune con 400 bimbi in orfanotrofio in Scozia

L’orrore dell’abbandono, di una condizione di orfani maltrattati, o quanto meno trattati come poveri numeri senza nome, torna a riaffiorare nelle isole Britanniche da una storia vecchia di decenni. Un’anonima fossa comune con i resti di 400 tra bambini e neonati, morti tra il 1864 e il 1981, è stata trovata nell’ex orfanotrofio di Smyllum Park, in Scozia, gestito da suore cattoliche, come in un caso analogo recente scoperto in Irlanda. Questa volta il teatro dell’incubo è Lanark, nella contea scozzese meridionale del Lanarkshire, ed è stato individuato grazie a un’inchiesta giornalistica condotta dal programma «File on Four», di BBC Radio 4 , e dal domenicale britannico Sunday Post . I reporter hanno portato alla luce l’area in cui erano stati sotterrati nel corso del tempo, gli uni sugli altri, i corpicini di circa 400 piccoli in un settore del St Mary’s Cemetery, vicino all’ex istituto. Si calcola che in 117 anni l’orfanotrofio abbia ospitato 11.600 «figli di nessuno». Al momento non risultano prove di abusi, come del resto sembra sia stato escluso dall’esame dei resti nel precedente caso irlandese. Ma la terribile consuetudine di dare sepoltura collettiva ai bambini ripropone il sospetto di un’abitudine consolidata a nascondere le tracce di quella diffusa malnutrizione — con malattie, miseria e l’inevitabile corredo di un elevato tasso di mortalità infantile o neonatale — che si valuta sia stato storicamente il destino di tanti ospiti di strutture di «accoglienza» ispirate a parole alla carità cristiana.

La Stampa 11.9.17
Scozia, 400 bimbi in una fossa comune

Londra Ci sono 402 bambini nella fossa comune ritrovata in Scozia vicino all’ex orfanotrofio di Smyllum Park. I piccoli sono morti fra il 1864 e il 1981, quando l’orfanotrofio gestito dalle suore cattoliche Figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli chiuse i battenti. L’orrore dell’abbandono torna a riaffiorare nelle Isole Britanniche. L’anonima fossa con i resti di 402 tra bambini e neonati morti in un arco di tempo di 117 anni è stata localizzata a Lanark, nella contea scozzese meridionale del Lanarkshire, ed è stata individuata grazie a un’inchiesta giornalistica condotta dal programma File on Four, di Bbc Radio 4, e dal domenicale britannico «Sunday Post». Dopo mesi di lavoro e di scavo i reporter hanno portato alla luce l’area in cui erano stati interrati nel corso del tempo, gli uni sugli altri, i corpicini di circa 400 piccoli in un settore del St Mary’s Cemetery, vicino all’ex istituto. Una sepoltura di massa, senza targhe né identità, di bambini passati per quell’orfanotrofio chiuso ormai 36 anni fa, ma che in oltre un secolo si calcola abbia ospitato 11.600 «figli di nessuno».

Corriere 11.9.17
Quelle frasi insopportabili che offendono le vittime
di G. Fas.

In una storia di violenza sessuale sono due le frasi insopportabili: «Era consenziente» e «Se l’è cercata». Finiamola — anzi: finitela — di usare quelle espressioni per sventolare la bandiera anti-femminista, anti-sinistra, anti-destra o anti-qualcos’altro. Basta. Essere consenzienti significa voler fare qualcosa essendone consapevoli ed essendo perfettamente in grado di intendere e di volere, punto. E andarsela «a cercare» è oltraggioso per chi subisce una violenza e quindi è vittima, non complice. In quasi trent’anni di cronaca avrò sentito quelle frasi decine di volte, e che fossero parole esplicite o sottintese poco importa. Conta il concetto, invece. E cioè l’idea di fondo, tutta maschile, che alcuni atteggiamenti o un certo modo di vestire (molto variabili a seconda dei gusti dell’interessato) siano messaggi di disponibilità o, peggio, inviti a prendere senza chiedere. «Abbiamo avuto un rapporto sessuale ma era consenziente» dice il carabiniere di Firenze accusato della violenza di una delle due studentesse americane. Ma può un carabiniere non realizzare il disvalore di quello che sta facendo se in divisa, in un edificio privato e lontanissimo da tutti i suoi doveri, decide di fare sesso con una giovane studentessa alla quale ha offerto un passaggio sull’auto di servizio? La risposta è scritta nel codice penale ed è no. Anzitutto perché lei, come raccontano testimoni ed esami sul tasso alcolico, non era del tutto presente a se stessa. E se questo sarà confermato significa che era in stato di inferiorità, davanti a un uomo che rappresentava la legge e che era armato. E in ogni caso: se anche fosse stata sobria e consenziente un carabiniere semplicemente non dovrebbe ritrovarsi in una circostanza del genere. Ma qui non si tratta dei torti e delle ragioni di questo singolo caso, ancora da cercare e provare fino in fondo. Si tratta dell’offesa profonda che sta nel ritenere una donna «facile» (altra espressione odiosa) seguendo esclusivamente i propri desideri e ignorando completamente i suoi.

Corriere 11.9.17
Una risata seppellirà i bulli del 28 ottobre
di Pierluigi Battista

Ma quei cialtroni che picchiano i poveracci, fanno i bulli con i preti caritatevoli, se la prendono con i deboli (vigliacchi che non sono altro) deridono chi sta male, sputano sui neri, bullizzano le donne scampate al naufragio in mare, che si mettono in posa marziale per fare i fascisti senza cuore e che il 28 ottobre vorrebbero recitare se stessi, cioè i buffoni, con una finta marcia su Roma, questi energumeni che picchiano e grugniscono, analfabeti come sono, neanche capiscono che sono capaci di disgustare persino gli italiani che sono e sono stati, a regime mussoliniano sconfitto, fascisti che potremmo definire «seri»? Perché i fascisti seri esistono, i fascisti seri che hanno sbagliato ma hanno creduto e credono in qualcosa di serio e mai si metterebbero ad angariare chi semplicemente chiede la carità. Oggi dovrebbero guardare con ripugnanza questi picchiatori che vessano gli ultimi della terra, i mendicanti, gli affamati che scappano dall’inferno dove sono nati nell’orrore quotidiano.
Perché poi indossare la divisa dei fascisti così come è scontato che noi li rappresentiamo, scegliere provocatoriamente la parte del male, della minoranza che va contro tutto ciò che la morale corrente detta, è un esercizio facile per frustrati in cerca di esibizione, molto aiutati in questo da chi amplifica la loro forza fino a farne un pericolo per le basi stesse della democrazia. La politica si è divisa sulla necessità di vietare o meno la pagliacciata fascista del 28 ottobre a Roma. Ma resta lo sconcerto per una banda (numerosa) di professionisti della rissa dieci contro uno che pensano che la politica sia una grottesca imitazione di Arancia meccanica e che per darsi un tono, uno spessore, una giustificazione, rovista nei cassonetti del passato per trovare una motivazione chiamata «fascismo». E se ci fossero davvero i fascisti seri di cui abbiamo parlato, dovrebbero essere loro i primi a ribellarsi per la buffonata del 28 ottobre e per questi teppisti che menano i poveri e gli emarginati, gente orribile che acquisisce i simboli del Male storico per mettersi in mostra e scatenare le reazioni più ovvie e convenzionali. Bisognerebbe organizzare una contromanifestazione pacifica e irridente per smontare questi energumeni: una risata li seppellirà, affogandoli nel ridicolo di cui sono fatti.

Il Fatto 11.9.17
Il giorno che lessi “ebrei ai forni” su un muro a Milano
di Leonardo Coen

La memoria, scrisse Primo Levi, “è come il mare: può restituire brandelli di rottame a distanza di anni”. Passavo dalle parti di via Messina, oggi inglobata nella Chinatown meneghina, e mi è tornato in mente il giorno in cui, davanti a casa, sul muro che limitava una volta gli spazi di una grossa ditta di trasporti (oggi c’è un hotel a cinque stelle) qualcuno aveva pittato una grossa scritta: “Ebrei ai forni”. Ebbe un doloroso impatto, quella minaccia, su mio padre, vittima delle leggi razziali di Mussolini. Quel giorno ci raccontò – per la prima volta – come volevano deportarlo in un carro piombato diretto in Germania: “Eravamo stipati come bestie. Devastati dall’impotenza, dalla promiscuità, dalla paura che attanagliava la gola più della sete – eravamo lì dentro da ore e ore. Poi, un attacco aereo degli Alleati bloccò il convoglio dalle parti di Orte”. Mio padre scappò, con tanti altri. Se la cavò, arrampicandosi su di un albero, nel bosco vicino alla ferrovia, mentre i tedeschi rastrellavano la zona e uccidevano chi non era riuscito a dileguarsi.
L’intolleranza che ha armato nazismo e fascismo sta tornando, altro che balle: pure a Milano viviamo tempi bui, attraversati da odio, xenofobia e imbecillità importata dall’Italia dell’ignoranza che biechi demagoghi strumentalizzano per raccattare voti (vedi il caso vaccini, vedi la morte della bimba uccisa dalla malaria attribuita agli immigrati…). Per fortuna, qualcosa si fa per opporsi alla barbarie. Ieri si è appena concluso all’Arco della Pace il Festival Antirazzista dell’Abba Cup, in memoria di Abdoul William Guibre detto “Abba”, un giovane del Burkina Faso di 28 anni, massacrato a sprangate in via Zuretti il 14 settembre del 2008 da due baristi italiani – padre e figlio – che lo avevano accusato di aver rubato un pacchetto di biscotti, accusa peraltro mai dimostrata. Sport popolare, antirazzismo, meticciato, musica, socialità: una “soggettività nuova” di Milano, dove il 21 per cento della popolazione è di origine straniera e il 15 per cento è nato in Italia.

