Il Fatto 9.9.17
A Milano una piazza al partigiano Pesce. La figlia: “Mio padre non si riconoscerebbe nell’Italia di oggi. Traditi i suoi valori”
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Corriere 9.9.17
Tra i prigionieri in un campo vicino a Tripoli
Nel covo di «zio» Dabbashi Così il principe degli scafisti ha schierato le sue milizie per fermare i migranti
«Qui non c’è speranza: non partiremo più»
dal nostro inviato a Sabratha Lorenzo Cremonesi
Di ciò che era rimane solo il soprannome. Per il resto, ha prosperato nel caos seguito alla rivoluzione «assistita» dalla Nato, allo sfascio violento del post-Gheddafi. Tanto che ora è una delle figure più famose, ma anche temute e controverse, della Tripolitania occidentale. Noi siamo venuti a cercarlo direttamente nel suo «regno»: Sabratha, il cuore pulsante degli scafisti e dei trafficanti, dove criminalità organizzata e persino jihadismo militante spesso trovano territori comuni, ma soprattutto meta agognata per centinaia di migliaia di disperati in arrivo dall’Africa sub-sahariana pronti a tutto pur di imbarcarsi verso le coste italiane.
La «riconversione»
A fine agosto gli uffici locali della Reuters e della Associated Press sono stati i primi a rivelare la sua recente «riconversione» da principe degli scafisti a collaboratore di primo piano con il progetto del governo italiano per il blocco dei flussi migratori. Il servizio di intelligence della polizia locale ci dice «che ultimamente avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez Sarraj». Una vicenda che racconta tanto della Libia contemporanea, dove chiunque voglia cercare di cambiare le cose deve comunque confrontarsi con un Paese tenuto volutamente allo stato tribale per quasi mezzo secolo nella logica del divide et impera di Muammar Gheddafi e adesso lacerato da una miriade di lotte e divisioni interne senza fine. «Personalmente posso capire che gli accordi del governo Sarraj con Dabbashi abbiano aspetti ambigui. In Occidente potete anche pensare che siano poco morali. Ma questa è la realtà della Libia. Chi vuole intervenire fa i conti con le forze che dominano sul campo, che spesso sono poco pulite, ambigue, persino criminali. Con la milizia di Dabbashi c’era poco da fare. Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue e per giunta con nessuna prospettiva di vittoria. Il modo migliore era integrarla, agire pragmatici. Cosa che i servizi d’informazione italiani e Minniti, con il quale mi sono incontrato più volte in Libia e a Roma, hanno ben intuito. Presto ne vedremo i risultati positivi», ci dice con tono realista il 43enne Hussein Dhwadi, da tre anni sindaco di Sabratha. Questi afferma di «non escludere, ma non sapere, se davvero gli italiani hanno pagato Dabbashi e in quale forma». Cosa del resto già nettamente negata sia dalla Farnesina che dall’ambasciata italiana a Tripoli.
Tuttavia, nella stessa Sabratha non mancano i nemici feroci di Dabbashi ben contenti d’investigare. «È un mafioso, un bandito, che sino a poche settimane fa ha assassinato i nostri agenti e prosperato nell’illegalità, nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro alleato», dice Basel Algrabli, 36 anni, direttore della locale Unità Anti-Migranti. Gli argomenti più forti arrivano dai responsabili dei servizi di intelligence della polizia urbana, con cui abbiamo parlato per due ore. Ma chiedono di non essere identificati nel timore di vendette contro di loro e le famiglie. Su Ahmad Dabbashi e il suo clan hanno interi dossier, alcuni dei quali ci sono anche stati mostrati: hanno iniziato infatti a seguirlo già un paio d’anni dopo il linciaggio mortale di Gheddafi a Sirte nell’ottobre 2011.
Da tempo «Al Ammu» aveva scoperto che poteva far soldi occupandosi dell’ordine pubblico. Uccise «quasi per caso» un miliziano di Zintan che insidiava alcune ragazze su una spiaggia locale. Diventa allora un piccolo eroe, per qualche mese gestisce gli accessi alla spiaggia, poi si avvicina al Libyan Fight Group, il fronte jihadista libico che simpatizza per Al Qaeda. Con il latitare delle vecchie autorità gheddafiane il campo religioso guadagna punti. La gente gli dà credito, lo paga per garantirsi sicurezza. Lui assolda fratelli e cugini. Poi, il salto di qualità: ruba 250.000 dinari a un commerciante locale, comincia a trafficare in droga e petrolio. Adesso può pagare i suoi uomini, si procura le Toyota blindate montanti mitragliatrici pesanti. Oggi ne possiede a decine utilizzate da centinaia di miliziani, forse oltre 300 ai suoi ordini diretti. Tanti raccolti dalla strada, dai luoghi della sua giovinezza.
Affari di famiglia
La sua struttura si militarizza nel 2014. Al Ammu comanda adesso la «Brigata Anis Dabbashi», intitolata a uno dei cugini morti in uno scontro a fuoco. Un’altra Brigata, la «48», è invece diretta dal fratello più giovane, Mehemmed chiamato «al Bushmenka», con la partecipazione attiva dei cugini Yahia Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 impongono il monopolio sui movimenti dei camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia al porticciolo di Zawiya. Non però verso Tripoli, perché qui domina violenta la potente tribù dei Warshafanna, ex sostenitori di Gheddafi oggi propensi a stare con il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Sempre secondo le stesse fonti, è in questo periodo che «Al Ammu» si assicura anche una parte dei servizi di protezione dei cantieri e terminali di petrolio e gas a Mellitah: dunque, indirettamente, delle attività Eni nel Paese. «Probabilmente è allora che lui ha i primi contatti con gli 007 italiani. Rapporti che poi si approfondiscono ai tempi del rapimento dei quattro tecnici italiani della Bonatti proprio diretti dalla Tunisia a Mellitah (di cui poi due tragicamente assassinati, ndr. )», aggiungono. Il capo del clan Dabbashi però è un ricercato, per lui è difficile viaggiare, specie all’estero. Tocca allora a Yihab, il fratello giovane più fidato, fungere da negoziatore e businessman del gruppo. Sulla rete difende il buon nome dei Dabbashi, oggi li rilancia come gruppo legittimo e garante della legge. «Yihab ha trattato per conto del fratello anche l’accordo sui migranti. Abbiamo le tracce dei suoi movimenti recenti. Sappiamo che tra fine luglio e fine agosto è volato a Malta con la compagnia privata Medavia. Di recente è stato a Istanbul, in Germania e in altre due nazioni europee. Con gli agenti dei servizi italiani si è incontrato più volte in alcuni hotel di Gammarth, la costa turistica di Tunisi. Sarraj e gli italiani si sono assicurati la sua collaborazione in cambio di almeno 5 milioni di euro e la promessa che i Dabbashi ne usciranno puliti e le loro milizie saranno legalizzate», leggono dai loro documenti i capi dell’intelligence.
Il blocco
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Porti vuoti, spiagge deserte dove prima ogni notte estiva con il mare calmo imperava l’affanno delle partenze, niente barconi, nessun gommone all’orizzonte. Il traffico dalla Libia è praticamente fermo. I Dabbashi sono una garanzia. «Quanto erano efficienti nel traffico di esseri umani, tanto oggi sono bravi nel bloccarlo. Sino ai primi del luglio scorso si erano assicurati l’80% delle partenze dalle nostre coste, un affare milionario. Il loro slogan presso gli africani era che si doveva pagare tanto, almeno 1.000 dollari a testa, ma i loro trasporti erano i più certi. Crediamo avessero contatti anche con organizzazioni criminali italiane. Oggi sono attenti ad attuare i blocchi delle partenze già a terra, il lavoro dei guardiacoste libici serve ormai a poco o nulla», afferma Algrabli.
Vedere per credere. La notizia che non è più possibile (o diventa molto difficile) prendere la via del mare dalla Libia si sta spargendo a macchia d’olio. «Oltre 30.000 persone sono bloccate nella nostra regione. Stiamo cercando di spostarle su Tripoli, da dove potranno tornare più facilmente ai loro Paesi di origine grazie all’Onu e alle loro ambasciate. Sono per lo più nigeriani, eritrei, sudanesi, tanti del Ciad, della Costa d’Avorio e del Mali. Il fatto positivo è che sono nel frattempo diminuiti anche gli arrivi dal deserto sub-sahariano, solo il 30% rispetto ai primi di luglio. Ciò significa che la Libia per loro non è più un punto di transito valido. Lo verificheremo con certezza all’arrivo dei dati di fine settembre», dice ancora il sindaco di Sabratha.
I «prigionieri»
La nuova situazione si manifesta amplificata a Triqsiqqa, che con i suoi ben oltre 1.000 migranti incarcerati (di cui al momento 120 donne) è oggi uno dei campi più vasti nella capitale. Si stima siano circa 600.000 gli «imprigionati» nell’imbuto libico. «Siamo in una prigione senza speranza. Io sono stato arrestato tre mesi fa. E adesso sono ben consapevole che via mare non si parte più», dice tra i tanti il diciottenne Hani Henessey, un ragazzino dai tratti fini e l’inglese quasi oxfordiano. Suo padre dentista lo condusse da bambino con la famiglia dal Sud Sudan a Londra. Ma di recente sono stati espulsi per lo scadere del visto. Hani dice però di essere gay e in quanto tale perseguitato in Africa. Vorrebbe tornare in Europa. E non sa come fare. Le storie di persecuzione, terrore e disperazione non si contano. Joe Solomon, nigeriano di 24 anni, dice di essere stato rapito da un gruppo di contadini libici. «Volevano 700 dollari per liberarmi. Quando ho spiegato che né io, né la mia famiglia, né i miei amici potevamo pagare, mi hanno tenuto come schiavo a lavorare nei loro campi per quattro mesi», ricorda. Sono vicende di razzismo antico, rimandano ai tempi della tratta araba degli schiavi dall’Africa alle coste del Mediterraneo. Viene persino da pensare che per quanto qui le condizioni siano orribili, con migliaia di persone chiuse al caldo nello sporco dietro le sbarre, fuori alla mercé dei libici incattiviti da guerra e povertà possa essere anche peggio. Ma va anche aggiunto che l’intera zona costiera è disseminata di campi per migranti, molti senza alcun controllo e mai visti da giornalisti o umanitari. Mentre visitiamo il campo l’ambasciata sudanese manda due funzionari che organizzano i rientri di 200 connazionali. Anche l’Organizzazione Internazionale dei Migranti (Iom) e lo Unhcr stanno intervenendo. «Ma sono ancora gocce nel mare. Perché le Ong internazionali non ci aiutano? Voi italiani, che avete qui anche un’ambasciata, perché non siete presenti, non siete mai venuti a visitarci?», protesta Abdul Nasser Azzam, il direttore del centro.
E Al Ammu? Come si muove colui che appare tra i maggiori artefici di tali epocali cambiamenti? Ancora a Sabratha raccontano che vorrebbe controllare lui stesso alcuni campi destinati al rimpatrio dei migranti grazie agli aiuti finanziari internazionali. Ma a noi non ha rilasciato commenti. «Se volete un incontro dovete avere il permesso delle autorità di Tripoli», ci fa dire, più formale e legale che mai.
Corriere 9.9.17
Minniti: «Le condizioni di vita in Libia sono il mio assillo»
«Le condizioni di vita di chi rimane in Libia sono il mio assillo». Con questa premessa il ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha annunciato — intervenendo ieri sera alla festa dell’Unità di Torino — di voler attuare un «piano di sostegno umanitario» in Libia. «La prossima settimana insieme alla Farnesina — ha affermato — incontreremo le ong italiane e con loro ragioneremo per coordinare attività, accanto alle operazioni di salvataggio in mare che naturalmente continuano, e lavorare su un’iniziativa direttamente in Libia per affrontare il tema dei diritti umani e delle condizioni di vita». «Sarebbe molto bello — ha aggiunto il ministro — se ogni ong italiana potesse impegnarsi su questo — e già lo stanno facendo, e adottare una organizzazione non governativa in Libia». Durante il dibattito, Minniti ha ribadito che «la questione immigrati sarà risolta quando non metteremo più davanti la parola emergenza» e che occorre un «piano cruciale sui flussi migratori», che contempli un impegno — a livello internazionale — in tutta l’Africa, per sostenere «le popolazioni e lo sviluppo della democrazia».
E. S.
La Stampa 9.9.17
Dalle Ong i primi no alla gestione dei centri in Libia
di Francesca Schianchi Beppe Minello
Il governo incassa già due pesanti «no, grazie» alla proposta di coinvolgere le Ong nei campi libici in cui si trovano i migranti.
Nel giorno in cui il ministro dell’Interno Marco Minniti annuncia da Torino che anche lui le incontrerà la settimana prossima, venerdì 15, «per costruire un’iniziativa direttamente in Libia», auspicando che le organizzazioni italiane adottino «ognuna una Ong libica, per creare una rete di giovani libici che si dedichino al rispetto dei diritti umani», Medici senza frontiere e Intersos, due delle più grandi tra le organizzazioni a cui il viceministro degli Esteri Mario Giro ha prospettato due giorni fa la possibilità di un bando da sei milioni di euro della cooperazione internazionale, non sono disponibili.
