Corriere 9.9.17
Tra i prigionieri in un campo vicino a Tripoli
Nel covo di «zio» Dabbashi Così il principe degli scafisti ha schierato le sue milizie per fermare i migranti
«Qui non c’è speranza: non partiremo più»
dal nostro inviato a Sabratha Lorenzo Cremonesi
Di
ciò che era rimane solo il soprannome. Per il resto, ha prosperato nel
caos seguito alla rivoluzione «assistita» dalla Nato, allo sfascio
violento del post-Gheddafi. Tanto che ora è una delle figure più famose,
ma anche temute e controverse, della Tripolitania occidentale. Noi
siamo venuti a cercarlo direttamente nel suo «regno»: Sabratha, il cuore
pulsante degli scafisti e dei trafficanti, dove criminalità organizzata
e persino jihadismo militante spesso trovano territori comuni, ma
soprattutto meta agognata per centinaia di migliaia di disperati in
arrivo dall’Africa sub-sahariana pronti a tutto pur di imbarcarsi verso
le coste italiane.
La «riconversione»
A fine agosto gli
uffici locali della Reuters e della Associated Press sono stati i primi a
rivelare la sua recente «riconversione» da principe degli scafisti a
collaboratore di primo piano con il progetto del governo italiano per il
blocco dei flussi migratori. Il servizio di intelligence della polizia
locale ci dice «che ultimamente avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di
euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del
premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez
Sarraj». Una vicenda che racconta tanto della Libia contemporanea, dove
chiunque voglia cercare di cambiare le cose deve comunque confrontarsi
con un Paese tenuto volutamente allo stato tribale per quasi mezzo
secolo nella logica del divide et impera di Muammar Gheddafi e adesso
lacerato da una miriade di lotte e divisioni interne senza fine.
«Personalmente posso capire che gli accordi del governo Sarraj con
Dabbashi abbiano aspetti ambigui. In Occidente potete anche pensare che
siano poco morali. Ma questa è la realtà della Libia. Chi vuole
intervenire fa i conti con le forze che dominano sul campo, che spesso
sono poco pulite, ambigue, persino criminali. Con la milizia di Dabbashi
c’era poco da fare. Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue
e per giunta con nessuna prospettiva di vittoria. Il modo migliore era
integrarla, agire pragmatici. Cosa che i servizi d’informazione italiani
e Minniti, con il quale mi sono incontrato più volte in Libia e a Roma,
hanno ben intuito. Presto ne vedremo i risultati positivi», ci dice con
tono realista il 43enne Hussein Dhwadi, da tre anni sindaco di
Sabratha. Questi afferma di «non escludere, ma non sapere, se davvero
gli italiani hanno pagato Dabbashi e in quale forma». Cosa del resto già
nettamente negata sia dalla Farnesina che dall’ambasciata italiana a
Tripoli.
Tuttavia, nella stessa Sabratha non mancano i nemici
feroci di Dabbashi ben contenti d’investigare. «È un mafioso, un
bandito, che sino a poche settimane fa ha assassinato i nostri agenti e
prosperato nell’illegalità, nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro
alleato», dice Basel Algrabli, 36 anni, direttore della locale Unità
Anti-Migranti. Gli argomenti più forti arrivano dai responsabili dei
servizi di intelligence della polizia urbana, con cui abbiamo parlato
per due ore. Ma chiedono di non essere identificati nel timore di
vendette contro di loro e le famiglie. Su Ahmad Dabbashi e il suo clan
hanno interi dossier, alcuni dei quali ci sono anche stati mostrati:
hanno iniziato infatti a seguirlo già un paio d’anni dopo il linciaggio
mortale di Gheddafi a Sirte nell’ottobre 2011.
Da tempo «Al Ammu»
aveva scoperto che poteva far soldi occupandosi dell’ordine pubblico.