Il Fatto 11.9.17
Perdonaci papà Coen, per il fascismo che ritorna
di Enrico Fierro

E no, caro Coen, questa volta non c’è Nord e Sud, perché il racconto di un frammento della vita di tuo padre che tu offri al lettore è troppo forte. Ho negli occhi la scena di quel ragazzo impaurito chiuso in un vagone, destinazione Germania, lavori forzati e morte. E poi le bombe, alleate e liberatorie, la fuga. Lo immagino correre mentre i tedeschi sparano, il cuore in gola, il fiato che si fa sempre più corto, e la paura. Ecco, a quel ragazzo, tutti, da Nord a Sud, dobbiamo dire grazie. Grazie per aver resistito, grazie per essere uscito da quell’inferno, grazie per aver costruito una vita nuova, una famiglia, un lavoro. Un Paese.
Grazie, e perdonaci ragazzo, se puoi. Perdonaci perché fascismo e razzismo stanno tornando. Le parole d’ordine invadono piazze, salotti televisivi, tracimano nei social-network. Siamo soddisfatti perché dall’altra sponda del Mediterraneo non arrivano più quelli, i neri, stupratori e portatori di malattie terribili. “Lo nero periglio che viene da lo mare”, siamo sempre il Paese in bilico tra L’Armata Brancaleone e la tragedia delle leggi razziali. Siamo contenti e non ci chiediamo cosa accade nei lager libici dove quei disperati sono trattenuti. Né ci indignano i reportage che parlano esplicitamente di trattative italiane con i peggiori tagliagole libici. Perdonaci, se puoi, caro ragazzo in fuga dalla crudeltà nazista nelle campagne di Orte. Perché al vomito razzista e fascista che si sta impossessando del Paese, non riusciamo ad opporre parole e pensieri credibili e forti. Siamo deboli, intimiditi. “Buonista”, “radical chic”, sono i timbri da appiccicare addosso a chi parla di solidarietà, umanità, accoglienza. E allora dilagano le ronde contro gli immigrati, sulla scena si riaffacciano le bandiere nere, le periferie metropolitane abbandonate hanno trovato nello straniero “invasore” il nemico da combattere. Poveri contro poveri. Hanno vinto loro, caro ragazzo in fuga, e a noi manca il tuo coraggio.

Il Fatto 11.9.17
Ci rendiamo conto che non c’è ancora una legge elettorale?
di Gian Giacomo Migone

Il dibattito politico in corso, per una tacita intesa trasversale, finge d’ignorare che fra pochi mesi ci saranno le elezioni, e non si sa ancora con quale legge elettorale. Persino i protagonisti della vittoria del No al referendum non sembrano avvertirsi che la continuità di quell’impegno si gioca su questo terreno. Dove sono i miei amici Zagrebelsky (che pure ha segnalato da queste colonne il rischio di un rinvio sine die), Pace, Grandi, Smuraglia, Montanari, Falcone, La Valle, Calvi, Schwarz, Marzo e quant’altri?
A loro, in particolare, chiedo se, in un momento in cui bisogna selezionare gli obiettivi, una sacrosanta lotta contro i parlamentari nominati non sia l’argomento più coerente con il principio di rappresentanza per il quale ci siamo battuti, forse il solo capace di ristabilire il rapporto con una maggioranza di cittadini italiani.
Il dibattito, ospitato dal Corriere della Sera ad agosto tra Valerio Onida ed Ernesto Galli della Loggia, è un buon esempio di questa rimozione. Oggi la partita in gioco non è la riforma della Costituzione, con buona pace di tutti coloro che ne vorrebbero gettare alle ortiche sia la prima che la seconda parte, Panebianco, Jp Morgan, lo stesso Galli della Loggia. Patetico e perverso il successivo tentativo di Galli della Loggia (2 settembre) di spiegare a lettori ed elettori che non hanno ricevuto il bene di un capo del governo con parlamento al seguito perché Craxi, Berlusconi e Renzi (a suo tempo sostenuti da GdL) non li hanno convinti. Si rassegnino, lor signori e i loro sponsor, l’esito, del referendum del 4 dicembre ha chiarito che la maggioranza del popolo italiano non condivide il loro sogno e preferisce, nelle linee essenziali, la Costituzione vigente.
La partita è un’altra. A pochi mesi dalla scadenza elettorale siamo privi di una legge che non sia quella residuale, il Consultellum, regalo improvvido di due sentenze della Corte Costituzionale, che lascia intatti i meccanismi che perpetuano l’aspetto peggiore sia del Porcellum che dell’Italicum: premi di maggioranza, liste bloccate e capilista che moltiplicano i parlamentari per nomina. Il risultato è un parlamento delegittimato, screditato, debole, subalterno in cui buona parte dei suoi membri sono in perpetua transizione da un gruppo all’altro, alla ricerca della pantofola giusta da baciare, avendo pochi altri titoli per farsi confermare in carica.
Se fermassimo dieci italiani per la strada e chiedessimo loro se preferiscono un sistema proporzionale al maggioritario, tedesco o britannico, tutti o quasi esprimerebbero indifferenza. Se, invece la domanda fosse: “Preferite un sistema in cui siete voi a scegliere non solo il partito, ma la persona che vi rappresenta?”, la risposta prevalente sarebbe inequivocabile. Va da sè che le burocrazie di partito, con qualche nobile eccezione (se non sbaglio, Bersani), eludono questa domanda perché, come dimostrò a suo tempo l’opposizione presso che simbolica del centrosinistra al Porcellum, quel potere indiscriminato di nomina fa proprio gola a tutti loro, o quasi.
Cosa hanno da dire in merito i due contendenti del Corriere? Galli della Loggia si dichiara favorevole a un premierato forte, con una maggioranza parlamentare subordinata che ne garantisce stabilità ed efficienza. Cita la Camera dei Comuni britannica come esempio ideale. Gli sfugge che, non di rado quel parlamento è stato tripolare, con candidature scelte da assemblee di collegio, spesso tale da dare vita a coalizioni più o meno claudicanti, proprio come quella di oggi. Forse il modello che ha in mente è quello di alcuni paesi semiautoritari in cui il capo dell’esecutivo non è più un dittatore, ma viene eletto, con un parlamento che ne riflette il potere. Più persuasivo a me pare Onida, che invoca i checks and balances Usa, in cui a esecutivo forte corrisponde un parlamento altrettanto forte, con una netta separazione di poteri. Sfugge, invece, a entrambi che è in corso un processo di indebolimento non solo dei politici, ma delle istituzioni democratiche in tutto l’Occidente, a vantaggio di poteri chiamiamoli extraistituzionali e globalizzanti che, per quanto numericamente, ma non economicamente minoritari, menano la danza a dispetto dei più. In tal modo il premierato forte di Galli della Loggia in realtà assomiglia di più a una sorta di ceo. In questo contesto, cerchiamo di salvare il salvabile: la libera scelta dei cittadini dei propri rappresentanti che dovranno dare loro conto, in collegi elettorali piccoli.

Corriere 11.9.17
«Fuoco amico, Pisapia dice bene Concentriamoci sugli avversari»
di Daria Gorodisky

Domani si terrà l’incontro decisivo per la sorte di «Insieme», la sigla che dovrebbe unire l’Mdp di Bersani, Speranza, D’Alema, e il Campo progressista di Giuliano Pisapia. Sempre che vengano sanate le recenti incrinature tra i due giovani movimenti.
Miguel Gotor, senatore di Mdp, è fiducioso. Si aspetta che si passi attraverso «un chiarimento ineludibile che ponga fine allo stop and go » per arrivare a «un’assemblea costituente che dia vita a un nuovo soggetto politico». Un’assemblea le cui parole chiave devono essere «dal basso e partecipativa» e da celebrare «entro ottobre, perché il tempo stringe: Renzi vuole andare al voto con questa legge elettorale appena varata la legge di bilancio. Dunque abbiamo al massimo 6 mesi, e non possiamo permetterci di fare accademia. Usciamo tutti dal politicismo incomprensibile su nomi e formule. Auspico che dalla riunione esca un messaggio unitario, senza steccati o veti».
Gotor è certo che Pisapia «non poteva mettersi a fare il ruotino di scorta del duo Renzi-Alfano»: «Infatti venerdì ha dichiarato al Corriere due cose importanti e sulle quali, del resto, non avevo mai avuto dubbi. Il no all’alleanza con Alfano, sia a livello nazionale sia in Sicilia; e il no a un listone con il Pd».
L’ex sindaco di Milano aveva però anche stigmatizzato il «fuoco amico»: «Ha ragione — replica Gotor —. Ma è un problema comune. E sarebbe meglio che tutti ci concentrassimo sul fuoco degli avversari». Come quello del sottosegretario Davide Faraone, che sabato ha imputato Bersani di settarismo e di avere l’unico scopo di far cadere Renzi: «Trovo l’accusa di un esponente del giglio magico in salsa siciliana, come è Faraone, del tutto grottesca. In Sicilia è stato Renzi a rompere la prospettiva di centrosinistra, imbarcando ai più alti livelli una forza di centrodestra come quella di Alfano». Ma non è la stessa con la quale governano il Paese? «Qui siamo davanti a un’alleanza preventiva. E non nascondiamo il fatto che avviene per un mediocre fatto di potere con ricadute nazionali: le poltrone alle prossime Politiche e l’accordo sulla legge elettorale».