«Dal 2016, dopo l’accordo tra Unione europea e Turchia, abbiamo deciso di non prendere più fondi da Ue e stati membri: non possiamo prendere risorse per riparare situazioni che sono spesso create da chi quei fondi li eroga», spiega Marco Bertotto di Msf, organizzazione già presente in sette centri di detenzione libici, da Tripoli a Misurata. Una policy precisa, dunque, ma anche la sensazione che il governo tenti di correre ai ripari sulla questione umanitaria dopo aver mostrato la faccia dura con il codice per le Ong (che proprio Msf ha scelto di non firmare) e la collaborazione con la Guardia costiera libica. «Ben venga se finalmente ci si pone il problema umanitario, ma forse doveva essere la precondizione per parlare di gestione dei flussi. Solo adesso ci si pone il problema di queste persone intrappolate all’inferno e si chiede a noi di abbassare la temperatura di quell’inferno: invece bisognerebbe superare la logica della detenzione arbitraria».
È un no già deciso anche quello di Intersos, che in Libia sta entrando ma con un progetto insieme a Unicef per la protezione dei bambini: «Non parteciperemo al bando del ministero. Le manovre del governo e dell’Europa per fermare in Libia i migranti, costi quel che costi, non ci appartengono», chiarisce il coordinatore unità migrazione, Cesare Fermi. «Nei campi libici la situazione è del tutto simile a un campo di concentramento. E oggi in Libia non ci sono le condizioni generali che tutelino la dignità dei migranti».
Due Ong già si tirano fuori. La settimana prossima la riunione al Viminale con chi sarà interessato.
Corriere 9.9.17
Il centrodestra stacca Pd e M5S Quota 35% anche con il listone e Berlusconi «batte» Salvini
di Nando Pagnoncelli
I 5 Stelle calano al 26,6% allineati ai dem. Mdp sopra la soglia, Ap no
Lo scenario che emerge dal primo sondaggio realizzato dopo la pausa estiva è sostanzialmente simile a quello registrato alla fine del mese di luglio: si conferma il testa a testa tra M5S (26,6%, in lieve flessione) e Pd (26,5%), si consolida il consenso per il centrodestra nel suo insieme (Forza Italia 15,6%, Lega 15% e FdI 5%), Articolo 1-Mdp (3,6%) si mantiene sopra la soglia di sbarramento e Ap continua a faticare (2,2%). Oltre un elettore su tre (34,8%) intende astenersi o è indeciso.
Le amministrative di giugno hanno segnato uno spartiacque, evidenziando un clima nettamente favorevole alle forze di centrodestra e ponendo più di un interrogativo sullo «schema di gioco» che potrà essere adottato, tenuto conto che l’attuale legge elettorale assegna il premio di maggioranza alla lista, non alla coalizione, che superi il 40% dei voti validi. A questo proposito abbiamo testato gli orientamenti di voto in presenza di una lista unitaria di centrodestra che, per il momento, comprenda i tre partiti principali.
Le stime sostanzialmente si equivalgono: il centrodestra diviso si attesta al 35,6%, mentre unito in una sola lista raggiungerebbe il 35%. Risultato tutt’altro che scontato, perché tradizionalmente la fusione di più partiti in un unico soggetto determina un consenso inferiore rispetto alla somma dei voti dei singoli partiti. Inoltre, il centrodestra da sempre ottiene risultati migliori presentandosi diviso. Basti pensare a quelli ottenuti con il Mattarellum: nel 2001, ad esempio, la Casa delle libertà guidata da Berlusconi prevalse di 2,4% sull’Ulivo guidato da Rutelli allorché nella quota proporzionale i partiti che facevano capo alla Cdl ottennero il 14% di voti in più rispetto a quelli dell’Ulivo.
Nell’ipotesi di lista unitaria attualmente tra gli elettori soprattutto di Forza Italia e Lega non mancherebbero le defezioni ma sarebbero compensate dall’ingresso di un flusso di voti proveniente prevalentemente dall’ area dell’indecisione e dell’astensione.
Nelle ultime settimane il clima favorevole al centrodestra ha in parte attenuato le divergenze tra i leader ma non ha eliminato alcune questioni di fondo rispetto alle quali il sondaggio odierno conferma le divisioni tra diversi elettorati registrate all’inizio di luglio. Nello specifico:
1. Aumenta la quota di coloro che ritengono praticabile il progetto di lista unica sia tra tutti gli italiani (35%, in crescita di 4% rispetto a luglio), sia tra gli elettori del centrodestra (65%, + 2%). I leghisti permangono i più scettici, ma nelle loro fila aumenta nettamente l’ottimismo (58%, + 9%) pur in presenza di un terzo di loro convinto che le differenze tra i partiti siano così numerose da impedire la possibilità di definire un programma comune.
2.Riguardo alla linea politica da adottare, quasi un italiano su due (47%) auspica che prevalga quella moderata di Forza Italia, mentre uno su tre (33%) vorrebbe che si affermasse quella più radicale degli altri due partiti. I pareri sono contrapposti tra forzisti e «sovranisti» ma nell’insieme del centrodestra il pendolo è spostato sul posizionamento radicale (55% a 39%).
3.Analoghe divisioni si registrano sulla leadership della lista unitaria: i tre elettorati parteggiano in larga misura per il proprio leader e nell’insieme Berlusconi (39%) prevale su Salvini (32%), portando a + 7% il vantaggio registrato a luglio (+3%). A seguire Meloni (14%), Toti (7%) e Zaia (5%).
4.Da ultimo, le possibili alleanze post elettorali: qui le opinioni sono più concordi. La maggioranza (51%) ritiene che sarebbe meglio evitare qualsiasi alleanza rimanendo all’opposizione. In subordine si privilegia un accordo con M5S (28%) rispetto al Pd (9%). Anche tra gli elettori di FI l’alleanza con i pentastellati prevale su quella con i dem.
Pur in presenza di diverse opinioni su posizionamento, programma e leadership, al momento la prospettiva di un successo elettorale galvanizza l’elettorato di centrodestra e consente di attrarre nuovi elettori, soprattutto tra quelli che oggi stanno alla finestra. Questi ultimi rappresentano un bacino contendibile che potrà risultare decisivo.
NPagnoncelli
Corriere 9.9.17
Gabrielli, stop a Forza Nuova: la marcia a Roma non si farà
ROMA Il capo della polizia assicura che non si farà la «marcia patriottica» annunciata dal movimento di estrema destra Forza Nuova per il 28 ottobre, anniversario della Marcia su Roma fascista del 1922. «Come al solito in questo Paese si parla del nulla — ha detto Franco Gabrielli intervenendo al festival Con-Vivere a Carrara — Perché fino a oggi è stato chiesto al ministro dell’Interno Minniti di intervenire. Su che cosa? Non c’è un atto sul quale noi siamo chiamati a decidere. Se vi posso dire la mia, la marcia su Roma non ci sarà». «Se questi signori vogliono fare una manifestazione contro lo ius soli, liberissimi di farlo — ha proseguito Gabrielli — ma non possono confonderla in modo smaccatamente oltraggioso con una vicenda sulla quale il Paese ha preso in maniera chiara e netta la sua posizione. Noi siamo figli di una Repubblica nata nel sangue di chi ha difeso il Paese contro certe violenze e certe ideologie. Non c’è possibilità di trattare su questo, ragioneremo quando avremo le carte ma su questo punto non ci sono né se né ma». Il Pd e la sinistra hanno chiesto di vietare la «marcia patriottica» e di sciogliere Forza Nuova per apologia del fascismo.«No alla macchietta della Marcia su Roma», ha affermato il governatore Pd del Lazio Nicola Zingaretti. Intanto ieri sera, sfidando il divieto della Questura di Roma, Forza Nuova ha tenuto la «passeggiata per la sicurezza» al Tiburtino III, periferia della Capitale, teatro a fine agosto del ferimento di un rifugiato eritreo durante una lite con italiani vicino a un presidio umanitario della Croce Rossa.
Il Fatto 9.9.17
Pisapia: il nulla, però presentabile
di Daniela Ranieri
Uno straniero che leggesse Repubblica non potrebbe non farsi l’idea che in Italia abbiamo un Obama incompreso, un eroe dem che l’opinione pubblica deteriorata dal populismo non sa riconoscere e la politica tiene ingiustamente al confino. Un misto tra Mandela, Kennedy e Willy Brandt, senza l’estremismo di un Corbyn ma lontano dal moderatismo di un Tony Blair e in ogni caso assolutamente alternativo a Renzi, tanto da proporgli un giorno sì e uno no, e almeno sette volte dal 5 dicembre scorso, di mettersi insieme nel chimerico Campo progressista.
Stiamo parlando di Giuliano Pisapia, incidentalmente avvocato dell’editore di Repubblica in processi importanti e capace ex sindaco di Milano. Di Pisapia negli ultimi mesi si è saputo che è sicuramente contrario a un’alleanza con Alfano in Sicilia, cosa “assolutamente innaturale”, come l’accoppiamento tra un cavallo e una scimmia. Anzi no: talmente realista nel suo idealismo da contemplare persino di sostenere il candidato di Renzi e Alfano, ma non quello della sinistra di Mdp (a cui ha proposto di mettersi “Insieme”), purché in un’ottica di “unità del centrosinistra”. Mah. Siccome noi siamo prevenuti, ci siamo affidati alla lettura del fenomeno Pisapia data da Paolo Mieli sul Corriere: Pisapia “non è un attore adatto alla commedia politica così come va in scena di questi tempi”, infatti cambia idea tre volte al giorno invece che due come fanno i politicanti, e poi “ha un passato di garantista che lo rende antipatico a molti suoi futuri compagni d’avventura”, presumibilmente a Renzi, capo di un partito con 127 indagati, amicissimo di un ministro indagato e figlio di un padre indagato, e ad Alfano, sul cui partito di probi pietosamente taciamo. Ma, soprattutto, Pisapia secondo Mieli “è tormentato dai dubbi delle persone intelligenti, dalle incertezze e dai ripensamenti di chi non è mai stato un politico di professione”.
Che uno in politica debba portare dubbi, incertezze e ripensamenti invece che proposte, progetti e soluzioni è sintomatico di questa epoca decadente. Nessuno obbliga Pisapia a fare il politico: se non se la sente, che si prenda un anno sabbatico per leggere l’opera omnia di Recalcati e poi ci faccia sapere perché dovremmo votarlo. Notevole invece l’accenno ai “politici di professione” che, al contrario di Pisapia, mirano a distruggere quel centrosinistra che Renzi, come tutti sanno, stava faticosamente ricostruendo. In 4 anni, il tempo che ci ha messo Michelangelo a dipingere la volta della Cappella Sistina, Renzi ha disintegrato il Pd, i suoi iscritti, i suoi elettori, il suo giornale e le sue feste. E con chi vuole ricostruire il centrosinistra, Pisapia? Con Renzi.
Saremo strani noi, ma in Pisapia vediamo l’incarnazione dello sbando, l’epitome della inconcludenza, della balbuzie, del cinismo e del vuoto valoriale che ha investito il Pd e i suoi gangli finitimi, compreso quel girotondismo arancione elitario da zona C di Milano che ha contraddistinto la bolla-Pisapia nella sua stagione d’oro. Da quando Renzi ha perso, e uno spiraglio di luce s’è visto balenare dalla momentanea eclissi del Re Sole, Pisapia, che – lo ripetiamo per liturgica osservanza al politicamente corretto – è persona perbene, ha parlato solo di alleanze e accordi, ha messo veti che egli stesso ha infranto poche ore dopo, ha proposto a questo e quello di “federare”, di “fare da mastice” tra la sua purezza adamantina e il briccone Renzi (ultimo a Prodi, che ha elegantemente sorvolato). Per favore qualcuno ci spieghi esattamente chi e cosa rappresenta, Pisapia.
Non stiamo parlando di meri serbatoi elettorali (fosse per questo, Alfano avrebbe già da tempo dovuto aprirsi un chiringuito a Agrigento), ma di quell’armamentario che tanto piace(va) ai giornali progressisti: popolo, ideologie, valori, ideali. In tv, interrogato sui progetti per il futuro, Pisapia ha farfugliato di “reti locali”, di “energie giovani”, di “sguardo a sinistra”… Il nulla. A noi pare ondivago, non conciliante; opportunista, non inclusivo. Gli va bene Micari come gli andrebbe bene Fava non per spirito costruttivo, ma a seconda dello spazio che potrebbe crearsi affinché lui, insieme alla nutrita squadra composta da Tabacci e da un certo Smeriglio, possa infilarvicisi con più profitto. Per chi, non si sa. Non sappiamo come la pensi sui 7 milioni di italiani sotto la soglia di povertà, sull’immigrazione, sul Jobs Act; se, nel caso Renzi, reimbarcando i suoi servi licenziati, vincesse e si mettesse di nuovo in testa di far cambiare la Costituzione a un’avvocatina di Arezzo, Pisapia voterebbe di nuovo Sì, o se l’aver abbracciato seppure per pochi secondi Mdp gli ha fatto cambiare idea sulle doti di statisti dei miracolati toscani.
Il pisapismo per ora è una scoria trascurabile del renzismo: la versione presentabile nelle librerie con caffetteria vegana-biologica di un nulla senza popolo.
di Daniela Ranieri
Corriere 9.9.17
Renzi su Mdp: colpa loro se si perde in Sicilia
A Taormina con Micari: non è un test nazionale. E ai suoi dice: Giuliano disse sì al modello Palermo
di Felice Cavallaro
TAORMINA La campagna siciliana di Matteo Renzi comincia dalla perla dove ha portato i grandi del G7. Operazione vincente. Come spera risulti il 5 novembre la candidatura di Fabrizio Micari, il rettore dell’università di Palermo arrivato anche lui a Taormina dieci minuti prima del segretario Pd nella hall di un albergo dove tanti giovani hanno fatto da cornice per la prima uscita del candidato di centrosinistra e per la prima foto di gruppo subito contrapposta a quella di Nello Musumeci, «circondato da esponenti dei vecchi governi Cuffaro e Lombardo».