Uccise «quasi per caso» un miliziano di Zintan che insidiava alcune
ragazze su una spiaggia locale. Diventa allora un piccolo eroe, per
qualche mese gestisce gli accessi alla spiaggia, poi si avvicina al
Libyan Fight Group, il fronte jihadista libico che simpatizza per Al
Qaeda. Con il latitare delle vecchie autorità gheddafiane il campo
religioso guadagna punti. La gente gli dà credito, lo paga per
garantirsi sicurezza. Lui assolda fratelli e cugini. Poi, il salto di
qualità: ruba 250.000 dinari a un commerciante locale, comincia a
trafficare in droga e petrolio. Adesso può pagare i suoi uomini, si
procura le Toyota blindate montanti mitragliatrici pesanti. Oggi ne
possiede a decine utilizzate da centinaia di miliziani, forse oltre 300
ai suoi ordini diretti. Tanti raccolti dalla strada, dai luoghi della
sua giovinezza.
Affari di famiglia
La sua struttura si
militarizza nel 2014. Al Ammu comanda adesso la «Brigata Anis Dabbashi»,
intitolata a uno dei cugini morti in uno scontro a fuoco. Un’altra
Brigata, la «48», è invece diretta dal fratello più giovane, Mehemmed
chiamato «al Bushmenka», con la partecipazione attiva dei cugini Yahia
Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 impongono il monopolio sui movimenti
dei camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia
al porticciolo di Zawiya. Non però verso Tripoli, perché qui domina
violenta la potente tribù dei Warshafanna, ex sostenitori di Gheddafi
oggi propensi a stare con il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della
Cirenaica. Sempre secondo le stesse fonti, è in questo periodo che «Al
Ammu» si assicura anche una parte dei servizi di protezione dei cantieri
e terminali di petrolio e gas a Mellitah: dunque, indirettamente, delle
attività Eni nel Paese. «Probabilmente è allora che lui ha i primi
contatti con gli 007 italiani. Rapporti che poi si approfondiscono ai
tempi del rapimento dei quattro tecnici italiani della Bonatti proprio
diretti dalla Tunisia a Mellitah (di cui poi due tragicamente
assassinati, ndr. )», aggiungono. Il capo del clan Dabbashi però è un
ricercato, per lui è difficile viaggiare, specie all’estero. Tocca
allora a Yihab, il fratello giovane più fidato, fungere da negoziatore e
businessman del gruppo. Sulla rete difende il buon nome dei Dabbashi,
oggi li rilancia come gruppo legittimo e garante della legge. «Yihab ha
trattato per conto del fratello anche l’accordo sui migranti. Abbiamo le
tracce dei suoi movimenti recenti. Sappiamo che tra fine luglio e fine
agosto è volato a Malta con la compagnia privata Medavia. Di recente è
stato a Istanbul, in Germania e in altre due nazioni europee. Con gli
agenti dei servizi italiani si è incontrato più volte in alcuni hotel di
Gammarth, la costa turistica di Tunisi. Sarraj e gli italiani si sono
assicurati la sua collaborazione in cambio di almeno 5 milioni di euro e
la promessa che i Dabbashi ne usciranno puliti e le loro milizie
saranno legalizzate», leggono dai loro documenti i capi
dell’intelligence.
Il blocco
I risultati sono sotto gli
occhi di tutti. Porti vuoti, spiagge deserte dove prima ogni notte
estiva con il mare calmo imperava l’affanno delle partenze, niente
barconi, nessun gommone all’orizzonte. Il traffico dalla Libia è
praticamente fermo. I Dabbashi sono una garanzia. «Quanto erano
efficienti nel traffico di esseri umani, tanto oggi sono bravi nel
bloccarlo. Sino ai primi del luglio scorso si erano assicurati l’80%
delle partenze dalle nostre coste, un affare milionario. Il loro slogan
presso gli africani era che si doveva pagare tanto, almeno 1.000 dollari
a testa, ma i loro trasporti erano i più certi. Crediamo avessero
contatti anche con organizzazioni criminali italiane. Oggi sono attenti
ad attuare i blocchi delle partenze già a terra, il lavoro dei
guardiacoste libici serve ormai a poco o nulla», afferma Algrabli.