La Stampa 11.9.17
D’Alema: Renzi è una sciagura, va sconfitto

«Mdp non nasce per far perdere Renzi, perché per farlo perdere bastava lasciarlo fare come ha fatto, Renzi è stata una sorta di sciagura». Lo dice D’Alema. «Con Pisapia serve un chiarimento politico perché lui aveva in mente uno schema per cui si potesse andare alle elezioni col Pd, forse contendendo a Renzi la premiership andando alle primarie, ma questo schema non è nelle cose praticabili. Per l’obiettivo del nuovo centrosinistra dobbiamo sconfiggere Renzi»

Repubblica 11.9.17
Ermete Realacci
“Per Renzi non è vincente ma i giovani ci lasciano”

«Veltroni ha ragione. Nelle assemblee del partito non si parla più di ecologia, Renzi non lo considera un tema vincente e così perdiamo voti, soprattutto tra i giovani». Anche uno degli ultimi ambientalisti rimasti nel Partito democratico, Ermete Realacci, ammette che qualcosa non va.
Realacci, davvero nel partito non si parla più di ambiente?
«Sì, ma questo non è purtroppo solo un problema recente. A onore del vero anche lo slogan iniziale di Veltroni, quando lanciò il Pd come “il più grande partito ecologista d’Europa” è rimasto tale. E, dopo di lui, con Pier Luigi Bersani non è che l’ambientalismo sia stato una vera bandiera dei dem. Adesso però la situazione è peggiorata».
Cosa sta accadendo nel partito?
Perché non si parla di ambiente?
«Il vero limite del mio partito, e del suo segretario, è stato non fare dell’ambiente una priorità. La narrazione di Renzi ha perso per strada questo argomento. Secondo me un danno gravissimo, anche dal punto di vista elettorale: l’ambiente ha da sempre attirato il voto dei giovani, che non a caso stiamo perdendo. Quindi dal punto di vista della strategia politica per un partito di sinistra è sbagliato accantonare certi temi».
Lo “Sblocca Italia”, la posizione sulle trivellazioni, il ddl Falanga morbido sull’abusivismo. Secondo lei il Pd sta prendendo un’altra strada rincorrendo modelli diversi di sviluppo economico?
«Spero di no. E comunque in questa legislatura per merito del Pd sono state fatte cose importanti, penso alla norma sugli ecoreati, che vede me primo firmatario. Oppure alle leggi sull’eco bonus e sul recupero del patrimonio edilizio, grazie alle quali abbiamo creato 400 mila posti di lavoro in un’economia orientata al rispetto ambiente».
Allora cosa non va in questo Pd?
«Non c’è stata l’assunzione del tema ambientale come un argomento centrale per rilanciare lo sviluppo del Paese e orientare l’economia. Eppure il clima e l’ambiente sono anche una straordinaria occasione per costruire un’economia più a misura d’uomo. Spero che il partito se ne accorga finalmente ».
( a. fras).

Il Fatto 11.9.17
“Strategia e alleanze? Continuiamo così e la sinistra non ne uscirà”
Massimo Bray - “Su lavoro e Jobs act a Renzi serve un cambio: l’emergenza è la disoccupazione. Vanno creati nuovi posti, non agevolare i licenziamenti”
di Luca De Carolis

“Se continuiamo così la sinistra non ne uscirà. Manca una classe dirigente capace di definire un’agenda politica e un’idea del Paese. Bisogna ripartire dalla società, dalla cultura, dal volontariato, aprirsi all’esterno. E lavorare per un centrosinistra unito”. Massimo Bray è il direttore generale della Fondazione Treccani, ma è stato anche molto altro: ministro dei Beni culturali con Enrico Letta e deputato, vicino a Massimo D’Alema. Presiede la Fondazione per il libro, l’ente promotore del Salone del Libro di Torino.
Bray, la sinistra italiana è più frammentata che mai. Renzi da una parte, Pisapia ed Mdp che litigano quasi ogni giorno. Un disastro, no?
Di certo non è con i pretoriani di questo o di quel gruppo che si possono innovare la politica e la società. La sinistra va riunita attorno a un programma e a delle priorità comuni.
Lo scenario in Sicilia è davvero pirandelliano. Renzi si è alleato con Alfano, Mdp no, e Pisapia ha oscillato tra le due posizioni. Chi ha ragione?
Non si può continuare a ragionare solo di strategia e alleanze. Queste cose interessano solo agli addetti ai lavori, e fanno scappare gli elettori.
Andare o meno con Alfano non è indifferente.
Mi rifiuto di ragionare di politica in questo modo. Prima i programmi e sarà in quel momento, in base alle idee e alle scelte per il Paese, che distingueremo una sinistra da una destra. La gente vuole risposte ai problemi concreti, non alchimie tattiche.
Resta il fatto che l’ex sindaco di Milano tentenna parecchio. Come giudica il suo lavoro di “federatore” di questi mesi?
Apprezzo la sua tenacia. E lo apprezzo quando dice che non si candiderà, perché quello che gli interessa è costruire un centrosinistra che dia un futuro a questo Paese, e nel quale ci siano il Pd assieme alle altre forze di sinistra.
Pisapia ha bocciato il Jobs Act, Renzi ne ha fatto una bandiera. Come si fa a tenere assieme posizioni opposte?
Se il nostro principale obiettivo diventa come mandare via chi lavora, come vuole fare Macron in Francia con le sue riforme, non faremo passi avanti. Dobbiamo affrontare una grande disoccupazione giovanile: serve un cambio di rotta.
Dovrebbe convincere Renzi.
Il segretario del Pd deve aprire un tavolo di confronto con tutte le parti sociali, per ragionare sul futuro. È quello che ripete da tempo Pisapia, e che sostengono anche esponenti del Pd come molte parti sociali. Dobbiamo creare il lavoro, non agevolare i licenziamenti.
La sinistra ha promosso e votato le riforme nel segno della flessibilità, anche molto prima di Renzi.
Una sinistra innamorata dalla globalizzazione e delle privatizzazioni. Va ripensato il modello economico: in questi anni anche a sinistra abbiamo pensato che la finanza fosse la chiave per risolvere i problemi. Ecco perché il voto di protesta non è un voto populista, ma intercetta la necessità di vedere rappresentati i propri bisogni di sicurezza, di speranza, di futuro.
Intanto però un renziano di prima fila come Matteo Richetti invoca un listone con Alfano e Pisapia, ma senza Bersani e D’Alema, “perché loro vogliono solo dividere, non unire”.
Questi tatticismi sono roba da vecchia politica, che non aiutano a costruire il centrosinistra. Bersani e D’Alema rappresentano un pezzo importante di storia della sinistra e della politica italiana. Si può anche chiedere loro di fare un passo indietro, ma non è “rottamando” che si risolvono i nodi politici.
Ma si possono risolvere allargando il campo ? Alla Festa del FattoBersani ha di nuovo aperto ai 5Stelle: “Abbiamo bisogno di loro, dobbiamo dialogare e confrontarci”. Concorda?
Nell’esperienza per il Salone di Torino ho dialogato benissimo con la sindaca del M5S Chiara Appendino, come con il governatore Sergio Chiamparino del Pd. Assieme abbiamo dato voce agli editori, agli scrittori e ai lettori che volevano tutelare un bene comune della città.
Quindi dialogare con i 5S…
È assolutamente possibile lavorare assieme a loro.
E con la sinistra fuori dei partiti, con i comitati del No? Tomaso Montanari, una delle loro voci, è stato un suo collaboratore.
Io non penso che Tomaso abbia voglia di impegnarsi direttamente in politica. È un docente e uno studioso apprezzato. Credo che voglia continuare a fare il suo lavoro.
Resta il fatto che rappresenta un enorme bacino potenziale di voti…
Sono donne e uomini da ascoltare se vogliamo ripensare la politica, ripartendo dai temi della partecipazione e della cittadinanza. E i partiti devono aprirsi alle esperienze nate dal basso.
Ma non è che i partiti sono definitivamente morti?
Non lo so, anche se penso spesso a questo. Di certo devono cambiare, profondamente. E lo ripeto, devono farsi contaminare, senza paura di rinunciare a privilegi che li farebbero scomparire definitivamente.
Dia un giudizio sull’operato di Virginia Raggi come sindaco di Roma.
Ha trovato la città in condizioni difficili. E lo stato dei trasporti o della raccolta dei rifiuti non è colpa sua. Però per uscire da questa situazione servono scelte coraggiose. Far capire ai cittadini che abbiamo un’idea di come sarà Roma tra dieci anni. Bisogna ridare ai romani l’orgoglio di vivere qui.
Lei fu a lungo in ballo per candidarsi in quelle Comunali che hanno eletto Raggi.
Non c’erano le condizioni. Scelsi di non candidarmi per non dividere la sinistra.
Ma ora Bray, lei si ricandiderà alle Politiche? E con chi?
Io faccio un lavoro bellissimo, e voglio continuare a farlo. Continuerò a impegnarmi per un centrosinistra unito, e per la cultura. Questo è sufficiente.