Ma la due giorni sicula di Renzi non sembra sintonizzarsi solo sugli avversari naturali, Musumeci e i grillini di Giancarlo Cancelleri. Perché la questione che più brucia sembra il «fuoco amico», quello esploso dalle trincee per la verità non molto amiche di D’Alema e Bersani, di Claudio Fava e anche di Giuliano Pisapia. Evita riferimenti espliciti il segretario. Dribbla la questione parlando in sala della «competenza» di Micari, ma tuona quando si chiude in una stanza col rettore-candidato ed altri amici: «Con questa loro deriva rifondarola, se Micari vince risulteranno irrilevanti, se si perde saranno responsabili».
Forse si riferiva soprattutto ai satelliti anti Pd della sinistra anche quando metteva in guardia la platea: «Sbaglia chi utilizza la Sicilia per partite personali». E ancora: «La Sicilia non è una cavia e le elezioni regionali non sono uno stress-test». I suoi avversari diranno che, nel timore di perdere, Renzi cerca di sottrarre il voto del 5 novembre dal «tavolo nazionale». Ma insiste sull’idea di stracciare come una vecchia foto consunta l’immagine della Sicilia-laboratorio.
Pronto alla ricostruzione di quanto è accaduto finora con una stoccata a Pisapia: «Non voglio parlare di singole persone, ma D’Alema, Pisapia, altri faranno la loro battaglia nazionale. E io non voglio nemmeno parlarne perché questo è quello che loro vorrebbero».
E nel chiuso di quella stanza riecheggia la genesi della candidatura del rettore: «Espressione di un’area civica, individuata da Leoluca Orlando che ne ha parlato a Roma con i big della sinistra, presente Pisapia. E da quella riunione tutti uscirono consenzienti. A cominciare dai dirigenti del Pd che fecero un passo indietro. A cominciare da me, che convinsi l’amico Davide Faraone a rinunciare. Poi ognuno ha fatto le sue scelte...». Ovvio il richiamo alla presenza in coalizione di Angelino Alfano che stamane sarà in conferenza stampa a Palermo con Micari. E Renzi anche su questo respinge le critiche che arrivano non solo da Fava ma anche da Pisapia: «Durante quelle riunioni, si era parlato del “modello Palermo”. Così si arriva a Micari. E tutti erano d’accordo, condividendo la strategia di Orlando. Ma a Palermo nel centrosinistra di Orlando c’è Alfano. Lo scoprono ora?».
La Stampa 9.9.17
Renzi contro la sinistra ex Pd
“Sono come Rifondazione”
A Taormina con il candidato Micari: se perdiamo in Sicilia è colpa loro
di Amedeo La Mattina
Matteo Renzi è arrivato a Taormina sotto la pioggia. Doveva presentare il suo libro «Avanti» ma alla fine, con più di un’ora di ritardo, si è limitato a un veloce discorso di investitura del candidato Fabrizio Micari. Il Rettore di Palermo spiega la sua scelta di lasciare la sua comoda poltrona e lo fa con un linguaggio di chi non ha mai fatto politica. «Io metto la mia faccia, la mia esperienza e le mie idee, poi il resto lo faranno le forze politiche e i candidati nei territori», dice dopo l’incontro a Villa Diodoro, in una sala non proprio gremita. Renzi lo elogia, precisa che ci vuole «il suo coraggio e la sua competenza» per far rinascere la Sicilia. Altro che i calcoli politici di chi vuole trasformare le elezioni «in uno stress test di una partita che con gli interessi dei siciliani non ha nulla a che fare».
«Non fatevi usare come cavie da qualche esponente politico nazionale che vuole fare solo i suoi interessi». Il leader dem ci prova in tutti i modi a non citare Massimo D’Alema, che due giorni fa era venuto a Messina per sostenere la candidatura di Claudio Fava come oggetto contundente da scagliare contro Renzi. Non accenna ai «compagni» di Mdp che hanno rifiutato di appoggiare Fabrizio Micari. Quando poi fa due chiacchiere in privato con alcuni esponenti locali del Pd, Renzi è affilatissimo. Dice che la candidatura Fava è la dimostrazione che Mdp è in «piena deriva rifondarola».
La strategia che ha indicato è chiara e semplice: far apparire il centrodestra un arnese del passato e i 5 Stelle l’inesperienza allo stato puro. «Noi punteremo al voto utile - spiega ai suoi interlocutori - contro chi vuole fare solo testimonianza. Dobbiamo rendere chiaro che c’è uno di sinistra che vuole far vincere un candidato che viene dal Msi, come Musumeci. Il quale, tra l’altro, è alla sua terza candidatura». Il teorema di Renzi è il seguente: «Se si vince in Sicilia loro (Mdp, ndr) sono irrilevanti. Se perdiamo loro sono irresponsabili».
E poi, spiega mentre cammina nei corridoi di Villa Diodoro, non è stato il Pd a scegliere Micari, «persona seria, competente, la vera novità di questa campagna elettorale». È una candidatura «civica» indicata dal sindaco Leoluca Orlando, seguendo il modello Palermo di un centrosinistra ampio, con dentro anche i centristi di Angelino Alfano. «E a Orlando di Micari aveva parlato Pisapia...». Un modo per dire che non sono comprensibili le recenti parole dell’ex sindaco di Milano che ne ha preso le distanze. Insomma, il Pd si è messo a disposizione della coalizione e una eventuale sconfitta non può essere messa a suo carico. Del resto, ha fatto notare più di una volta, ha chiesto al suo amico Davide Faraone di ritirarsi dalla corsa per aprire la strada a Micari e all’accordo con Orlando e Ap.
Renzi fa di tutto per «denazionalizzare» la partita siciliana. Mentre i «rifondaroli» hanno adottato la strategia della sconfitta per farlo deragliare a pochi mesi dalle elezioni politiche del 2018. Prima di partire per Catania e Siracusa dove in serata ha presentato il suo libro «Avanti», con i giornalisti Renzi ripete che le liste del centrosinistra saranno forti, molto più forti di quelle dei 5 Stelle e del centrodestra.
«La partita è aperta, non si illudano i nostri avversari di destra e di sinistra. Lei, ingegnere - dice a Micari prima di lasciare Taormina - faccia quello che sa fare, porti la sua competenza, la sua visione internazionale. Al resto ci penseranno le liste». Chissà se basterà per vincere. Sicuramente Renzi farà di tutto per non personalizzare la sfida siciliana. «Non commetterò l’errore fatto con il referendum. Qui in Sicilia sono gli altri a giocare sulla pelle dei siciliani. Ma io non credo che i siciliani voteranno un esponente così di destra come Musumeci o cerchino l’avventura con Cancelleri. E di testimoni ininfluenti non in sanno che farsene».
Corriere 9.9.17
Bersani nega il «fuoco amico»: con Pisapia ci vedremo presto
Gelo di D’Alema: chiedono all’ex sindaco se mi candiderà? Chiedano a me di lui
di Enrico Caiano
DAL NOSTRO INVIATO
TORINO No, non lo accusate di «fuoco amico»: Pier Luigi Bersani, il giorno dopo le parole spazientite di Giuliano Pisapia al Corriere sulla sinistra dei distinguo e dei conflitti fine a sé stessi, è a Torino per inaugurare la sede regionale e provinciale di Mdp-Articolo 1 nel quartiere popolare Vanchiglia. Roba che più sinistra-sinistra non si può.
Parla tra un centinaio di militanti dall’età media abbondantemente in -anta (i trentenni o meno si contano sulle dita di una mano) per cui il centro alfaniano è un ufo ma anche il Pd renziano è lontanissimo nonostante proprio di fronte alla nuova sede ci sia un circolo pd con tanto di intitolazione «nuovista» alla cantante africana Miriam Makeba. «Sul fuoco amico Pisapia non pensava a noi, noi siamo solo amici», precisa con un sorriso, annunciando che con l’ex sindaco si vedranno la prossima settimana e che a unirli è «la forza delle cose, siamo d’accordo sulle cose concrete, sul fatto che sia vergognoso non cambiare la legge elettorale e che non fare lo ius soli è una pazzia. Alle elezioni vogliamo andare con Pisapia ma non solo con lui: una sinistra di governo, uno schieramento unito di ispirazione ulivista».
Dà la colpa alla «metafisica delle sfumature e al politicismo» che l’informazione propala, Bersani. Magari non sa che Massimo D’Alema dell’intervista di Pisapia ha colto proprio il passaggio laterale in cui non s’impegna su una sua candidatura alle Politiche: «Mi stupisco che non si chieda piuttosto a D’Alema se candiderà Pisapia», è la battuta che gli viene attribuita. Insomma, i rapporti tra i tanti leader e aspiranti tali a sinistra del Pd qualche scricchiolio lo emettono se anche un altro mdp, Enrico Rossi, avvisa l’ex sindaco di Milano che «il dibattito sulla leadership Pisapia sì/Pisapia no ha già stancato militanti e potenziali elettori». E non sarà fuoco amico, ma un bel petardo di avvertimento sì, quello del 92enne Nerio Nesi, «neotesserato del partito, venuto a salutare l’amico Bersani compagno di banco nel secondo governo Amato: lui ai Trasporti, io ai Lavori pubblici». Con Pisapia, Nesi uscì da Rifondazione per sostenere Prodi: «Allora faceva politica. Oggi è bravo ma rivela i suoi limiti, è un po’ piacione. Al Comune ha imparato quella frase banale “voglio essere il sindaco di tutti” e la ripete. Ma la politica è altro». Nesi crede ancora che serva «il cervello di D’Alema», ma ce n’è pure per lui: «È indubbiamente anche un problema».
L’unico a voler unire resta Bersani, che nel comizio improvvisato in un cortile su cui affacciano i panni stesi della casa di ringhiera vecchia Torino, appena fuori dalla sede col perlinato alle pareti, assicura che gli mdp non sono «gli scissionisti e rancorosi che fanno vincere le destre» ma piuttosto quelli «che stanno cercando di portare l’acqua con le orecchie al centrosinistra». Si dice pronto a parlare con Renzi ma sulle sue sconfitte e le ricette economiche va a testa bassa: si è «illuso di intercettare i voti della destra senza sapere che quando è in difficoltà ti abbraccia come si fa sul ring, si riposa e poi ti stende con un pugno»; ha proposto il «meno tasse per tutti che io chiamo il maiale tutto di prosciutto». Anzi questa metafora la aggiorna pure renzianamente: «Lo dico in inglese: win win . Ma vuol sempre dire la stessa cosa: meno tasse per i ricchi e meno welfare per tutti gli altri».
Repubblica 9.9.17
Nel vertice per ricucire l’ex sindaco sosterrà che basterà una lista Il governatore toscano: sarebbe un errore
Mdp vuole un partito, Pisapia frena Rossi: ma così la nostra base si stufa
di Giovanna Casadio
ROMA. «E poi basta punture di spillo continue a Giuliano». Nell’incontro di martedì, quello che dovrebbe ricucire tra Giuliano Pisapia e Pierluigi Bersani dopo lo strappo e la minaccia dell’ex sindaco di Milano di «fare un passo indietro», la prima questione sul tavolo sarà di metodo. «Affronteremo i nodi politici, ma di certo non è possibile assistere ad attacchi come quelli di Enrico Rossi a Pisapia praticamente su tutto»: ecco il tam tam che parte da Campo progressista, il movimento di cui Pisapia è leader.
Rossi è il governatore della Toscana. Fuoriuscito dal Pd con Pierluigi Bersani, Roberto Speranza e il nutrito drappello di dem che hanno fondato Mdp-Articolo 1, è tornato ad attaccare sull’attesa che «stanca e logora » e a chiedere di fare subito il partito della sinistra, mettendo insieme Mdp, Campo progressista e Sinistra Italiana. Chiede di muoversi: «Va costruita subito una forza seria di sinistra, alternativa al Pd. Il dibattito sulla leadership, Pisapia sì-Pisapia no, ha già stancato la maggioranza dei nostri militanti e dei potenziali elettori». E, aggiunge, «aspettare, tergiversare, avvitarci in una inconcludente e noiosa discussione personalistica non serve, anzi ci logora e allontana da noi i tanti che ci guardano con speranza».
Ma è proprio qui il primo scoglio. Pisapia e i suoi escludono che possa nascere un nuovo partito, soprattutto da una «fusione a freddo». E quindi? «Il partito va costruito dopo, forse lo ha capito anche D’Alema il lungimirante, per ora dobbiamo puntare a un progetto elettorale, a una lista, e di questo parleremo nella riunione di martedì. Rossi cambi atteggiamento», insiste Massimiliano Smeriglio che con Bruno Tabacci e Ciccio Ferrara dovrebbe partecipare alla riunione.