Vedere
per credere. La notizia che non è più possibile (o diventa molto
difficile) prendere la via del mare dalla Libia si sta spargendo a
macchia d’olio. «Oltre 30.000 persone sono bloccate nella nostra
regione. Stiamo cercando di spostarle su Tripoli, da dove potranno
tornare più facilmente ai loro Paesi di origine grazie all’Onu e alle
loro ambasciate. Sono per lo più nigeriani, eritrei, sudanesi, tanti del
Ciad, della Costa d’Avorio e del Mali. Il fatto positivo è che sono nel
frattempo diminuiti anche gli arrivi dal deserto sub-sahariano, solo il
30% rispetto ai primi di luglio. Ciò significa che la Libia per loro
non è più un punto di transito valido. Lo verificheremo con certezza
all’arrivo dei dati di fine settembre», dice ancora il sindaco di
Sabratha.
I «prigionieri»
La nuova situazione si manifesta
amplificata a Triqsiqqa, che con i suoi ben oltre 1.000 migranti
incarcerati (di cui al momento 120 donne) è oggi uno dei campi più vasti
nella capitale. Si stima siano circa 600.000 gli «imprigionati»
nell’imbuto libico. «Siamo in una prigione senza speranza. Io sono stato
arrestato tre mesi fa. E adesso sono ben consapevole che via mare non
si parte più», dice tra i tanti il diciottenne Hani Henessey, un
ragazzino dai tratti fini e l’inglese quasi oxfordiano. Suo padre
dentista lo condusse da bambino con la famiglia dal Sud Sudan a Londra.
Ma di recente sono stati espulsi per lo scadere del visto. Hani dice
però di essere gay e in quanto tale perseguitato in Africa. Vorrebbe
tornare in Europa. E non sa come fare. Le storie di persecuzione,
terrore e disperazione non si contano. Joe Solomon, nigeriano di 24
anni, dice di essere stato rapito da un gruppo di contadini libici.
«Volevano 700 dollari per liberarmi. Quando ho spiegato che né io, né la
mia famiglia, né i miei amici potevamo pagare, mi hanno tenuto come
schiavo a lavorare nei loro campi per quattro mesi», ricorda. Sono
vicende di razzismo antico, rimandano ai tempi della tratta araba degli
schiavi dall’Africa alle coste del Mediterraneo. Viene persino da
pensare che per quanto qui le condizioni siano orribili, con migliaia di
persone chiuse al caldo nello sporco dietro le sbarre, fuori alla mercé
dei libici incattiviti da guerra e povertà possa essere anche peggio.
Ma va anche aggiunto che l’intera zona costiera è disseminata di campi
per migranti, molti senza alcun controllo e mai visti da giornalisti o
umanitari. Mentre visitiamo il campo l’ambasciata sudanese manda due
funzionari che organizzano i rientri di 200 connazionali. Anche
l’Organizzazione Internazionale dei Migranti (Iom) e lo Unhcr stanno
intervenendo. «Ma sono ancora gocce nel mare. Perché le Ong
internazionali non ci aiutano? Voi italiani, che avete qui anche
un’ambasciata, perché non siete presenti, non siete mai venuti a
visitarci?», protesta Abdul Nasser Azzam, il direttore del centro.
E
Al Ammu? Come si muove colui che appare tra i maggiori artefici di tali
epocali cambiamenti? Ancora a Sabratha raccontano che vorrebbe
controllare lui stesso alcuni campi destinati al rimpatrio dei migranti
grazie agli aiuti finanziari internazionali. Ma a noi non ha rilasciato
commenti. «Se volete un incontro dovete avere il permesso delle autorità
di Tripoli», ci fa dire, più formale e legale che mai.