Repubblica 11.9.17
La classe politica alla sbarra con Crainz e Della Loggia
Il dibattito tra i due storici ha chiuso la rassegna dedicata alla Comunicazione a Camogli. Polemica su Craxi
di Raffaella De Santis

CAMOGLI (GENOVA) Forse la crisi che stiamo attraversando risucchia tutto, attrae gli opposti. Forse parlare di declino non è più da catastrofisti ma da realisti, fatto sta che ieri al Festival della Comunicazione di Camogli, che si è chiuso dopo quattro giorni di dibattiti sul tema delle “connessioni”, ci si aspettava un ring e invece si è giocata un’amichevole. Alla manifestazione, condotta sul filo del ricordo di Umberto Eco che l’aveva ideata, hanno partecipato matematici, filosofi, giornalisti, imprenditori e i punti di vista sono stati spesso divergenti. Così, quando ieri mattina sono saliti sul palco Guido Crainz ed Ernesto Galli Della Loggia, ci si aspettava qualche attrito e invece i due storici sono stati insospettabilmente d’accordo quasi su tutto. «Credo che di fronte alla radicalità della crisi alcuni elementi di diversità vengano attutiti», ha detto Crainz. Al centro della discussione, sollecitata dalle domande di Pierluigi Vercesi, la desolata constatazione del declino italiano. D’altra parte tra i libri dei due relatori figurano titoli come Diario di un naufragio
(Crainz) o Il tramonto di una nazione (Galli Della Loggia). Tanti i mali enumerati durante l’incontro, dai problemi del Sud alla corruzione, al fallimento del nostro sistema educativo incapace di formare una classe dirigente. In primo piano la crisi del sistema partitico. La ricognizione delle disarticolazioni nazionali è stata impietosa e non ha risparmiato i capi dei più importanti partiti di massa del Novecento, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Il segretario della Dc è stato tacciato da Galli Della Loggia di “immobilismo”, mentre Berlinguer viene accusato di «aver distrutto la sinistra italiana imbottigliata nella questione morale». Per Crainz invece l’errore di Berlinguer è stato quello di non aver compreso dove andava il mondo: «L’ultimo Berlinguer è stato tragico, continuava a parlare alla classe operaia non accorgendosi che non esisteva più». Il 1984, anno della morte di Berlinguer, è per Crainz una data simbolica, quella che decreta la fine dei grandi partiti del Novecento. Dopodiché la parabola è nota: l’Italia diventerà quella dei talk show, del trash, di Ilona Staller in Parlamento. Berlusconi non viene citato, ma Craxi sì, ed è a quel punto, quando Della Loggia ne riabilita la figura («aveva capito molte cose sulla società»), che Crainz prende le distanze: «Forse aveva capito il Paese, ma dava risposte da bandito. Le sue parole erano slogan».
Duro l’affondo degli studiosi contro la classe politica degli ultimi due decenni. «Un ceto dirigente, nato negli anni’ 40, non è stato in grado di leggere le trasformazioni in atto», ha detto Crainz. Il pubblico accoglie con un applauso l’invettiva di Della Loggia contro i partiti che «hanno mandato a p... l’istruzione». Anche nei festival la sfiducia verso la classe politica è l’unico collante in grado di riaccendere lo spirito comunitario.

Corriere 11.9.17
Il romanzo segreto del caso Moro
Antonio Ferrari lo scrisse nel 1981, ma la pubblicazione fu sospesa. Esce adesso
di Francesco Cevasco

«Un rompiscatole della memoria». L’intrigante definizione è dell’ambasciatore Sergio Romano. E si attaglia perfettamente ad Antonio Ferrari, l’autore di Il segreto , questo libro ostinato e contrario in cui l’editorialista del «Corriere della Sera» racconta la verità sul delitto Moro.
Ostinato, dicevamo non a caso. Perché questo libro per trentacinque anni è rimasto sepolto nei labirinti delle case editrici. E nei labirinti che «il potere» ha abilmente costruito per nascondere tutto ciò che è scomodo.
Contrario, dicevamo non a vanvera. Perché questo libro racconta una verità che è contraria a quella che ci hanno voluto raccontare, per decenni, quasi per una quarantina d’anni.
La verità cercata è quella sul caso Moro, sul delitto Moro.
Bene, Aldo Moro «tira dentro», anche soltanto con l’astensione, pure «i comunisti» nella maggioranza di governo. Correva l’anno 1978. Insopportabile. Per i padroni del mondo occidentale d’allora, per i custodi degli accordi di Yalta e anche per i rivoluzionari delle Brigate rosse. Per i primi c’era il pericolo del vento dell’Est, una sorta di pacifica ma pur sempre «invasione rossa». Per i secondi il pericolo che venisse incrinato l’equilibrio su cui si fondava il potere dei protagonisti della Guerra fredda. Per i terzi il pericolo che il «compromesso storico» sfaldasse definitivamente, in Italia, lo spirito rivoluzionario che, nella classe operaia, tirava ancora qualche asfittico respiro.
Fatto sta che Moro viene eliminato. Ma prima di essere eliminato dal gioco della politica e dalla sua stessa vita passano cinquantacinque giorni. Di prigionia, di trattative, di ricatti, di imbrogli, di febbrili lavori — puliti e, soprattutto, sporchi, di tanti servizi segreti di tanti Paesi del mondo — fino al sospiro di sollievo che accompagna la sua morte. Contenti i sostenitori della fermezza della Stato italiano. Contenti gli americani (una parte) che tramavano affinché la verginità dell’Italia non venisse violata dai comunisti. Contenti i francesi che «in queste cose bisogna aver prudenza». Contenti gli israeliani che «noi osserviamo tutto ma lasciamo fare». Contenti quelli della Cecoslovacchia e di qualche altro satellite sovietico che «i conti tornano: certe cose non si possono cambiare superficialmente». Tutti contenti. E Aldo Moro è, inutilmente, morto.
Anche il Papa di allora, Paolo VI, che non era certo una tempra di rivoluzionario, ha lottato contro una morte ingiusta. Il suo appello agli «Uomini delle Brigate rosse» è rimasto inascoltato. Moro è morto. Doveva morire. Ecco il libro di Ferrari. Perché e chi? Perché uccidere Moro? E chi c’è dietro quell’orrendo complotto?
C’era una volta un albergo di Washington, il Marriott. Lì si trovarono, una sera, un grappolo di personaggi ambigui. Non tutti sapevano perché erano lì. Ma a reggere i fili che avrebbero mosso le marionette c’era il dottor Alfred Greninger (questo è un nome di fantasia). Jimmy Carter era presidente degli Usa. Ma a mister Greninger e alla sua Organizzazione quel presidente, «un venditore di noccioline», non piaceva proprio. Quelli del suo entourage (di Carter) che si occupavano di politica estera non avevano chiuso la porta in faccia a quel miserabile di Moro. Avevano detto un mezzo ok ai comunisti: nel governo no ma nella maggioranza... A Greninger, e alla sua Organizzazione, non bastava, bisognava fare in modo che «liberali, radicali e tutto quel marciume intellettuale che qui, in America, ascoltano tanto fossero zittiti. E i comunisti italiani? Dei pazzi intrattabili. Credono che si possano inquinare gli equilibri del mondo con teorie ridicole. Che cos’è il marxismo-leninismo libertario? Oppure il neocapitalismo comunista?».
Zittire, cancellare, sopprimere, con tutti i mezzi possibili.
E il complotto parte annodandosi ad altri interessi che, comunque, portano sempre allo stesso obbiettivo.
I personaggi del libro di Ferrari hanno (quasi) tutti un nome di fantasia. Ma, come ammette anche l’autore, è molto facile smascherarli. A cominciare da Ron J. Stewart che corrisponde a Ronald Stark agente di «un» servizio segreto americano che frequentò l’Italia ed entrò in contatto con i vertici delle Brigate rosse. È facile identificare Valerio Morucci e seguire le sue mosse di rigoroso capo dell’organizzazione che però celano inquietanti ambiguità. Come rivedere nel personaggio di Giusto Semprini uno di quei giovani disillusi del Pci e illusi dalle Br che credevano veramente in una possibile e giusta rivoluzione finché... O imbattersi in magistrati e poliziotti per bene che ci hanno rimesso la vita o la carriera. E in intellettuali contorti come Toni Negri. E in circoli culturali e politici (Kyrie nel libro, Hyperion nella realtà) che diventarono crogiuolo di esperienze diverse: convegni contro la repressione ma anche luogo d’incontro di spie di tutto il mondo, palestra del pensiero rivoluzionario ma anche zona franca per allestire complotti politici.
La ricostruzione del sequestro e del delitto Moro si sposta da Roma a Milano: giusto quanto basta per dire che questo libro è un romanzo e non un’inchiesta. Che poi romanzo, questo libro, lo è davvero. Una lunga storia dove la suspense non cede mai. Fino alle ultime otto righe, quando il lettore sperava di aver trovato un po’ di quiete, di aver appagato almeno in parte i suoi sentimenti di giustizia e invece...
La storia di come nasce Il segreto è un romanzo nel romanzo. La racconta bene Ferrari nella postfazione. C’è da sapere che l’autore, prima di essere inviato e poi editorialista di politica estera, negli anni Settanta e primi Ottanta si è occupato di terrorismo rosso e nero, due anni ha vissuto con la scorta. Si presume che certe vicende le conoscesse bene quando nel 1981, seduto alla scrivania che fu di Dino Buzzati, ricevette una telefonata dal sopravvissuto manager, Salvatore Di Paola, allo scandalo P2 che s’era abbattuto sul «Corriere». Più o meno gli disse: tu che sei persona per bene scrivi un libro, in questo momento può essere utile far vedere ai lettori che, nonostante tutto, siamo puliti. Per farla breve, Ferrari scrisse il suo libro, questo di cui stiamo parlando. Per farla breve, quando lo consegnò cominciò un gioco a nascondino tra i responsabili della casa editrice: rinvii e rinvii spesso immotivati. Per farla lunga, sono passati trentacinque anni da allora. In tutti questi anni Ferrari ha ricevuto minacce, più o meno esplicite, che in qualche modo si ricollegavano alle cose che sapeva e che aveva avuto il coraggio di scrivere e il coraggio di volerle pubblicare. Bene, ora la storia è finita. Il libro è stampato. Quell’Araba Fenice che è la commissione parlamentare sul delitto Moro, che ogni tanto risorge com’è successo da poco, oggi ha fatto proprie alcune tesi di Ferrari. E, forse, Il segreto è un po’ meno segreto.