Questione di forma e di sostanza, viste le differenze sulla strategia politica, il rapporto con il Pd e la lealtà verso il governo Gentiloni. Bersani a Torino, inaugurando la sede di Mdp, la vede in positivo: «Con Pisapia siamo d’accordo sulle cose concrete, sul fatto ad esempio che sia vergognoso bloccare la legge elettorale, che bisogna correggere il Jobs Act, che sono gli investimenti a dare lavoro e non gli sgravi e che si deve fare lo ius soli ed è una pazzia non farlo, C’è una forza delle cose, e non ci perderemo nella metafisica delle sfumature e nel politicismo». A proposito di Pd, l‘ex segretario avverte: «Parleremo con tutti, anche col Pd, ma o si capisce che c’è bisogno di una svolta e di discontinuità secca o il Pd può andare per la sua strada, noi con la destra non ci andremo ». Insomma, la stessa posizione di Pisapia, che ieri in una intervista al Corriere ha ribadito: niente listone con i dem, nessun appoggio per le regionali al rettore Micari in Sicilia, ormai a suo avviso troppo poco civico e troppo stretto dall’abbraccio di Alfano. Però no anche al candidato di Mdp, Claudio Fava. Ci saranno esponenti di Campo progressista invece nella lista di Leoluca Orlando, il sindaco di Palermo che ha proposto Micari. Su questo sarà resa dei conti. Il manifesto di Mdp-Campo progressista partirà comunque dalla parola d’ordine di Bersani: «Una forza di sinistra di governo contro un centrosinistra che vira verso destra».
La Stampa 9.9.17
Manovra a rischio al Senato
E Padoan tratta con i ribelli Mdp
Una “cabina di regia” al ministero dell’Economia per evitare che la legge di Bilancio sia affossata dai dalemiani
di Francesca Schianchi
C’è un dialogo aperto tra Mdp e alcuni collaboratori del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. A oltre un mese dalla presentazione della legge di bilancio al Parlamento, quando però avvertimenti e minacce di non votarla da parte di qualcuno della maggioranza sono già una presenza quotidiana («Gentiloni cambi rotta o la manovra se la fa con Berlusconi», va ripetendo da tempo il coordinatore di Mdp, Roberto Speranza), il governo tenta di correre ai ripari. Per evitare di arrivare al voto sulla manovra di fine anno, quello più delicato, con un pezzo della maggioranza - sedici preziosissimi voti nella perenne instabilità del Senato - deciso a dire no. Così, mentre gli incontri ufficiali col presidente del consiglio si limitano a quello di aprile a cui hanno partecipato i due capigruppo di Camera e Senato, contatti con il Mef sono già in corso, una sorta di «cabina di regia» per trovare un equilibrio tra risorse disponibili e priorità della sinistra di governo.
«Le dichiarazioni di questi giorni sono solo un po’ di teatro», considerano a Palazzo Chigi frasi come quelle polemiche di Alfredo D’attorre di due giorni fa («non siamo stati coinvolti in nessuna scelta: siamo in una situazione, in questi mesi, di quasi appoggio esterno al governo»), un «teatro» tanto più necessario per marcare una distanza dal Pd, considerano, nel mezzo della campagna elettorale siciliana che vede i due partiti sostenere candidati diversi, e alle soglie della lunga cavalcata verso le politiche. Ma proprio perché nell’ultima legge di bilancio prima del voto, Mdp avrà la necessità di segnare la sua differenza dai dem, si tratta nonostante tutto di minacce che non vengono prese sottogamba. In particolare ora che Vasco Errani, membro di spicco del nuovo partito, ha abbandonato l’incarico di commissario straordinario al terremoto: fino all’altro giorno di casa a Palazzo Chigi, era da molti considerato una sorta di pontiere.
Il primo appuntamento è verso fine mese, con il voto sullo scostamento dell’obiettivo di medio termine, per il quale serve la maggioranza assoluta (che è sostanzialmente il via libera del Parlamento a prenderci maggiore flessibilità dall’Europa) e quello sulla nota di aggiornamento al Def. Dopodiché si entrerà nel vivo della discussione della manovra: «Dobbiamo restare dentro ad un percorso che ci porti verso il pareggio di bilancio, questo non è negoziabile - ricorda il presidente della Commissione bilancio di Palazzo Madama, Giorgio Tonini – dopodiché si valuteranno le priorità. Nei limiti del possibile e del ragionevole ci sarà apertura alle proposte di Mdp: ma certo non esiste il libro dei sogni. E, personalmente, non mi piace la logica del ricatto».
Quello che Mdp chiede da tempo è una discontinuità con le politiche dei tre anni di governo Renzi, con una svolta su questioni economiche e sociali: «Lavoro, non solo sgravi ma regole, diritti e investimenti; la sanità, cioè l’accesso alle cure; il fisco, cioè l’equità e la progressività», ha elencato nelle settimane scorse Pier Luigi Bersani. Attraverso la fondazione Nens, presieduta dall’ex ministro Vincenzo Visco, hanno anche steso un documento con un elenco di misure da sottoporre al governo nella logica «altrimenti non votiamo». «Anche se voglio vedere chi si prenderebbe la responsabilità di non votare la manovra e spedire l’Italia in esercizio provvisorio», assicura chi si sta occupando del dossier. Il governo è aperto, dicono da Palazzo Chigi, tanto da aver già avviato contatti. Ma da Mdp non si fidano troppo: «L’unica volta che i nostri capigruppo, La Forgia e Guerra, sono stati ricevuti da Gentiloni – ricorda Arturo Scotto - poi il governo ha fatto passare i voucher contro il nostro volere…».
Repubblica 9.9.17
Il voto nell’isola e il rischio di una lunga campagna fino a primavera
Perché l’ex premier non può permettersi l’immobilismo sulla legge elettorale
di Stefano Folli
L’INTERVENTO DI RENZI in Sicilia rappresenta l’avvio di una lunga, certo troppo lunga campagna elettorale che attraverserà l’isola fino al voto di novembre e poi proseguirà su scala nazionale in vista delle elezioni legislative di primavera. «All’inizio della primavera», come ha precisato tempo fa il capo dello Stato: ossia alla scadenza naturale del Parlamento. Nei fatti si sta dipanando un unico filo, il quale ci ricorda che anche l’anno scorso la campagna per il referendum costituzionale durò oltre sei mesi: una nevrosi che contribuì non poco a stancare l’opinione pubblica.
Ora il segretario del Pd si preoccupa che la scadenza siciliana sia giudicata alla stregua di uno “stress test” o di un mero “sondaggio” in vista delle elezioni generali. C’è del vero in questa osservazione e nessuno può sottovalutare la rilevanza di quello che accade a Palermo. Ma ovviamente Renzi pensa ai rischi immediati: ai contraccolpi romani di un’eventuale sconfitta siciliana, data per molto probabile da tutti i sondaggi. E la sua mente corre a chi gli scissionisti dei Mdp - si è dato esattamente questo obiettivo, cercando l’occasione d’oro per indebolire il segretario e poi condizionarlo.
Per la verità, c’è poco da stupirsi. Il “fronte del no” è figlio della recente scissione e la sua priorità consiste proprio nel vendicarsi del gruppo dirigente del Pd. Sarebbe strano il contrario. Che poi i nemici della segreteria abbiano governato fino qui la regione insieme al partito renziano nella maggioranza pro-Crocetta, è un dato di fatto, ma le contraddizioni in politica sono la norma. Semmai Renzi non dovrebbe insistere troppo circa la neutralità del risultato siciliano rispetto alle vicende romane. Tutto si tiene, al di là dei meriti e dei torti del segretario. La Sicilia sarà parte di un giudizio complessivo sugli anni del “renzismo”, alla pari degli esiti delle altre elezioni regionali e amministrative. Non si tratta di sperare che la Sicilia sia messa tra parentesi, bensì di attrezzarsi con idee innovative per un’unica campagna elettorale: oggi a Palermo, domani a Roma e nel resto d’Italia.
In fondo, è quello che sulla carta l’ex premier sa fare meglio: andare in giro a raccogliere il consenso. Almeno una volta era così, prima del referendum che ha costituito una discriminante decisiva. Colpisce che la campagna 2017 per adesso assomigli a una riproposizione di vecchi temi e di slogan già sentiti, a cominciare da quelli minacciosi verso l’Unione che non distribuisce i migranti. Difficile pensare che il leader voglia limitarsi a questo nei prossimi sei mesi, fra una presentazione e l’altra del suo libro. Anche perché si dovrà pur fare una riflessione sulle incognite dell’alleanza con Alfano e sul perché il rapporto con Pisapia finora è rimasto al palo.
Non essendo più una giovane promessa, Renzi non può permettersi l’immobilismo che è l’altra faccia della scarsità di idee. Forse è un’impressione sbagliata, ma il “rottamatore” sembra quasi rassegnato a sfruttare le ingessature del sistema, anziché provare di nuovo a cambiarlo. La storia della legge elettorale è emblematica al riguardo. Con l’attuale sistema ritagliato dalla Corte Costituzionale, è quasi certa l’ingovernabilità del Parlamento. Il che significa la condanna a esecutivi tecnici o “del presidente” in una condizione di grave debolezza. Forse varrebbe la pena tentare ancora l’approvazione di un modello elettorale più adeguato, magari il cosiddetto “Mattarellum” aggiornato su cui potrebbe accendersi l’interesse di Forza Italia e della Lega.
Viceversa, il vertice renziano sembra agnostico su questo punto. Come se il segretario fosse appagato dalla prospettiva di controllare un cospicuo numero di parlamentari grazie alle liste bloccate. Il che gli permetterebbe comunque di esercitare il potere all’interno di un Parlamento “impiccato”, come dicono gli inglesi. Sarebbe al centro della scena, certo, e magari Berlusconi con il suo gruppo lo cercherebbe. Ma per un bizzarro scherzo del destino, questo Renzi sarebbe solo un lontano parente di quello che vinse le europee nel ‘14 con irruente dinamismo.
Corriere 9.9.17
«Resto senza stipendio e aspetto una soluzione. Se il problema sono io mi farò da parte»
Gabanelli: il portale online è necessario
di Virginia Piccolillo
ROMA Allora, Milena Gabanelli, ci ha ripensato?
«No. Il mio non è un capriccio, ma la certezza che non ci sono le condizioni per produrre risultati. E di cui poi devo rispondere».
Il dg Mario Orfeo è amareggiato: le ha proposto la condirezione di Rainews e lei ha rifiutato.
«Anch’io non sono felice di come sia andata. Il mio incarico è far funzionare l’informazione online, che la Rai non ha, malgrado i suoi 1.600 giornalisti. La proposta è quella di stare dentro un sito che non ha i presupposti per funzionare, in attesa degli eventi».
Il Cda non capisce il suo no.
«I casi sono due: o sono matta (e sono stata abile a mascherarlo per 20 anni) o qualche ragione c’è, visto che ho rinunciato allo stipendio, e non sono ricca di famiglia. Non voglio polemizzare, il Cda ha il diritto di decidere cosa vuole fare, e io di rifiutare».
C’è chi legge la sua aspettativa come uno strappo .
«Al contrario. È una disponibilità ad attendere o trovare altre soluzioni, e non a carico del cittadino. Nella pubblica amministrazione ci sono molti incarichi fittizi. Anche in Rai. Ho fatto battaglie contro questo malcostume. Non produrre nulla e incassare lo stipendio lo troverei umiliante».
Perché non le basta la promozione e uno staff di 40 giornalisti scelti da lei?
«Non ne ho mai fatto una questione di carica. E lavorare con Di Bella, che stimo, è pure divertente. Ma buona parte dei giornalisti che ho incontrato sono disponibili a trasferirsi al portale unico Rai, ma non al sito di una testata. Così quelli di tg nazionali e regionali, corrispondenti: tutti felici di contribuire. Ma non a Rainews.it, perché è percepito come il sito di una testata concorrente».
Vuole una sua testata, come dice Maurizio Gasparri (FI) ironizzando sul doppio significato del termine?
«È spiritoso. Ma io non voglio né un “mio” Portale, né una “mia” testata. Ho regalato all’azienda il marchio Report , e non conosco un solo autore che non se lo sia tenuto, figuriamoci. Però difendo il diritto di mettere la faccia su qualcosa che firmo».
Michele Anzaldi (Pd) le chiede trasparenza.
«Sulla trasparenza ho costruito la mia carriera. Rispondo al mio superiore gerarchico, il dg. Ma se Anzaldi vede qualcosa di opaco basta che chieda e consegnerò le relazioni sul lavoro svolto in questi 6 mesi, a lui e, se ritiene, alla Vigilanza».
Ha detto «no» a Freccero. Non era dalla sua parte?
«Le ragioni Freccero le conosce perché gliele ho spiegate personalmente».
C’è chi dubita che in pochi mesi pre-elezioni si possa fare un piano News.
«Quel che so è che quando c’è volontà si può fare tutto».
Il M5S crede ci sia un «veto politico» nei suoi confronti.
«Non voglio cadere nella trappola della demagogia. Credo che ci siano idee diverse, e sia oggettivamente complicato ridurre le testate perché bisogna fare i conti con sacche di potere».
Si aspettava questo quando ha lasciato Report ?
«Ho accettato sapendo perfettamente che la decisione finale la doveva prendere il Cda, e non era scontata, ma ho corso il rischio: è una bella sfida».
Pentita?
«Dopo 20 anni la scelta era invecchiare con Report o mettermi in gioco con un nuovo progetto».
E se questo non si farà?
«Sarebbe un peccato per la Rai che non può permettersi un ulteriore ritardo sull’informazione online. Se invece il problema sono io, non ho difficoltà a farmi da parte, il lavoro fin qui fatto non andrà sprecato. Non ho paura del futuro e non sono legata alle poltrone, ho delle idee e una reputazione che vorrei continuare a mettere a disposizione del servizio pubblico. Ma non inventandomi un nuovo programma, altrimenti sarei restata dov’ero».
Il Fatto 9.9.17
Chi caccia Milena Gabanelli fa danno alla Rai e all’Italia
di Giovanni Valentini
“Ai partiti non verrà mai in mente di ritirarsi di propria iniziativa, praticando un disarmo unilaterale, da quella Rai che si contendono palmo a palmo come un campo di battaglia”
(da La tv che non c’è di Gilberto Squizzato, Edizioni minimum fax, 2010 – pag. 39)
Non è un ultimatum, ma piuttosto un coraggioso j’accuse, la richiesta di Milena Gabanelli al dg della Rai di concederle una “aspettativa non retribuita”, fino a quando l’azienda avrà varato il nuovo piano per l’informazione e le affiderà eventualmente la direzione di una nuova testata. Un atto d’accusa contro lo stesso dg, Mario Orfeo; contro il Cda e la sua presidente, Monica Maggioni; e soprattutto contro una “riformicchia” del servizio pubblico – come l’abbiamo definita fin dall’inizio – che il governo Renzi e la sua fotocopia Gentiloni si sono palleggiati come una patata bollente, sottraendo di fatto la Rai al controllo del Parlamento per sottoporla a quello di Palazzo Chigi e violando così le prescrizioni della Corte costituzionale. È naturale, perciò, che il Cda la definisca “una scelta sorprendente e non comprensibile”. Sorprendente per chi vive nel palazzone a vetri di viale Mazzini come in una torre d’avorio. Non comprensibile per chi, dentro e fuori quel falansterio inquinato dalla politica e dall’amianto, non s’accorge che ormai il servizio pubblico va alla deriva.
Né tantomeno può meravigliare il fatto che questa crisi scoppi proprio sull’informazione, il nervo scoperto di una Rai lottizzata dai partiti, vittima di una spartizione più o meno occulta. È proprio questo l’“oggetto oscuro del desiderio” su cui si scatenano, come nel film di Luis Buñuel, gli appetiti dei contendenti. Ma si dà anche il caso che questa sia la “ragione sociale” della radiotelevisione pubblica, il motivo per cui lo Stato sottoscrive un “Contratto di servizio” e i cittadini pagano il canone. Appena la settimana scorsa il dg rivendicava il titolo professionale di giornalista, per sé e per la presidente Maggioni, come garanzia di rinnovamento per il futuro dell’azienda. Ed ecco che una delle figure più autonome e indipendenti dell’informazione targata Rai, come l’ex conduttrice di Report, rifiuta una “sistemazione”, un accomodamento, un compromesso, per lanciare una requisitoria contro la normalizzazione televisiva della gestione “parte-nopea” di Orfeo. E tutto ciò mentre ancora si aspetta il mitico “piano per l’informazione”, su cui avevano già fallito l’ex direttore generale Antonio Campo Dall’Orto e il suo “direttore editoriale” Carlo Verdelli. Aggiungiamo poi che il “caso Gabanelli”, nell’era della comunicazione online, interattiva e multimediale, mette a nudo i ritardi culturali e le lentezze burocratiche per cui la Rai non è riuscita ancora a dotarsi di un sito web efficiente e funzionale. Un progetto per il quale in passato s’era già battuta inutilmente una professionista esperta e affidabile come Carmen Lasorella, prima nominata presidente di RaiNet, poi “demansionata”, quindi reintegrata dal magistrato e ancora in attesa di una collocazione adeguata. Qui si tratta davvero di un “danno emergente” e di un “lucro cessante”, come dicono i civilisti, dal momento che l’azienda possiede un patrimonio radiotelevisivo unico in Italia e produce ogni giorno video e servizi che nessun altro sito potrebbe permettersi. Ripetiamolo ancora: senza informazione, la Rai non ha ragione di esistere. E senza un’informazione effettivamente pluralista, magari una contro-informazione intesa come controllo del potere, il servizio pubblico perde la sua stessa legittimazione istituzionale.
Repubblica 9.9.17
“Intercettazioni, è bavaglio” M5S e sinistra sulle barricate contro il decreto Orlando
I grillini accusano il governo di voler “cancellare Consip” Dubbi nel Pd: “I politici hanno meno diritto alla privacy”
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA. «Una nuova legge bavaglio », «un modo per coprire l’inchiesta Consip», «un vulnus nella lotta alla corruzione». A protestare forte contro la bozza di decreto attuativo in materia di intercettazioni anticipata ieri da
Repubblica – che prevede tra l’altro il divieto di pubblicarle se non in forma di riassunto - sono soprattutto il Movimento 5 Stelle e la galassia che si muove a sinistra del Pd: i bersaniani di Mdp, Sinistra italiana, Possibile.
In una nota il gruppo dei deputati M5S accusa il governo di avere pronto «un colpo di spugna per salvare Tiziano Renzi, Lotti e il cerchio magico coinvolto nell’inchiesta Consip». E continua: «Renzi vuole portare a casa una norma che impedirebbe di fatto ai magistrati di fare il proprio mestiere nel perseguire i corrotti e di avere un importante strumento per condannare coloro che si macchiano di gravi reati. Con questa legge, gente come Buzzi, Carminati, coloro che ridevano del terremoto a L’Aquila e i cosiddetti “furbetti del quartierino” oggi la farebbero franca».
«Il guardasigilli Andrea Orlando pensi ai tempi della giustizia », dice il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. E il vicepresidente della commissione Giustizia Alfonso Bonafede, sempre M5S, rincara: «Siamo di fronte a un’istigazione a delinquere a norma di legge: un bavaglio che mette in grave pericolo l’informazione e le basi stesse della nostra democrazia». Ma la dem Donatella Ferranti reagisce: «Di Maio ha preso l’ennesima cantonata - dice la presidente della commissione Giustizia a Montecitorio - la realtà è esattamente il contrario di quanto sostiene. La durata dei processi si è sensibilmente ridotta grazie agli investimenti, alle assunzioni e alle riforme fatte in questi anni». Inoltre, «nessuno ha in mente di bloccare l’uso delle intercettazioni. Le accuse di Di Maio sono completamente fuori bersaglio».
Ad attaccare però sono anche gli alleati di Mdp: «Articolo 18, ponte sullo Stretto, bavaglio sulle intercettazioni: sbaglierò, ma è un programma che ho già sentito », scherza il deputato Arturo Scotto. E aggiunge: «Ci sono questioni molto serie. La prima riguarda il riassunto. La legge dovrebbe stabilire se qualcosa è pubblicabile o meno: non dev’essere un giudice, ma il giornalista, a decidere come sintetizzarla. Poi c’è il problema della delega: nel pre-consiglio dei ministri del 7 settembre sono stati portati 12 decreti attuativi. Il governo Renzi ne ha emanati 1071. Questo significa che le funzioni del Parlamento sono sospese, perché le commissioni sono chiamate solo a dare un parere su queste norme ». Dello stesso parere Giulio Marcon: «La stampa deve essere libera – dice il capogruppo alla Camera di Sinistra italiana - non può sottostare a una limitazione dell’uso delle informazioni di cui viene in possesso anche grazie alle intercettazioni». E Pippo Civati, di Possibile, aggiunge: «Mi preoccupa soprattutto la questione della corruzione. Non si capisce perché non sia considerata al pari di altre questioni di intelligence. O forse lo capisco benissimo». Il riferimento è a quella parte della bozza di decreto in cui si limita l’uso dei “captatori informatici” che permettono di entrare in un cellulare e utilizzarlo come un registratore. L’uso verrebbe delimitato ai delitti più gravi, come mafia e terrorismo, e non riguarderebbe appunto la corruzione.
Nel Pd, i dubbi restano per lo più sommersi, anche se sono in molti ad auspicare un confronto pieno con la Federazione nazionale della stampa. «Voglio scommettere sulla cultura politica del ministro Orlando», dice il deputato Davide Mattiello, relatore della legge sui Beni confiscati e già coordinatore di Libera. «I principi che la delega chiede di tutelare sono da una parte la privacy e dall’altra la libera informazione. Ma nel dibattito, all’interno del Pd, è venuta fuori in modo chiaro la consapevolezza che chi riveste un ruolo pubblico deve avere una pretesa di privacy ridotta rispetto a un privato cittadino. Sono convinto che Orlando ascolterà le parti coinvolte e saprà trovare il giusto equilibrio».
Repubblica 9.9.17
“Così la politica regola i conti con i giornalisti”
Raffaele Lorusso, Segretario della Fnsi
“Non andremo al tavolo del governo”
di Silvio Buzzanca
ROMA. Raffaele Lorusso, presidente della Federazione nazionale della stampa, cosa pensa della proposta sulle intercettazioni?
«Penso che in primo luogo ci sia un problema di metodo. Da sei mesi ci è stato promesso un tavolo sul dilagare delle querele temerarie a scopo intimidatorio, usate per tappare la bocca ai giornalisti. Ma alla vigilia della fine della legislatura arriva una sorta di proposta che fa carta straccia di un’altra promessa. Sulle intercettazioni il ministero aveva annunciato che sarebbe stato insediato un altro tavolo di esperti. Tanto è vero che anche alla Fnsi era stato chiesto un nome per partecipare a questi lavori. Questo tavolo non si è mai riunito e ora ci viene chiesto solo un parere da rendere nel corso di un’audizione con il ministro. C’è stata quindi un’accelerazione e per questo noi non andremo a questo incontro con il ministro. Manderemo però delle nostre osservazioni ».
E così arriviamo al merito delle bozze di regolamentazione delle intercettazioni...
«Nel merito prendiamo atto che sono scomparse quelle parti che introducevano sanzioni per giornalisti e giornali che avessero pubblicato atti coperti da segreto. Ma rappresenta un passo indietro, e non ci convince, il fatto di volere impedire non solo ai giornalisti, ma anche a chi dovrà poi utilizzare gli atti giudiziari, di venire in possesso delle trascrizioni integrali delle conversazioni. Ci si dovrà accontentare di un sunto. E la prima domanda che sorge spontanea è: “chi lo fa questo sunto?”. Questa procedura non garantisce né l’imputato né chi deve fare informazione perché ci si dovrà accontentare di un racconto di seconda mano. E stiamo parlando di atti rilevanti ai fini del processo, non di atti irrilevanti. ».
E per gli atti coperti da segreto?
«Ma se questi atti hanno una rilevanza sociale, interessano l’opinione pubblica e il giornalista ne viene in possesso è tenuto a pubblicarli. Basta leggere le sentenze in materia della della Corte europea dei diritti dell’uomo».
Invece le intercettazioni-gossip?
«Se la preoccupazione è quella di mettere al riparo i personaggi pubblici, bisogna ricordare che questi pagano il prezzo della loro notorietà e il loro diritto alla privacy è attenuato. E più sono famosi è più è attenuato. Ma è ormai chiaro che dietro queste proposte traspare il desiderio recondito, trasversale, del mondo politico di regolare i conti con l’informazione. Noi ci mobiliteremo come abbiamo fatto nel 2009. Forti del fatto che esistono norme internazionali e che la Cedu ha sempre sanzionato gli Stati che hanno tentato di limitare il diritto ad informare ed essere informati.
Repubblica 9.9.17
Il guardasigilli: “Quella è una bozza, dovevo pur dare un punto di partenza. E c’è tempo fino al 3 novembre per trovare l’intesa”
La retromarcia del ministro “Discuteremo e cambieremo via il divieto di frasi integrali”
di Liana Milella
ROMA. «Di una cosa sono sicuro, non sarà questo il testo finale della riforma delle intercettazioni». Parola di Andrea Orlando che da New York, dove si trova per una breve vacanza, legge
Repubblica, e piglia le distanze dal decreto che pure, tra lunedì e martedì, resterà la base di discussione tra lui stesso, i capi delle maggiori procure italiane (Greco, Spataro, Creazzo, Pignatone, Melillo, Lo Voi), le Camere penali, la Fnsi (se alla fine accetterà di esserci), e noti giuristi. Un testo sottoscritto dall’ufficio legislativo di via Arenula, inviato ufficialmente ai protagonisti dei prossimi incontri, ma di cui il ministro della Giustizia dice: «Voglio essere chiaro su questo punto, questo è un testo di cui non riconosco la paternità». Anche se la lettera di accompagnamento portava in calce proprio la sua firma, Orlando – raggiunto per tutta la giornata dagli echi delle polemiche – la spiega così: «Da un punto di partenza dovevo pur cominciare, ma alla fine la riforma delle intercettazioni non sarà quella contenuta in quelle pagine». Neppure la disposizione più contestata e allarmante sia per il diritto di cronaca che per il lavoro stesso delle toghe, l’obbligo di non citare letteralmente e tra virgolette le intercettazioni, ma riportandone solo «il contenuto »? Anche su questo Orlando fa retromarcia rispetto alla bozza: «È un punto che sicuramente potrà cambiare».
Sono le 18, le 12 a N.Y, quando la voce di Orlando risuona conoscibilissima al telefono. Pronto a spiegare, chiarire, evitare una polemica sulle intercettazioni, di certo la legge più sensibile per il comparto della giustizia. Prima del governo Gentiloni, sulla riforma degli ascolti, si sono arenati Prodi e Berlusconi, si sono dovuti arrendere ministri pur politicamente e/o tecnicamente agguerriti come Flick, Castelli, Mastella, Alfano. Una presidente della commissione Giustizia come Giulia Bongiorno ha fatto da baluardo all’aggressione distruttiva dell’ex Cavaliere. Ma Orlando invece non vuole perdere l’occasione di cambiare le regole.
È proprio convinto, ministro, di voler portare a casa la riforma? Lui ci prova, incurante degli attacchi e delle polemiche di M5S che già gli piovono addosso: «La legge sul processo penale (che contiene la delega al governo per cambiare le intercettazioni, ndr.) mi dà tempo fino al 3 novembre. Entro quella data io devo presentare il testo in consiglio dei ministri. Poi, certo, sarà Gentiloni a decidere». Una sfida dunque, come quella sullo stesso processo penale approvato il 23 giugno ed entrato in vigore il 4 agosto, che contiene norme contestate come la prescrizione.