Corriere 11.9.17
Il lettore capirà tutto. Ve la sentite?
di Antonio Ferrari

«Fermati, Salvatore. Mi devi ascoltare. Racconterò alcuni segreti che si nascondono dietro l’assassinio di un leader politico. Immagini già chi è. Non farò nomi, neppure di lui. Altererò i tempi, il luogo della strage, le decisioni delle Brigate rosse. Non è pura fantasia: intreccerò alcune confidenze che ho ricevuto da alcuni magistrati, preziose notizie ignorate dai giornali e indiscrezioni davvero piccanti, con una trama parallela. Ti avviso che chi leggerà capirà tutto. Te la senti? Ve la sentite? Sei sicuro?».
«Te l’ho detto e te lo ripeto. Carta bianca. Ti prendo l’appuntamento per domattina».
Credo che qualsiasi autore sarebbe stato felice di tanta generosità e di tanta fiducia. (...)
Alla fine quel romanzo, che ha più di trentacinque anni, non è mai stato pubblicato, come avevano previsto gli amici ai quali l’avevo fatto leggere. Persone di cui mi fidavo, e che erano state generose: alcune di informazioni davvero scottanti, altre di preziosi consigli. «Antonio — mi dissero —, ci vogliono molto coraggio, una dose smisurata di anticonformismo e la determinazione di colpire i vari poteri per pubblicare questo libro».
Eccomi qui, trentacinque anni dopo, con i capelli bianchi ma l’intatto desiderio di condividere con i lettori (in primo luogo i giovani, che di quegli anni sanno poco o niente, ma anche i «diversamente giovani», che invece ricordano quasi tutto) una storia che oggi non fa più scandalo (...). La storia che non si poteva scrivere, oggi, è persino meno traumatica di quanto sta emergendo dai lavori della commissione parlamentare. Il delitto Moro fu una grande porcheria internazionale.

Corriere 11.9.17
La vignetta antisemita di Netanyahu Jr
Il figlio del premier attacca George Soros con un’immagine che fa discutere e divide Israele
di Davide Frattini

Il nonno Benzion ha studiato per tutta la lunga vita – è morto a 102 anni – l’accanimento dell’Inquisizione spagnola nel perseguitare gli ebrei. Il padre Benjamin considera la lotta contro l’antisemitismo una missione personale. E avrà pur chiesto conto a Yair di quella vignetta pubblicata sabato sulla pagina Facebook, dove un George Soros ghignante muove come marionette i critici del primo ministro israeliano: ci sono tutti i simboli – denuncia l’Anti-Defamation League – delle campagne che vogliono denigrare e diffamare il popolo ebraico come il controllore del mondo, compreso un mercante che si sfrega le mani e una specie di rettiliano pronto a conquistare il pianeta Terra.
Netanyahu ne avrà forse discusso con i figlio maggiore tra le mura della residenza a Gerusalemme, fino ad ora si è rifiutato di condannare il messaggio in pubblico. Anche se la sortita digitale ha già raccolto sostenitori imbarazzanti: è stata condivisa da David Duke, ex capo del Ku Klux Klan e negatore dell’Olocausto, e rilanciata dal sito neo-nazista Daily Stormer che la definisce «fantastica». «Un giorno davvero triste», commenta Avi Gabbay, leader del partito laburista. Mentre Ehud Barak ¬– che nella vignetta viene ritratto con i soldi in mano – si chiede se Yair «abbia bisogno di uno psichiatra, forse dovremmo trovargliene uno invece delle guardie del corpo e dell’autista». Il riferimento dell’ex premier e soldato più decorato della Storia del Paese è alla polemiche sui costi – a carico del contribuente – per proteggere e scarrozzare il giovane Netanyahu, che a 26 anni vive con i genitori nel palazzo ufficiale del primo ministro.
Le altre «marionette» sono gli organizzatori delle proteste per chiedere che le inchieste attorno al premier – gli investigatori lo sospettano di corruzione e abuso d’ufficio – vengano accelerate e il procuratore generale dello Stato prenda una decisione. Per ora Avichai Mandelblit vuole incriminare Sarah – la moglie e madre – per le spese pubbliche eccessive, quasi 100 mila euro, in pranzi e feste offerti ad amici e sostenitori, eventi che la signora Netanyahu ripete sono stati organizzati come parte delle cerimonie ufficiali.
Soros è tra i bersagli di famiglia perché attraverso la Open Society Foundations sponsorizza le organizzazioni per i diritti umani e civili che sostengano «la giustizia, l’educazione, la stampa libera». In Israele il 19° uomo più ricco del mondo – fuggito con la famiglia nel 1944 prima che le deportazioni ordinate dai nazisti in Ungheria sterminassero mezzo milione di ebrei – investe i suoi dollari per appoggiare B’Tselem o Breaking the Silence, gruppi che denunciano gli abusi contro i palestinesi e che il governo di destra guidato da Netanyahu considera come nemici interni.
Le sortite di Yair preoccupano perché – scrivono i giornali israeliani – il giovane sta prendendo sempre più peso tra i consiglieri politici (all’inizio l’incarico era costruire e controllare l’immagine del padre sui social media). Un mese fa era già stato criticato per un altro comunicato personale via Facebook che aveva firmato con due emoji-insulto. Rispondeva alle accuse di non aver raccolto i bisogni del cane adottato dai Netanyahu.

Repubblica 11.9.17
Alice e lo scandalo della mail neo-nazi la lady dell’ultradestra scuote Berlino
Nuovo caso politico per l’Afd: “Merkel è schiava dei vincitori della Seconda guerra mondiale”
I membri del governo definiti “maiali” che puntano “alla distruzione della società borghese”
E ancora: “Arabi e rom, sarà guerra civile”. Lei smentisce, la Welt conferma: “Abbiamo le prove”
di Tonia Mastrobuoni

BERLINO. Durante un incontro recente con la stampa estera, Alice Weidel, leader sedicente “ur-liberal”, “arci-liberale” e dichiaratamente lesbica, ex asso della finanza e “volto presentabile” della destra populista tedesca, aveva respinto con indignazione una domanda sul suo razzismo: «Le ricordo che la mia compagna è dello Sri Lanka». Adesso viene fuori che la “faccia d’angelo” dell’Afd ha un passato da complottista xenofoba che la partner asiatica e gli ex colleghi di Goldman Sachs sembrano aver attenuato ben poco.
Quando lavorava a Francoforte per il colosso delle assicurazioni tedesche Allianz, ma non faceva ancora parte dell’Afd, fu allontanata da alcuni conoscenti per le sue idee estremiste. E la
Welt ha pubblicato un’incredibile email di quegli anni, spedita a un certo “J”, in cui esprime pensieri deliranti che rimandano al patrimonio più becero dell’estrema destra. Certo non a un partito conservatore o libertario cui Weidel sta tentando disperatamente di imprimere un’immagine che somigli alla sua fisionomia da brava ragazza e ai suoi tailleur da sartoria.
«La ragione per cui siamo invasi da popoli kulturfremd, “estranei alla cultura” come gli arabi, i sinti e i rom, è colpa dei nemici della costituzione che ci governano e che puntano alla sistematica distruzione della società borghese», scrive Weidel il 24 febbraio del 2013. Aggiungendo che «questi porci» - ossia i membri del governo Merkel - altro non sarebbero «che le marionette delle potenze vincitrici » della Seconda guerra mondiale.
La strategia, sostiene l’economista che, per inciso, ha guadagnato soldi a palate nell’alta finanza delle ‘potenze vincitrici’, «è umiliare il popolo tedesco favorendo guerre civili molecolari nelle città attraverso l’arrivo di stranieri (Weidel usa il termine nazistoide Ueberfremdung, che da solo fa venire i brividi).
La riga dopo, Weidel consiglia a “J” di leggere un sito, terra- kurier, di uno squilibrato berlinese che farebbe invidia a
Breitbart. Una pagina web in cui compaiono fantomatiche prove dell’esistenza degli ufo e di un complotto sull’11 settembre, quando gli americani si sarebbero auto-inflitti l’attentato alle Torri gemelle. E, a proposito del violento bombardamento della Dresda nazista da parte degli alleati, a febbraio del 1945 - una pioggia di fuoco che fu spesso oggetto di discussione anche dopo la guerra perché si abbatté su un Paese già finito e ispirò capolavori di soldati americani finiti prigionieri lì come un certo Kurt Vonnegut - terra- kurier parla di “olocausto”. Una bestemmia tipica della cultura estremista.
Un’altra teoria presa a prestito da una branca moderna della feccia bruna, quella dei “Reichsbuerger” che si trastullano con l’idea che i confini del Reich del 1937 siano ancora legali, è quella di una Germania che dopo la Seconda guerra avrebbe perso la propria sovranità. È una tesi che permea la mail di Weidel. Lei ha accennato anche pubblicamente al fatto che «Merkel dovrebbe essere processata», ma non ha mai precisato per cosa. Se lo facesse, incorrerebbe nel rischio di una sonora querela.
Per la capa più presentabile dell’Afd, un imbarazzo enorme. Ieri l’avvocato ha parlato di un falso e minacciato di trascinare la Welt in tribunale negando che la mail sia attribuibile a lei, ma il quotidiano ha raccontato che l’Afd aveva chiesto due volte di rimandare l’articolo. Qualche giorno fa la candidata alla cancelleria ha fatto parlare di sé abbandonando un talk show con una scusa, proprio mentre la moderatrice le stava chiedendo di prendere le distanze da Bjoern Hoecke, leader dell’Afd in Turingia. Un noto antisemita che ha definito il monumento berlinese all’Olocausto «una vergogna» e dichiarato che non tutto di Hitler è da buttar via.
Il destinatario del rabbioso sfogo di Weidel giura che la mail è originale e fa notare che la leader Afd si firma con “Lille”, il soprannome che usano i suoi amici. Nello scambio più ampio di opinioni, che avveniva in un giro più largo di conoscenti e amici, Weidel pare si contraddistinguesse spesso per le sue tesi radicali. Tanto che due donne del giro scrissero una lettera pubblica e ruppero con lei.
Sul web, tra i sostenitori del partito anti islamico e xenofobo, è partita ieri pomeriggio la solita caccia al complotto. Ma molti utenti di tutt’altro orientamento politico hanno preferito ricordare che tra due settimane a Weidel e ai suoi sodali complottardi tendenza nazi, riuscirà l’impresa più temuta: l’ingresso nel Bundestag. Nei sondaggi, l’Afd oscilla tra l’8 e l’11%, ben al di sopra della soglia di sbarramento del 5%.