Ora tocca alle intercettazioni e all’annosa battaglia tra privacy e verità processuale, ai Trojan horse, captatori informatici che trasformano uno smart phone in una microspia, al carcere fino a 4 anni per chi registra fraudolentemente un colloquio tra privati.
Orlando si dichiara pronto alla battaglia. E vuole scansare la prima mina, quella bozza che già gli ha messo contro magistrati – molti agitano già lo spauracchio dell’incostituzionalità sull’obbligo del riassunto – e giornalisti. Nel corso della telefonata ripete più volte: «Alla fine il testo non sarà quello della formulazione iniziale, ma da un punto dovevo pur partire. Nel presentarlo durante le audizioni sarò chiaro nel dire che le opzioni sono tutte aperte perché quello che si apre è un confronto serio e vero, né finto, né fittizio ». Il Guardasigilli poi si rivolge ai magistrati: «Vorrei che anche le procure si assumessero la paternità del testo finale».
Sicuramente una questione da superare è quel riassunto che già allarma più di una toga. Ma Orlando lo considera superabile e vede come più impegnativi altri nodi. «In quel testo ci sono problemi molto più seri, in primo luogo l’udienza stralcio. Perché, se la si rende obbligatoria, la procedura rallenta inevitabilmente l’inchiesta. Ma se non si fa, si attribuisce solo al giudice la delicata incombenza di decidere quali intercettazioni sono rilevanti e quali no». Il ministro intravvede una soluzione: «Si potrebbe non renderla obbligatoria, ma farla solo su richiesta delle parti». Delicato anche il punto dell’archivio riservato, la futura cassaforte di tutte le intercettazioni che nessuno potrà né conoscere né pubblicare: «Qui bisogna avere delle certezze, e una può essere quella di affidare al capo della procura l’obbligo della vigilanza».
Nodi antichi e intricati. Non pensa, ministro, che sarebbe stato meglio fare una commissione? Orlando è scettico e chiude così il colloquio con Repubblica: «Ero pronto a farla, ma i tempi si sarebbero dilatati rispetto alla scadenza del 3 novembre. E poi non sono affatto certo che le polemiche non sarebbero state anche maggiori…».
La Stampa 9.9.17
il referendum catalano sfida anche l’Ue
di Stefano Stefanini
Abbiamo fatto il callo ai referendum e alle spinte secessioniste. Gli uni non si contano. Delle altre non ce ne preoccupiamo più di tanto. Siamo convinti di poter limitare i danni. Queste comode sicurezze saranno presto messe alla prova. Il referendum sull’indipendenza che la Catalogna ha proclamato per il 1° ottobre rischia di precipitare la Spagna in una crisi costituzionale e politica e di aprire una ferita nel cuore dell’Europa.
Gli indipendentisti catalani sono in buona compagnia secessionista: le anime gemelle abbondano fra baschi, fiamminghi belgi e scozzesi. Il problema non è tanto quello che essi vogliono quanto il modo con cui lo perseguono: cercando, via referendum, una legittimazione politica che travalichi lo Stato di diritto. Nel giro di 48 ore, con una risicata maggioranza (72 voti su 135), il Parlament de Catalunya ha approvato la legge che convoca il referendum il 1° ottobre e la legge «di transitorietà». La seconda prevede, in caso di vittoria del «Sì» nel referendum, l’avvio automatico della transizione allo Stato catalano indipendente. Per Madrid, e soprattutto per la Consulta spagnola, sono incostituzionali, e quindi illegali l’una e l’altra. Il braccio di ferro è appena iniziato; l’esito incerto.
Il referendum catalano è una sfida alla Spagna ma anche all’Unione europea. La «legalità» costituzionale è un valore fondante delle democrazie occidentali. Per impedire che sia scavalcata dal barometro variabile degli umori politici gli Stati Uniti hanno praticamente blindato la loro Costituzione. Questo il motivo per cui la democrazia ha retto per oltre due secoli e mezzo, compresa anche una sanguinosa guerra di secessione. Le guide di Mount Rushmore spiegano che il volto di Lincoln è scolpito nella roccia «perché ha tenuto insieme l’Unione, non per l’abolizione della schiavitù».
Non ci sarà guerra per l’indipendenza della Catalogna, ma il referendum sta conducendo a un confronto senza esclusione di colpi istituzionali e giuridici fra Madrid e Barcellona. All’accusa d’incostituzionalità gli indipendentisti catalani rispondono facendo appello all’autodeterminazione dei popoli. Ma la loro sarebbe un’autodeterminazione ai minimi termini, e neppure maggioritaria. Per il referendum non è richiesto alcun quorum. Le previsioni (indipendentiste) sono di una maggioranza di circa il 60% su un’affluenza intorno al 70%: questo significherebbe che un terzo o poco più degli aventi diritto deciderebbe il futuro della Catalogna. Difficile immaginare che Madrid possa accettarlo.
Correndo alle urne per scegliere fra rimanere Spagna o dar vita a una Repubblica della Catalogna, Barcellona sta compiendo un forcing di brutalità politica senza precedenti in un Paese dell’Unione europea. La poca attenzione che la questione catalana ha finora ricevuto fuori Spagna è dovuta anche al desiderio di Madrid di non dargli rilevanza europea e internazionale. Le capitali lo rispettano. L’Ue ha già abbastanza problemi da non cercarne altri. Quest’indifferenza ha tuttavia i giorni contati. Volente o nolente, l’Ue dovrà fare i conti con le ricadute del referendum del 1° ottobre.
L’Europa può gestire le spinte secessioniste e di rigetto dell’integrazione sovranazionale finché restano in un solco di legalità istituzionale. Il referendum catalano si svolgerà (se si svolgerà) in un quadro giuridico d’illegalità e di aspro scontro politico col governo nazionale, che non ne riconoscerà né la tenuta né l’esito. Questo ne rende i seguiti imprevedibili e dirompenti. Non era assolutamente così nei precedenti canadesi, sull’indipendenza del Québec nel 1980 e nel 1995, e scozzese nel 2015.
Ingestibile è soprattutto il metodo referendario quando mette nelle mani di un elettorato sommariamente informato scelte complesse, talvolta vitali talvolta marginali, facendo leva su sentimenti ed emozioni anziché sulla ragione. Sarà così in Catalogna, com’è stato in Olanda lo scorso aprile (accordo di associazione Ue-Ucraina), nel Regno Unito lo scorso giugno (Brexit) o in Italia lo scorso dicembre (riforma costituzionale per l’abolizione del Senato).
Non è un caso che la Costituzione italiana circoscriva, saggiamente, il ricorso al referendum. Senza limiti, in nome di un’apparente democrazia, il referendum si traduce troppo spesso in un’abdicazione alle responsabilità di governo e in un trionfo delle emotività nazionali sull’interesse nazionale. Lo rischia la Catalogna il 1° ottobre; lo rischia l’Europa.
il manifesto 9.9.17
L’America ostaggio delle milizie
Hate groups. All’origine dei gruppi armati di estrema destra che oggi infestano le piazze statunitensi proclamando la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale
Antinazisti a Charlottesville: «Non ci posso credere, sto ancora protestando contro i nazisti»
di Fabrizio Tonello
È stato arrestato l’uomo che aveva sparato sulla folla a Charlottesville nel corso della manifestazione dell’estrema destra lo scorso 12 agosto, fortunatamente senza conseguenze: si tratta di un membro del rinato Ku Klux Klan, Richard Preston. La marcia Unite the Right si era conclusa con un morto, una ragazza che protestava contro l’invasione del campus dell’università della Virginia, Heather Heyer, investita dall’auto di un neonazista dell’Ohio.
LA GALASSIA di organizzazioni e gruppuscoli che si era data convegno quasi un mese fa è fortemente eterogenea ma il suo nucleo duro sono le cosiddette milizie, gruppi armati che proclamano la necessità di prepararsi allo «scontro finale» con il governo federale, considerato illegittimo e tirannico. Alcune decine di membri di questi gruppi, vestiti in tuta mimetica e con i loro fucili mitragliatori bene in vista erano presenti a Charlottesville, riuscendo a intimidire la stessa polizia, che è stata molto criticata per non aver impedito il contatto fra i neonazisti e gli studenti che protestavano contro la loro presenza.
Secondo il Southern Poverty Law Center, un centro studi di Montgomery, in Alabama, che monitora le attività delle organizzazioni razziste e antisemite, ci sono circa 917 hate groups attivi negli Stati Uniti oggi e, di questi, circa 165 sono milizie armate, che nascono sulla scia di due incidenti degli anni Novanta, uno a Waco in Texas e uno a Ruby Ridge, in Idaho, due episodi che fecero da catalizzatore a sentimenti di estraneità e diffidenza nei confronti del governo federale abbastanza diffusi nel West. Quest’ultimo caso, avvenuto nell’agosto di 25 anni fa, merita una ricostruzione più dettagliata perché la morte di una giovane madre ad opera di un tiratore scelto dell’Fbi diede al “movimento” i suoi primi martiri.
RANDY WEAVER E SUA MOGLIE Vicki lasciarono l’Iowa nel 1983 per stabilirsi nella parte più settentrionale dell’Idaho, in mezzo alle montagne a pochi chilometri dal confine canadese. Weaver era un ex berretto verde legato a un movimento fondamentalista chiamato Christian Identity. Nel dicembre 1990, Weaver viene messo sotto accusa per possesso, fabbricazione e vendita illegale di armi da fuoco. Il suo processo deve iniziare il 20 febbraio 1991 ma per un errore Weaver non si presenta all’udienza e il 14 marzo un procuratore federale lo incrimina per non essere comparso in aula.
GLI AGENTI FEDERALI, sapendo che Weaver è in contatto con Christian Identity, lo vedono come un pericoloso criminale, un Rambo capace di sopravvivere nei boschi e di eliminare un intero battaglione mandato alla sua ricerca, mentre Weaver a sua volta si autoconvince che ci sia un complotto del governo contro di lui e si autosequestra in una capanna nei boschi a Ruby Ridge, insieme alla famiglia.
Per un anno e mezzo, Weaver e le autorità giocano al gatto e al topo: l’uno sempre più convinto che le forze del male siano in agguato, gli altri sempre più sicuri che un’operazione paramilitare su larga scala sia necessaria per effettuare l’arresto, visto che l’intera famiglia è armata. Nella solitudine della casetta, Vicki Weaver dà alla luce un quarto figlio, Elishaba.
Il momento della verità arriva il 21 agosto 1992 quando Sam Weaver, il figlio quattordicenne di Randy, e Kevin Harris, un ventiquattrenne che vive con la famiglia, vengono sorpresi da sei sceriffi federali a poca distanza dalla casa. Ne segue uno scontro a fuoco in cui muoiono Sam e uno degli agenti, William Degan. Gli sceriffi federali si ritirano solo quando ricevono rinforzi, dopo nove ore di battaglia in piena regola. Un’unità speciale dell’Fbi chiamata Hostage Rescue Team viene fatta arrivare sul posto, l’assedio comincia.
UNDICI TIRATORI SCELTI prendono posizione attorno alla casa, dove ci sono adesso tre bambini, i coniugi Weaver e Kevin Harris. È il comandante della squadra speciale, Richard Rogers, a decidere che qualunque maschio adulto della famiglia Weaver (quindi Randy Weaver e Kevin Harris) sarà considerato un obiettivo legittimo per i tiratori dell’Fbi senza che ci sia bisogno di atti ostili da parte sua. Si spara a vista. Queste regole per aprire il fuoco diventeranno poi il cuore dello scandalo: tradizionalmente gli agenti federali sono autorizzati ad aprire il fuoco soltanto se c’è un immediato pericolo di vita per se stessi o per dei civili.
Il giorno dopo, sabato 22 agosto, Randy Weaver e Harris escono dalla capanna e immediatamente gli agenti fanno fuoco: Weaver viene ferito alla spalla, Harris si precipita verso la porta e un cecchino, Lon Horiuchi, spara anche su di lui. Il colpo lo manca ma uccide Vicki Weaver, che aveva in braccio la piccola Elishaba.
I vicini di casa di Weaver e gli abitanti della contea, intanto, manifestano la loro ostilità contro il governo federale e le sue «truppe di occupazione» innalzando cartelli come: «Lasciate in pace la famiglia, andatevene a casa», «Cristiani contro la tirannia», «Basta con questi abusi della nostra libertà», «Il governo mente, un patriota muore».
LO SCONTRO SI CONCLUDE grazie alla mediazione di James “Bo” Gritz, un ex comandante dei berretti verdi in Vietnam che aveva avuto Weaver nel suo reparto 13 anni prima. Harris e Weaver vengono rinviati a giudizio per l’omicidio dello sceriffo e per una infinita serie di reati, ma nel corso del processo il vero imputato diventa l’Fbi, che aveva deciso di sparare per uccidere e non solo per rispondere al fuoco.
L’immagine di una madre americana uccisa sulla porta di casa con una neonata in braccio sembrava fatta apposta per commuovere i giurati.
NEL LUGLIO 1993 Weaver viene assolto da tutti i capi d’imputazione, tranne quella di detenzione d’arma illegale, per la quale viene condannato a 18 mesi di prigione, che finisce di scontare poco prima del Natale 1993. La morte di Vicky Weaver diventa una cause celèbre non solo per gli estremisti di destra ma anche per i repubblicani alla Camera e al Senato. In fondo si trattava di una donna, bianca, madre di una bimba di pochi mesi, uccisa sulla porta di casa da una pallottola della polizia: una martire fatta su misura per chi volesse mettere sotto accusa l’operato dell’amministrazione Clinton.