Repubblica 11.9.17
Sylvi Listhaug e il voto di oggi in Norvegia
E la leader di Oslo “La nostra ricetta contro gli immigrati”
intervista di Andrea Tarquini

ELEZIONI parlamentari col fiato sospeso oggi in Norvegia. Gli ultimi sondaggi danno la coalizione dei conservatori della premier Erna Solberg, dei progressisti (liberali ma antimigranti, come tutte le nuove destre scandinave) e di alleati minori a 87 seggi contro gli 86 dell’eterogeneo blocco di sinistra del leader laburista Jonas Gahr Stoere: la
suspence è alta, per i dubbi sulla tenuta dei partiti minori e l’incertezza tra voglia di continuità o di alternanza. Dal 2013 la Solberg ha governato bene: uso dei soldi del fondo sovrano più ricco del mondo e addio dolce al petrolio per compensare il crollo dei prezzi del greggio e lo shock dei costi dell’immigrazione. La polemica è alta. Personaggio-chiave del voto è la giovane e combattiva leader della nuova destra, Sylvi Listhaug.
Va cambiato il modello scandinavo?
«La Norvegia è un grande paese, con un welfare che si cura dei cittadini e servizi pubblici ammirati dalla maggior parte del mondo. Ma l’immigrazione crea problemi. Un welfare generoso e un’immigrazione forte non possono coesistere, lo abbiamo visto in diversi paesi. Perciò sono importanti leggi restrittive sull’asilo e la migrazione, e occorre garantire che migranti non bisognosi di protezione siano respinti ».
Quanto ritiene pericoloso il problema migranti?
«La maggior parte di loro rispetta le leggi e si integra. Ma alcuni no, molti restano fuori dal mercato del lavoro, diventano dipendenti dai sussidi, alcuni cadono nel mondo del crimine. E i valori norvegesi e occidentali di libertà d’espressione e religione e gender equality sono essenziali. Purtroppo vediamo forze ostili a tali valori, usano la libertà per imporre alla moglie burqa o niqab. Incompatibile, credo, coi valori norvegesi».
Preferisce continuare la coalizione coi conservatori o andare all’opposizione se il labour vince?
«Abbiamo governato bene: meno tasse, più strade scuole e ospedali. Nel mezzo della crisi dell’immigrazione, introducendo le leggi più severe. Spero che gli elettori ci diano altri quattro anni».
In Norvegia come altrove la sinistra sembra in difficoltà. Come va con Stoere?
«Mi sembra abbia perso il contatto con gli elettori, parla di crisi dell’occupazione quando abbiamo uno dei tassi più bassi d’Europa. La gente vede invece la crisi dell’immigrazione: è un problema per le sinistre se tengono solo alla political correctness anziché parlare di fatti reali».
Quanta Europa e quanta sovranità nazionale propone?
«Ci serve il commercio con l’Europa, per garantirci la sicurezza dell’export, ma dobbiamo anche garantire che la Norvegia conservi la sovranità nazionale. Ogni paese è meglio che risponda da solo alle sfide che affronta».

Repubblica 11.9.17
I neonazisti hanno sfilato per le vie di Charlottesville, in Virginia, brandendo fiaccole e scandendo slogan sulla supremazia della razza bianca,
Il potere dei monumenti
di Ian Buruma

L’AGGHIACCIANTE spettacolo dello scorso agosto, quando dei neonazisti hanno sfilato per le vie di Charlottesville, in Virginia, brandendo fiaccole e scandendo slogan sulla supremazia della razza bianca, era stato innescato dalla decisione di abbattere una statua di Robert E. Lee, il generale della Confederazione sudista che durante la Guerra civile americana si batté a favore della schiavitù. È dal 1924 — epoca in cui il linciaggio dei cittadini di colore non era certo una rarità — che il generale Lee siede in sella al suo cavallo.
Sulla scia degli eventi di Charlottesville, anche in Gran Bretagna si sono levate voci a favore della rimozione della statua dell’ammiraglio Nelson dalla famosa colonna di Trafalgar Square, a Londra. Questo perché l’eroe britannico era favorevole alla tratta degli schiavi. Due anni fa alcuni manifestanti avevano reclamato la rimozione dall’Oriel College dell’Università di Oxford di una scultura raffigurante Cecil Rhodes, che lì un tempo aveva studiato, perché le sue opinioni sulla razza e l’impero sono considerate oggi riprovevoli.
Questo tipo di iconoclastia possiede da sempre un che di magico, in quanto poggia sulla convinzione che distruggendo un’immagine si possano in qualche modo risolvere i problemi a essa associati. Quando nel XVI secolo i protestanti inglesi sfidarono il potere della Chiesa cattolica romana, orde di cittadini armati di picconi e asce mandarono in frantumi statue di santi scolpite nella pietra e altre raffigurazioni sacre. I rivoluzionari del XVIII secolo fecero altrettanto con le chiese di Francia. L’esempio più drastico di questo fenomeno si è verificato poco più di cinquant’anni fa in Cina, dove la Guardia rossa distrusse i templi buddisti e diede alle fiamme i testi confuciani, insieme a tutto ciò che apparteneva alla tradizione, per far strada alla Rivoluzione culturale.
È facile deplorare distruzioni simili, che hanno portato alla scomparsa di edifici e opere d’arte di valore. Si sarebbe tentati di presumere che solo coloro che credono nel magico potere delle immagini possano desiderare di cancellarle. Per confrontarsi con i monumenti del passato bisognerebbe considerarli semplicemente testimonianze della storia.
Ma non è semplice. Chi potrebbe mai sostenere che le strade e le piazze delle città tedesche dovrebbero continuare a essere intitolate ad Adolf Hitler? Togliere di mezzo le sculture del Führer o, dopo il 1989, di Stalin e dei loro tirapiedi non è stato semplicemente un gesto infantile. Si potrebbe sostenere che da un punto di vista artistico tali immagini non fossero paragonabili alle grandi chiese dell’Inghilterra medievale o alle sculture buddiste in Cina. A dire il vero, però, neanche le statue del generale Lee meriterebbero di essere conservate per il loro valore artistico.
La questione è dove fissare il limite: le figure storiche andrebbero giudicate in base alla quantità di sangue di cui si sono macchiate? O sarebbe forse il caso di stabilire parametri cronologici? I monumenti che celebrano personaggi infami di cui oggi si conserva viva la memoria e il cui ricordo può ancora causare dolore ai sopravvissuti devono essere eliminati. Gli altri andrebbero consegnati alla storia. Ma nemmeno così funzionerebbe. Con il passare del tempo, l’argomentazione a favore della conservazione di una scultura di Hitler in un luogo pubblico (ammettendo che ancora ne esistano) non acquista nuovo vigore.
Molti di coloro che vivono nel Sud degli Stati Uniti ritengono che i monumenti confederati andrebbero protetti in quanto testimonianze del passato e parte di una storia condivisa. Il problema, tuttavia, è che la storia non è sempre neutra e può continuare a essere tossica. Il modo in cui raccontiamo il passato e teniamo vivi i ricordi attraverso alcuni manufatti culturali riflette in gran parte il modo in cui una società, collettivamente, si vede. Ecco perché tali rappresentazioni richiedono un certo grado di consenso. Un consenso che spesso, soprattutto quando c’è stata di mezzo una guerra civile, non esiste.
Il caso della Germania del dopoguerra è eloquente: sia la Germania dell’Est che quella dell’Ovest hanno voluto definire il loro futuro collettivo in diretto contrasto con il passato nazista. Solo una frangia di indignati continua a rimanere attaccata ai ricordi del Terzo Reich. E tuttavia le autorità tedesche hanno messo al bando l’esibizione di raffigurazioni naziste, per timore che queste possano avere effetti contagiosi e indurre le persone a ripetere gli episodi più cupi della loro storia. È una paura comprensibile, e non del tutto irrazionale. Con il progressivo sbiadirsi dei ricordi dei vivi, una simile tentazione potrebbe addirittura guadagnare forza.
Il passato recente della Gran Bretagna è meno traumatico, e oggi le opinioni di Cecil Rhodes o dell’ammiraglio Nelson, per quanto convenzionali alla loro epoca, non sono più in voga. È altamente improbabile che ammirando Nelson in cima alla sua colonna o passando di fronte all’Oriel College di Oxford i britannici di oggi decidano di farsi promotori della schiavitù o di fondare un impero in Africa.
Il Sud degli Stati Uniti, invece, rappresenta ancora un problema. I vinti della Guerra civile non hanno mai realmente accettato la loro sconfitta, e per molti (certo non per tutti) la causa confederata e i monumenti che la celebrano sono ancora parte dell’identità collettiva. E anche se oggi nessuno dotato di senno propugnerebbe il ritorno della schiavitù, la nostalgia per il vecchio Sud rimane venata di razzismo. Ecco perché le statue del generale Lee poste di fronte ai tribunali e in altri spazi pubblici sono nocive, e perché molti, compresi i liberal del Sud, vorrebbero vederle rimosse.
Non esiste una soluzione perfetta a questo problema, proprio perché non si tratta di una semplice questione di immagini scolpite nella pietra. Il risentimento, nel Sud, è una questione politica. Le ferite della Guerra civile sono ancora aperte, e gran parte di questa regione è più povera e meno istruita di altre zone degli Usa. I suoi abitanti si sentono trascurati e guardati con sufficienza dalle élite urbane che popolano le due coste del Paese. Ecco perché così tanti hanno votato per Donald Trump. Buttare giù qualche statua non risolverà la questione, e potrebbe addirittura peggiorare le cose.
(Traduzione di Marzia Porta)