Quando il governo eccede nell’uso della forza essere bianchi, cristiani e di destra aiuta molto: la pressione della maggioranza politica repubblicana è tale che nel 1995 il dipartimento della Giustizia preferisce chiudere il caso Weaver con una mezza ammissione di colpa: in base a un accordo firmato nell’agosto le tre figlie di Randy ricevono un milione di dollari ciascuna per compensarle del «dolore» e della «sofferenza» causate dalla morte della loro madre.
DA ALLORA, GLI WEAVER diventano icone dell’estrema destra, simboli da imitare, come faranno Ammon Bundy e i suoi amici, che nel gennaio 2016 occupano un piccolo edificio, il Malheur Wildlife Refuge, in Oregon per protestare contro la “prepotenza” del governo federale. Dopo 40 giorni di assedio e uno scontro a fuoco in cui muore uno dei miliziani il gruppo si arrende ma, anche in questo caso, la giuria popolare manifesta la sua simpatia per i ribelli assolvendoli dalla maggior parte delle accuse.
Quando Donald Trump rifiuta di condannare esplicitamente i suprematisti bianchi che hanno invaso Charlottesville in realtà parla a questa parte di America profonda.
Corriere 9.9.17
Londra-Tokyo in 10 giorni Mosca rilancia il ponte che unirà Europa e Giappone
di Fabrizio Dragosei
Così la Transiberiana arriverebbe a 12 mila chilometri di ferrovia
MOSCA È uno dei grandiosi progetti che la Russia sogna da anni e che, in buona parte, giacciono nei cassetti dei ministeri. Ma adesso sembra che Vladimir Putin e Shinzo Abe vogliano veramente mettere mano all’ambiziosa idea di unire Russia e Giappone con un tunnel o con un ponte, trasformando la ferrovia Transiberiana in un infinito collegamento via terra di oltre dodicimila chilometri che congiungerebbe il Paese del Sol Levante con l’Europa. Poco più di dieci giorni per percorrere in treno la distanza tra Milano, Parigi o Londra e Tokyo.
Un sogno? I tecnici coinvolti nell’idea assicurano che sia fattibile e i politici sembrano convinti. «Stiamo seriamente offrendo ai nostri partner giapponesi di costruire assieme il collegamento stradale e ferroviario», ha detto tre giorni fa il vicepremier Igor Shuvalov, che accompagnava il presidente russo a Vladivostok dove c’è stato un incontro con il primo ministro giapponese. Ma le incertezze sono tante, legate sia alle difficoltà economiche che a quelle politiche, visto che Russia e Giappone sono ancora divise dalla disputa sulle isole Kurili occupate da Stalin alla fine della Seconda guerra mondiale e mai restituite (non hanno ancora firmato un trattato di pace).
Il piano, almeno in parte, risale addirittura al dittatore sovietico che negli anni Quaranta diede il via libera allo studio per unire l’isola di Sakhalin alla terraferma. Già, perché i tunnel o ponti dovrebbero essere due. «E noi stiamo per iniziare la nostra parte dell’opera», ha aggiunto Shuvalov. Dunque un traforo sottomarino di 11 km nello stretto di Nevelskoj, nel punto in cui l’isola si avvicina maggiormente alla costa. A quel punto la Transiberiana proseguirebbe lungo Sakhalin per 600 km. C’è già una vecchia linea giapponese ma, tra l’altro, ha uno scartamento diverso da quello standard russo. Poi, arrivati a capo Crillon, si dovrebbe attraversare il mare per 45 km, fino a capo Soya in Giappone. Di lì la ferrovia si congiungerebbe con la velocissima rete degli Shinkansen che sfrecciano a 300 km orari lungo l’isola di Hokkaido e percorrono il tunnel sottomarino di Seikan per arrivare nella maggiore isola giapponese, sulla quale si trovano Tokyo e le altre grandi città.
Ai giapponesi l’idea interessa soprattutto in vista dello sfruttamento delle risorse di Sakhalin, petrolio e gas in primo luogo. Oltre al collegamento ferroviario, pensano infatti a un gasdotto per far arrivare nelle loro isole il metano russo di cui hanno grande bisogno ora che i progetti nucleari sono stati rivisti drasticamente a seguito dell’incidente del 2011 alla centrale di Fukushima.
I russi continuano a riproporre piani imponenti, in buona parte pensati già nei decenni passati. Oltre all’idea di usare il passaggio a Nord-Est per far raggiungere l’Estremo Oriente alle navi europee (per ora non pratico dal punto di vista commerciale), vorrebbero estendere fino a Seul la Transiberiana che già arriva in Corea del Nord. Ma la situazione politica è tutt’altro che favorevole. Stesso discorso per l’unione tra la Chukotka e l’Alaska, con ponte o tunnel, per raggiungere Canada e Stati Uniti. L’unico dei grandi progetti di un tempo che si sta realizzando è quello del ponte fra la terraferma russa e la Crimea: procede a tappe forzate da quando l’Ucraina ha interrotto il traffico dopo l’annessione della penisola da parte della Russia.
Per fortuna, invece, non sono mai andati in porto i piani del leader sovietico Krusciov che nei primi anni Sessanta voleva irrigare l’Asia Centrale invertendo il corso dei grandi fiumi siberiani (che scorrono verso l’Artico). L’idea dei tecnici era di realizzare il progetto a colpi di bombe atomiche.
Il Fatto 9.9.17
L’incomprensibile enigma del dittatore coreano
di Furio Colombo
Caro Furio Colombo, finora abbiamo visto come uno scherzo il giovane e strambo Kim Jong-un. Ma adesso?
Giuseppe
Credo che la misteriosa leadership nord-coreana sia stata sempre guardata con disagio dal resto del mondo, compresi i vari tipi di rivoluzionari, guerriglieri e terroristi, che non hanno mai, che si sappia, voluto incontri o legami o ricevuto inviti. Con tutta la pretesa che la maggior parte dei grandi Paesi occidentali esibiscono, non sembra che uno solo (compresi i grandissimi) ne sappia di più. Per esempio dove, in quello strano gruppo di esseri umani, risiede davvero il Potere (che invece potrebbe essere nascosto, usando marionette) e quale dei grandi del mondo potrebbe essere tutore di una simile forza o minaccia di forza? Qualcuno o qualcosa ha generato o gestisce lo spettacolo che per metà è di follia e per metà gioco, con un immenso pericolo, che può sempre sfuggire di mano. Ma, esattamente, quale mano?
Ci sono pochissimi candidati al costo di una simile operazione. Ma non è strano che non sia mai trapelato niente? Non ci sono più spie al mondo, comprese quelle che muoiono, ma rivelano? Una riflessione è importante: non c’è mai stato un caso Kim Jong-un, prima d’ora, nel mondo. Mai un potere, che appare enorme, pur nelle modeste dimensioni di un Paese secondario, ha potuto nascondere in modo così perfetto come nasce, da dove viene e dove vuole andare, chi lo tiene in pugno, visto che non potrebbe controllare la parte di mondo che vuole distruggere. Il vero problema non è la diplomazia. Con la Corea del Nord, anche prima di Kim, è fatuo dire, di tanto in tanto, frasi tipo: “Basta, in queste condizioni un dialogo non è più possibile”. Non c’è mai stato neppure l’abbozzo di un dialogo. La Corea del Nord dunque non parlava e non parla, non annunciava e non annuncia, non aveva un sia pur limitato numero di amici o alleati, che anche adesso non ha. Qui la vera battaglia è la notizia. Chi forma la classe dirigente coreana, come la forma e che cosa vuole davvero per non distruggere? Questo non significa credere che possa distruggere e che abbia davvero la forza e le armi che pretende di avere, come in una fiaba cattiva. Però, per follia o per errore, qualcosa di spaventoso potrebbe accadere. Ma sarebbe ancora più spaventoso se avvenisse mentre non sappiano per opera di chi e perché.
La Stampa 9.9.17
“Pagò badante, elettricista e pasti con i soldi pubblici”. Sara Netanyahu a processo
Accuse di peculato, avrebbe pagato con fondi pubblici anche la badante del padre
di Giordano Stabile
qui
http://www.lastampa.it/2017/09/08/esteri/pag-badante-elettricista-e-pasti-con-i-soldi-pubblici-sara-netanyahu-a-processo-AvqjiIVK7jBCFC0F2L3nGN/pagina.html
Corriere 9.9.17
In cammino con la cultura ebraica
In Italia coinvolti 81 centri. Incontri nelle sinagoghe, cibi kasher, studiosi e scrittori
di Severino Colombo e Carlotta De Leo
«La Diaspora. Identità e dialogo». Attorno a questo tema si sviluppa la XVIII Giornata europea della cultura ebraica che si tiene domani in trentacinque Paesi. In Italia sono coinvolte quindici regioni e ottantuno località, sette in più dello scorso anno a testimoniare una presenza sempre più significativa e ampia sul territorio. Toccate grandi città (Roma, Milano) e piccoli centri. Un filo rosso, quello della diaspora, che vuole essere — nelle parole di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), realtà che coordina e promuove le iniziative nel nostro Paese — «lo spunto per scoprire la storia dell’esilio del popolo ebraico, durato quasi due millenni, a seguito delle due diaspore dalla terra d’Israele occorse nell’antichità». Quella degli Assiri nell’VIII secolo a.C. e la «cattività babilonese» del VI secolo a. C.. A queste due maggiori seguirono ulteriori dispersioni degli ebrei nei periodi successivi della storia a causa di altre vicende.
Dialoghi tra fedi a Milano
Per la Giornata europea, l’invito a scoprire la storia, ma anche i luoghi e le tradizioni degli ebrei si traduce nel capoluogo lombardo in una serie di attività — incontri, conferenze e visite guidate — alla Sinagoga di via Guastalla 19 (dalle 11) con gli interventi di rav Alfonso Arbib, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana e Rabbino capo di Milano, e di Cyril Aslanov, linguista e docente alla Aix-Marseille Université e membro dell’Accademia della Lingua ebraica. Prende, poi, la parola il ministro dell’Interno Marco Minniti. Nel pomeriggio (alle 15) sul tema forte e incisivo della diaspora terrà una lezione il biblista e studioso del pensiero ebraico Haim Baharier, già allievo di due maestri del pensiero contemporaneo quali i filosofi Emmanuel Lévinas e Léon Askenazi. Oltre che un’occasione di apertura e di conoscenza del mondo ebraico, l’iniziativa vuole essere anche un momento per fare sentire la pluralità di voci e di culture che caratterizzano la società in cui viviamo. Così, dopo l’intervento di Baharier, la Sinagoga milanese ospita l’incontro armeno-ebraico-musulmano In cammino per il mondo , con la scrittrice Antonia Arslan in rappresentanza della comunità armena, la docente di Antropologia dell’immigrazione Maryan Ismail per quella musulmana, e la regista Andrée Ruth Shammah per quella ebraica.
La «Cabbalà» a Roma
Scoperta per caso nel 1961 durante gli scavi per l’autostrada, la Sinagoga di Ostia Antica è una delle più antiche testimonianze archeologiche dell’ebraismo della diaspora. La visita al sito risalente al I secolo, che testimonia la vita della comunità sotto l’Impero romano, è uno degli eventi più attesi della Giornata europea della cultura ebraica (ore 12.30). Nella Capitale però il programma della Giornata si intreccia con il decimo Festival internazionale di letteratura e cultura ebraica (www.festivaletteraturaebraica.it), che prende avvio proprio stasera con una festa e l’apertura straordinaria della Grande Sinagoga. È la Notte della Cabbalà , maratona di musica, teatro e incontri letterari che animano la zona intorno al Portico d’Ottavia. Il festival, che andrà avanti fino mercoledì, quest’anno è dedicato alla «Terra» nelle sue diverse accezioni, fisiche e metafisiche. E propone dialoghi come quello di stasera incentrato sulla memoria tra la regista Cristina Comencini e Déborah Levy-Bertherat, la quale dopo una vita da docente all’École normale supérieure ha pubblicato il suo primo romanzo, I viaggi di Daniel Ascher (Einaudi). Il racconto dei segreti di una famiglia ambientato tra le vie di Parigi. Nei Giardini del Tempio, sempre stasera, parlerà di migranti e della doppia coscienza della nostra società Ayelet Gundar-Goshen, giovane talento della letteratura israeliana che con il suo Svegliare i leoni (Giuntina), tradotto in quindici lingue, ha già venduto un milione di copie (l’autrice domani sarà alla Sinagoga di Firenze). Tra gli ospiti più attesi del festival anche la filosofa ungherese Agnes Heller, classe 1929, sopravvissuta all’Olocausto e una delle massime esponenti delle Scuola di Budapest, e la scrittrice Simonetta Agnello Hornby, chiamata a parlare degli ebrei nel Meridione insieme con Pierpaolo Pinhas Punturello. A chiudere la manifestazione mercoledì 13 settembre, il tributo al grande musicista scomparso Herbert Pagani, con la regia di Ketty Di Porto.