La Stampa 11.9.17
Tra estasi e follia i 100 anni dell’avventura novarese del poeta Dino Campana
Dopo la detenzione nel castello, davanti a Casa Bossi compose di getto una delle sue liriche più famose
di Marcello Giordani

Uno che dedica una poesia a una montagna e a una cupola non può che essere matto, e come tale va incarcerato. Pensato, detto e fatto esattamente cento anni fa a Novara, vittima Dino Campana, il «poeta maledetto», misconosciuto in vita e riscoperto con mezzo secolo abbondante di ritardo come uno dei grandi autori della letteratura italiana del Novecento.
E’ il 1917, la Prima guerra mondiale è agli sgoccioli. Campana, toscano dell’Appennino di Marradi, è un genio incompreso, un caratteraccio che non accetta le mezze misure, scottato dagli intellettuali raffinati fiorentini del Caffè delle Giubbe Rosse che gli hanno perso il manoscritto su cui aveva raccolto le poesie che confluiranno nei «Canti orfici»; ustionato dall’amore perché la passione per la scrittrice Sibilla Aleramo, una relazione «appassionata e delirante», è finita, ma il poeta non sa rassegnarsi. Senza soldi, col cuore a pezzi, va alla ricerca della donna amata. Il 10 settembre ha ricevuto a Marradi una lettera spedita dalla Aleramo dalla «Pensione Alpi, Ca’ di Ianzo, Novara». Prende il primo treno per il Piemonte ma il viaggio va a vuoto. La scrittrice ha già lasciato l’albergo.
Alla stazione di Novara l’attende un’altra brutta sorpresa: i gendarmi lo scambiano per un disertore o uno sbandato, forse per un tedesco, e lo mettono in manette al Castello, in quegli anni sede del carcere. Ma è Sibilla Aleramo ad intervenire per la liberazione del poeta, il 14 settembre.
Scarcerato, torna di nuovo alla stazione col foglio di via per Marradi: ha 24 ore per presentarsi ai carabinieri della caserma toscana. Così si concede un’ultima passeggiata e sul Baluardo, di fronte a Casa Bossi, uno dei capolavori dell’Antonelli, arriva la folgorazione: guarda verso nord e vede lo skykline delle Alpi con il Monte Rosa al centro, il «macigno bianco» come lo definisce nella poesia che compone subito dopo, di getto, affascinato dalle montagne dell’Ossola e dalla torre di San Gaudenzio che «instaura un Pantheon aereo».
Le visioni di Campana resteranno per decenni ai margini della letteratura e l’anno dopo finirà all’ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci, a Scandicci. Gli psichiatri lo bollano con una sentenza senza appello: ebefrenia, una forma incurabile di psicosi schizofrenica. Morirà in ospedale nel 1932.
La vicenda novarese di Campana verrà ricordata 100 anni dopo: giovedì 14 settembre, alle 18,30, a Casa Bossi, grazie al Centro Novarese di Studi Letterari, al Comitato d’Amore per Casa Bossi e all’Atl di Novara, riecheggeranno di nuovo i versi del poeta e verranno lette da Ezio Ferraris alcune delle pagine che gli ha dedicato Sebastiano Vassalli. L’editore Roberto Cicala racconterà i giorni novaresi di Campana e il critico Raul Capra ne svelerà un enigma.

Repubblica 11.9.17
Se le tabelle dei sentimenti ci strappano un sorriso
di Valerio Magrelli

QUELLO delle università anglosassoni che studiano il comportamento umano, è diventato ormai un autentico genere letterario. Più il campo è complesso, meno dubbi vengono sollevati; più il discorso si fa articolato, meno ci si interroga sulle metodologie e sui loro rischi.
Certo, i lavori pubblicati sono tanti e viene spontaneo, con una certa malizia, fermarsi sempre sui più discutibili.
Tuttavia, tranne ovvie e per fortuna numerose eccezioni, talvolta sembra di imbattersi in vere e proprie barzellette, tanto che verrebbe spontaneo pronunciare la fatidica frase: la sai l’ultima?
L’ultima, in questo caso, è che un dottorando in neuroscienze della University of California di Berkeley ha presentato uno studio secondo cui le emozioni non sarebbero solo sei (ma poi perché questo preciso numero e non un altro?), bensì ventisette. Da qui una fondamentale precisazione: “Il nostro arcobaleno emotivo è più ricco di quanto siamo portati a credere”. Chi l’avrebbe mai detto! Quando si dice la sapienza accademica… Davanti a considerazioni così piatte, l’unica risposta plausibile è il sorriso. Ricordo un libro di qualche anno fa,
Filosofia e emozioni
(Feltrinelli 1999), in cui alcuni studiosi analizzavano, con ben altro rigore, un terreno tanto delicato, sfumato, inafferrabile per definizione. Uno di loro, Remo Bodei proveniva tra l’altro da un lavoro intitolato
Geometria delle passioni,
dove indagava in una prospettiva politica moventi quali la paura, la speranza, la felicità. È così che si studia seriamente, quando al centro della ricerca sta un oggetto su cui il pensiero si interroga da millenni. Altro che numeri sorteggiati a caso!
A questo punto, fantasia per fantasia, meglio sarebbe citare un classico: il felicissimo cartone animato del 2015, Inside out. Nella mente della bambina protagonista, una undicenne del Minnesota, vivono cinque emozioni: Gioia, Disgusto, Paura, Rabbia e Tristezza, che dirigono la sua mente agendo su una consolle piena di pulsanti. Ecco, a livello universitario, credo che un film del genere meriterebbe certo più attenzione.

Repubblica 11.9.17
La mappa delle nuove emozioni
Le fondamentali finora erano sei: rabbia, disgusto, paura, tristezza, felicità e sorpresa
Per gli scienziati ora sono molte di più: ben 27
Nella top list entrano anche meraviglia nostalgia, imbarazzo, calma e gioia
di Giuliano Aluffi

IN principio era la meraviglia. E dalla ricerca sulla meraviglia sono scaturite tutte le altre emozioni, che fanno parte della nostra giornata in un numero ben più ampio di quanto si pensasse finora in psicologia: sarebbero infatti 27 le fondamentali categorie emotive e non solo sei. Lo suggerisce uno studio pubblicato su Pnas da neuroscienziati della University of California di Berkeley, che arriva dopo un decennio di ricerche sulla meraviglia svolte da Dacher Keltner, coautore anche del nuovo studio. Le “nuove” emozioni, o perlomeno quelle celebrate dall’arte di tutti i tempi ma finora poco sondate dalla scienza, sono interessanti perché possono nascondere dei superpoteri: ad esempio all’University of California si è visto che chi assiste a uno spettacolo che ispira meraviglia (come uno sguardo verso l’alto quando si è ai piedi di eucalipti alti 60 metri) tende a sentirsi più generoso e più connesso agli altri. E chi prova lo stesso quando è ai piedi di un maestoso scheletro di tirannosauro, si descrive più come parte di un gruppo che come individuo. Il senso del sé si dissolve.
Ecco perché i ricercatori californiani hanno voluto stabilire la reale varietà del nostro alfabeto emotivo. E lo hanno fatto mostrando a 853 uomini e donne 30 videoclip (estratti da una collezione di 2.185 video), di durata da 5 a 10 secondi, con situazioni per suscitare emozioni: baci, matrimoni, nascite, scenette comiche, posti lugubri, serpenti, disastri naturali, gesti goffi. I partecipanti al test erano divisi in tre gruppi. Al primo gruppo è stato chiesto di descrivere liberamente la propria reazione emotiva per ogni video. Il secondo gruppo ha invece classificato ogni video in riferimento a una ricca “palette” di 34 emozioni (come ammirazione, adorazione, ansia, imbarazzo e noia). Si è così visto che le risposte convergevano verso 27 emozioni distinte, delle 34 proposte inizialmente. Al terzo gruppo è stato chiesto di riportare la loro risposta emotiva ai video in una scala da 1 a 9. Le risposte che i ricercatori avevano raccolto dai primi due gruppi, e quindi le 27 categorie, erano sufficienti per prevedere tutte le risposte del terzo gruppo: quindi le 27 emozioni possono essere considerate come un nuovo alfabeto emotivo, le cui combinazioni bastano a comporre ogni altra sensazione.
«C’è da dire che gli 800 partecipanti all’esperimento erano americani, quindi l’universalità delle nostre 27 categorie emotive non è ancora assicurata, anche se gli studi cross-culturali precedenti suggeriscono che non dovrebbero esserci differenze rilevanti attraverso il mondo» spiega Alan Cowen, dottorando in neuroscienze alla University of California e coautore con Dacher Keltner dello studio. «Soprattutto per emozioni come disgusto, dolore empatico, paura, amore romantico, che troviamo pressoché inalterate in tutto il mondo. Ma ora dovremo studiare come variano i confini e le sfumature tra queste emozioni, più che le emozioni stesse».
Per farlo, i ricercatori californiani hanno costruito una mappa dove ogni video è rappresentato da un puntino colorato a seconda dell’emozione principale che ha suscitato: «In contrasto all’idea classica che le emozioni occupino compartimenti stagni, la mappa risultante dall’esperimento ci mostra una contiguità, una interconnessione tra le emozioni » osserva Cowen. «Ad esempio: ci sono tante gradazioni emotive che permettono di partire dalla gioia e arrivare alla tristezza passando attraverso il divertimento, paura».
L’indagine svolta a Berkeley sull’esatto numero di corde emotive da cui sale la mutevole melodia della nostra vita interiore può stimolare ricerche più specifiche e approfondite in ognuna delle “nuove” dimensioni emotive, come sta facendo Keltner dal 2003 lavorando sulla meraviglia e i suoi effetti psicologici. E può avere applicazioni pratiche in medicina: «Riconoscere il fatto che il nostro comportamento quotidiano può essere influenzato così tante emozioni può portare a un’evoluzione nelle terapie psichiatriche» commenta Cowen. «Riconoscere che il nostro arcobaleno emotivo è più variopinto di quanto si credesse potrà spingerci a cercare cure più specifiche per restituirgli tutti i suoi colori».
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Con le combinazioni di questo nuovo alfabeto emotivo si può comporre ogni altra sensazione

Repubblica 11.9.17
Fu Borges a considerarlo il pioniere di un genere che avrebbe segnato il ’900 E, tra demoni ed eclissi, la madre dello scienziato finì accusata di stregoneria
Così Keplero sognando la luna inventò la fantascienza
di Piergiorgio Odifreddi

Tra i successori, infine, i migliori proseguimenti del Sogno furono le Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Bernard de Fontenelle del 1686, che citava indirettamente Plutarco, e
L’Osservatore cosmico di Christiaan Huygens del 1698, che citava direttamente Keplero.
Quest’ultima opera si può considerare una vera e propria continuazione di quella di Keplero, essendo anch’essa una fantasia letteraria partorita da un grande scienziato, con precisi intenti divulgativi. In questo caso, per illustrare come si sarebbe vista la volta celeste non più soltanto dalla Luna, ma dai vari pianeti del Sistema Solare e dai relativi satelliti.

Nel 1593 Keplero, ancora studente, ma già interessato alle cose celesti, si propose uno stimolante esperimento di pensiero: immaginare come si sarebbe vista la volta celeste se la si fosse osservata dalla Luna. Scrisse un breve saggio, intitolato “Astronomia lunare”, che lasciò a lungo nel cassetto per dedicarsi ad altre imprese. Pubblicò infatti nel 1596 il “Mistero cosmografico”, che proponeva una deduzione geometrica a priori della struttura del Sistema Solare. E nel 1609 l’”Astronomia nuova”, che annunciava al mondo la scoperta empirica a posteriori delle sue due prime leggi.
Solo nel 1611 l’ormai maturo astronomo riesumò il suo saggio giovanile e lo estese nel Sogno, un racconto che Jorge Luis Borges ha identificato come l’inizio della fantascienza moderna. Il manoscritto fu pubblicato postumo nel 1634, con una lunga serie di note esplicative aggiunte fra il 1621 e il 1630.
Ma fin da subito iniziò a circolare privatamente e sembra essere stato responsabile, almeno in parte, delle accuse di stregoneria rivolte alla madre dello scienziato. Accuse che nel 1617 portarono a un processo durato anni, nel quale il figlio stesso assunse la sua difesa e riuscì infine a farla scagionare.
D’altronde, il racconto faceva allusioni esplicitamente autobiografiche: ad esempio, mandava il protagonista a lavorare per qualche anno a Uraniborg con Tycho Brahe, come aveva effettivamente fatto lo stesso Keplero. Si poteva dunque sospettare che fosse veritiera anche la parte in cui la madre praticava riti magici per evocare gli spiriti o i demoni, che scivolano sui coni d’ombra delle eclissi di Luna per andarci dalla Terra, e delle eclissi di Sole per tornare.
Proprio a uno di questi demoni è affidata la spiegazione dell’astronomia lunare che Keplero voleva divulgare «come argomento a favore del moto della Terra e confutazione delle obiezioni elaborate dalla generale avversità della gente», e che si può così riassumere.
Poiché il periodo di rotazione della Luna su se stessa è uguale al suo periodo di rivoluzione intorno alla Terra, pari a circa quattro settimane terrestri, essa volge sempre la stessa faccia a noi. Dalla faccia invisibile della Luna, dunque, la Terra non si può mai vedere. Da quella visibile, invece, la si vede sempre, con uno spettacolo grandioso.
Da lassù la Terra appare infatti non solo colorata, ma anche una quindicina di volte più grande e luminosa di quanto la Luna appaia quaggiù, avendo un raggio quasi quattro volte maggiore. Inoltre è perennemente fissa nel cielo, a causa della fissità della sua faccia visibile, ma è costantemente cangiante d’aspetto, a causa della sua rotazione giornaliera e delle sue fasi mensili, che sono uguali e contrarie a quelle della Luna vista dalla Terra.
In particolare, la rotazione terrestre fornisce ai lunatici una misura naturale di suddivisione del giorno e della notte lunari, pari a circa venticinque ore terrestri. Così come la sua altezza nel cielo fornisce una misura naturale della latitudine. E la separazione fra la faccia visibile e quella invisibile fornisce un meridiano naturale di riferimento per la longitudine.
Sul nostro satellite il Sole sorge e tramonta durante il dì lunare, che dura circa due settimane terrestri, al pari della notte lunare. Essendo infatti l’asse di rotazione della Luna quasi perpendicolare all’Eclittica, essa non ha stagioni pronunciate come la Terra, e si trova praticamente in uno stato di perenne quasi-equinozio. Inoltre, il moto del Sole appare più irregolare che sulla Terra, a causa del moto aggiuntivo della Luna, e anche la sua grandezza cambia: è più piccolo nei periodi di Terra nuova, quando da noi la Luna è piena e più lontana dal Sole, e più grande nei periodi di Terra piena o Luna nuova.
Infine, il Sole si eclissa sulla Luna in corrispondenza delle eclissi di Luna sulla Terra, e analogamente la Terra si eclissa sulla Luna in corrispondenza delle eclissi di Sole sulla Terra. A causa della grandezza della Terra, le eclissi di Sole sono frequenti e lunghe, mentre quelle di Terra non sono mai totali e si manifestano col passaggio su di essa di una piccola ombra prodotta dalla Luna.
Quanto alle Stelle Fisse, sulla Luna si vedono giorno e notte, a causa dell’assenza di atmosfera. Esse sembrano ruotare attorno all’asse di rotazione della Luna su se stessa, che punta quasi ai poli dell’Eclittica e gira loro attorno in un periodo di circa 18 anni e mezzo (il corrispondente moto dell’asse di rotazione della Terra, responsabile della precessione dei nostri equinozi, ha invece un periodo di circa 26.000 anni).
Per quanto originale, il racconto di Keplero non è comunque un unicum storico. Tra i predecessori, lui stesso citò Il volto della Luna di Plutarco, del primo secolo, e la Storia vera di Luciano di Samosata, del secondo secolo, lasciando disposizioni affinché il primo fosse stampato in appendice al suo Sogno, per celebrare «il grandissimo piacere di ritrovare parole quasi identiche nel libro di Plutarco».
Tra i contemporanei, la Prima Giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo offrì una visione analoga della Terra vista dalla Luna, senza però spingersi ad azzardare che lassù «vi sieno movimenti e vita, e molto meno che vi si generino piante, animali o altre cose simili alle nostre».
La Terra vista dal suo satellite: i precedenti di Plutarco e di Luciano di Samosata
Piergiorgio Odifreddi sarà a Pordenonelegge giovedì 14 alle 18. Il festival è in programma da mercoledì a domenica 17. Tra i 500 autori ospiti di questa diciottesima edizione, Carlos Ruiz Zafón, Luis Sepúlveda, Elizabeth Strout e il Nobel Wole Soyinka
IL LIBRO Dalla Terra alle Lune di Piergiorgio Odifreddi ( Rizzoli pagg. 336). A destra Brahe e Keplero