L’Inquisizione a Palermo
Un sapore del tutto speciale e dalla marcata valenza simbolica avranno gli eventi in Sicilia, a cinque secoli alla cacciata degli ebrei dal Sud Italia avvenuta durante la dominazione spagnola. A Palermo è particolare il luogo che ospita le attività: Palazzo Steri, in piazza Marina, edificio che per secoli è stato sede dell’Inquisizione in Sicilia, luogo dove molte persone furono accusate e condannate per «crimini contro la fede», che oggi ospita il rettorato dell’Università. A Catania, dove le Biblioteche riunite «Civica e A. Ursino Recupero», ospitano la mostra Sicilia Judaica (fino al 24 settembre), che esplora quasi duemila anni di storia, mentre a Palazzo degli Elefanti un convegno ripercorre (domani, dalle 17.30) la storia della presenza ebraica in Sicilia; tra i relatori Nicolò Bucaria, Nadia Zeldes dell’Università Ebraica di Gerusalemme, e Myriam Silvera.
Venezia, Firenze, Modena
La Giornata europea è un momento di conoscenza che attraversa la cultura ebraica nelle sue molteplici forme con percorsi guidati, attività nei musei, tour nei quartieri ebraici, spettacoli, musica klezmer, degustazioni kasher e letture. Tra gli eventi: a Venezia, in Campo di Gheto novo, un recital di Ottavia Piccolo; una mostra di codici miniati ebraici alla Biblioteca Estense di Modena; a Bologna, al Museo ebraico, la proiezione del film muto Der Golem (192o) di Paul Wegener, sonorizzato dal vivo; a Firenze, la mostra Kadima , che racconta il viaggio verso la terra d’Israele di ottocento sopravvissuti alla Shoah.
La Stampa 9.9.17
Sui monti, nel nome di Dolcino spiriti ribelli e liberi pensatori
Nel Biellese il mito del frate eretico rivive a distanza di 710 anni
di Paola Guabello
E’ un rito che si ripete puntuale da 43 anni ma che affonda le sue radici agli albori del Secolo Breve, quando 10 mila persone, come le cronache dell’epoca raccontano, nel 1907 si radunarono attorno a un cippo alto 12 metri (con 4 metri di base) che si vedeva a distanza perfino nella bassa Biellese. Anche quest’anno, sul monte Rubello, il luogo dove 710 anni fa Fra Dolcino fu catturato e ucciso nel 1307, tornano a salire gli «spiriti ribelli», un gruppo di irriducibili che ogni anno attende i primi giorni di settembre per riaccendere i suoi ideali. Anarchici, vecchi socialisti, operai, studiosi e perfino qualche ormai raro partigiano. E poi curiosi e simpatizzanti che arriveranno da tutto il Nord Ovest, pronti a sfidare nuvole e nebbia, se il tempo li tradisce, o a godere degli ultimi tepori estivi e di una vista spettacolare, per salire al cippo nel cuore della Panoramica Zegna.
Nel punto esatto dello sterminio, e dove a forza di pietre e fatica era stato eretto il primo monumento, oggi c’è il santuario di San Bernardo che gli abitanti del Biellese e della Valsesia vollero edificare «in lode al Signore per la sconfitta del frate ribelle». Ma di fronte, a poca distanza, c’è il luogo in cui una delle figure-simbolo e indimenticate della storia e della cultura piemontese, Gustavo Buratti, fece erigere il nuovo cippo nel 1974.
I ribelli riscoperti
Così Dolcino e Margherita, rivivono sulle Alpi biellesi che incorniciano Trivero, nella selvaggia Valsessera; così le loro ultime ore di spiriti liberi, mentre si trovavano arroccati su quel monte a combattere contro il freddo e la fame, piegati dalle truppe vescovili, non saranno mai più dimenticate.
«Fu alla fine della II Guerra Mondiale che Dolcino venne riscoperto - spiega il presidente del Centro Studi Dolciniani Aldo Fappani -. Già a fine 800, dopo secoli di oblio, la figura del frate eretico venne riabilitata. Erano stati i nobili, i valdesi, gli anarchici e chi mal sopportava i condizionamenti, a far del personaggio un vessillo del libero pensiero. Nel ’900, gli esponenti biellesi di quella corrente acquistarono un piccolo terreno in cui si ritrovarono davvero in tanti e festeggiarono attorno alla torre alta 12 metri. Poi il fascismo mise tutto a tacere: il cippo, nell’agosto del 1927, fu abbattuto a colpi di cannonate. ma finita la guerra gli abitanti di Mosso e chi era emigrato per salvarsi, tornarono sul monte Rubello. Con la biacca, sul rudere scrissero “queste pietre sono sacre”, scavarono e ritrovarono i cimeli della gloriosa giornata. Fu poi Buratti, che decise di ricostruire il cippo e di ripetere il rito. Così dal 1974 ci ritroviamo e saliamo in quota».
Il predicatore apostolico, ostile a Roma e a papa Bonifacio VIII, che aveva assistito al rogo di Margherita e del suo luogotenente Longino da Bergamo prima di passare per le armi, continua dunque a vivere. «Lo citò anche Dante, - prosegue Fappani -. Dolcino era considerato apostolo del “Gesù socialista”, un martire del libero pensiero. Un pacifista che suo malgrado non ha abbassato il capo ma ha imbracciato la spada contro i crociati pur di difendere le sue idee. Per questo resta un simbolo per i tanti che ogni anno affrontano la passeggiata per sentirsi parte della giornata dolciniana».
Corriere 9.9.17
L’«asticella» dei requisiti e gli uomini sempre più soli
C’è un gruppo sempre più ampio di uomini che si sente escluso «a priori» dalle scelte femminili come potenziale compagno. Queste donne, sostengono gli emarginati, preferiscono restare single piuttosto che abbassare l’«asticella», cioè i requisiti minimi in base ai quali misurano i potenziali compagni. All’accusa di essere così selettive, le signore rispondono che non è possibile farsi piacere chiunque. E che esiste anche un’asticella maschile, che magari si manifesta quando l’età sale, e taglia fuori la popolazione femminile dai 45 in su. Esistono davvero questi mercati destinati a non incontrarsi mai? E con quali effetti sulla società?
Già, perché questo problema riguarda essenzialmente le nostre comunità, in cui le donne hanno raggiunto un livello culturale e economico tale da renderle più esigenti. Tanto risulta da studi effettuati negli Usa, dove la questione femminile si è imposta con risultati sorprendenti nell’ultimo decennio. Il numero delle single è aumentato in modo esponenziale, creando la prima generazione che non ha messo al centro della propria realizzazione la famiglia.
In Asia, e in particolare in Cina, India e nei Paesi circostanti, si sta verificando un fenomeno simile. Per altre cause. Lì il controllo severo delle nascite adottato in passato, con la selezione del figlio maschio sta producendo in questi anni effetti devastanti: esiste un numero di maschi superiore a quello delle femmine, che si ritrovano maggiore possibilità di scelta. Molti uomini sono destinati a restare soli. Il fenomeno, raccontano gli studiosi, ha effetti evidenti sull’aumento della violenza, specie di gruppo, e sullo svilupparsi della prostituzione, che sta evolvendo nel virtuale, sostenuta dalle tecnologie.
Non possiamo ora dilungarci sul flusso di giovani uomini che si muovono sulle tragiche rotte dell’immigrazione e che non troveranno nei Paesi di accoglienza una sistemazione familiare. Situazioni profondamente diverse, è chiaro, che descrivono però un mondo dove gli uomini non sono mai stati così soli.
Repubblica 9.9.17
Dal “fascismo che torna” al nuovo libro, parla John Le Carré: “Spie del passato come me, Fleming e Graham Greene avevano degli ideali: ora non c’è più nulla”
“Meglio la guerra fredda di questi nuovi Muri”
di Enrico Franceschini
LONDRA «Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro di un nuovo fascismo », ammonisce John Le Carré. Per comprendere la Gran Bretagna, afferma l’Economist di questa settimana, bisogna leggere i romanzi di spionaggio britannici. Ma il riconosciuto maestro della spy story, lui stesso ex spia, ha una visione che travalica i confini nazionali: forse i suoi libri vanno letti non solo come thriller, bensì come strumenti per interpretare una minacciosa realtà. L’ultimo, “A legacy of spies” (in Italia lo pubblicherà Mondadori a inizio 2018 con il titolo “Un passato da
spia”), appena uscito a Londra, segnala il ritorno di George Smiley, protagonista de La talpa e altri bestseller del grande scrittore inglese. La critica lo ha accolto trionfalmente. Giovedì sera il pubblico ha riempito un teatro sul Tamigi e decine di sale cinematografiche in tutto il paese per sentire parlare il suo autore. E il messaggio non potrebbe essere più politico. «Quando comincio a scrivere ho chiaro in mente cosa vorrei che provasse il lettore arrivato alla fine”, dice l’85enne David Cornwell (il vero nome di Le Carré) al tavolo di un gastro-pub di Hampstead, il quartiere londinese in cui abita quando non è nella sua fattoria affacciata al mare in Cornovaglia, «e in questo caso avevo l’intenzione sovversiva di promuovere l’Europa». Ovvero di attaccare la Brexit. Ma nel suo mirino, in due ore di conversazione, ci sono anche Trump, Putin, Theresa May, l’Occidente.
In una delle ultime pagine, Smiley si domanda: “Per cosa abbiamo combattuto la guerra fredda?” E si risponde: “Per l’Europa”. Cosa vuole dire?
«Che lui, io nel mio piccolo finché ho fatto il suo stesso mestiere e i miei colleghi di allora, avevamo un idealismo di fondo: far cadere i muri attraverso il continente, ricreare un’Europa libera ed unita. Ci tenevo a sottolinearlo, nel momento in cui i muri vengono rialzati».
E in cui si allarga il canale della Manica. È anche un libro contro la Brexit?
«Era impossibile ignorare l’attualità mentre lo scrivevo. La Brexit mi ha fatto provare sgomento e vergogna. Uscire dal più grande mercato economico del pianeta è un errore che rimpiangeremo amaramente».
Perché è successo?
«Per quella che definisco “la maledizione dei vittoriosi”: lo sciovinismo derivato dal convincimento di avere vinto la seconda guerra mondiale. Mentre la verità è che noi britannici siamo soltanto sopravvissuti alla guerra, a vincerla sono stati gli americani e i russi. E poi la Brexit ha altre ragioni. Capisco il voto di protesta da parte dei dimenticati, gli operai o ex-operai della provincia inglese deindustrializzata.
Ma non capisco perché nessuno in Inghilterra ha parlato dei meriti dell’Europa unita al di fuori dei vantaggi economici».
Nel libro Smiley usa l’espressione “Citizen of nowhere”: è una citazione del controverso discorso di Theresa May, che dopo il referendum sulla Ue disse “o sei cittadino in un paese o non sei cittadino di niente”?
«Assolutamente sì. Parole sbagliate e riprovevoli. Ma a esprimerle è una classe di politicanti di serie B. Aspettiamo qualcuno che faccia rinsavire la nostra nazione».
Il laburista Jeremy Corbyn?
«Lo rispetto per i suoi principi, ma Corbyn è un leader delle proteste, non di governo».
Se Smiley vedesse il mondo di oggi, penserebbe che è migliore di quello della guerra fredda?
«Non ne sarebbe sicuro. Non saprebbe cosa pensare. La fine della guerra fredda è stata una grande occasione clamorosamente fallita dall’Occidente e adesso ne stiamo pagando il prezzo. Non c’è stato alcun Piano Marshall per la Russia, che anzi è stata umiliata. E il risultato è una Russia stalinista e autocratica, una cleptocrazia».
E cosa direbbe il suo alter ego letterario dell’America di Trump?
«Che è un paese sceso in guerra contro la verità. Che semina odio. Che minaccia di riscrivere la Costituzione. Il prossimo passo potrebbe essere dare alle fiamme i libri. È lo spettro di un nuovo fascismo, contagioso come un virus: non a caso se ne vedono già gli effetti, in Polonia, in Ungheria, perfino nella Birmania di Aung San Suu Kyi. Nel mondo sta accadendo qualcosa di estremamente preoccupante. A me ricorda l’atmosfera che portò all’ascesa del fascismo in Germania, Italia, Spagna, Giappone ».
Da ex spia e autore di spionaggio, crede che la Russia abbia davvero cercato di interferire sulle presidenziali americane?
«Non ne ho le prove, ma suppongo di sì. E trovo comico che proprio l’America gridi allo scandalo: se c’è un paese che ha interferito per mezzo secolo nelle elezioni degli altri sono gli Stati Uniti. Comunque Trump e Putin si somigliano, hanno lo stesso disprezzo per la democrazia liberale: perciò si piacciono».
La novità è la potenza dello spionaggio cibernetico.
«“Quello che ha rivelato Snowden è solo la punta dell’iceberg. Stiamo andando verso l’impossibilità di avere segreti. Per questo tanto varrebbe integrare lo spionaggio con il corpo diplomatico. Ma dubito che i potenti della terra mi daranno retta. Le spie esisteranno sempre».
L’Economist suggerisce di leggere Ian Fleming, Graham Greene e lei per capire la Gran Bretagna odierna: è d’accordo?
«Abbiamo fatto tutti e tre le spie. E le spie conoscono, o credono di conoscere, l’essenza della realtà».
Le secca che i critici chiudano i romanzi di spionaggio in una categoria minore rispetto alla narrativa letteraria?
«Ho smesso da tempo di leggere i critici. Le recensioni negative ti inducono al suicidio. Le positive ti fanno credere un dio. Un tale a un party mi ha detto: mi scusi, io non leggo i suoi libri perché non leggo i romanzi di spionaggio. Avrei voluto rispondergli: non legge neanche Conrad, perché non legge romanzi di mare?».
Corriere 9.9.17
Libero sul web il Dizionario della Crusca
Il Grande Dizionario della Lingua Italiana Utet — più conosciuto come «il Battaglia» — approderà sul web e potrà essere consultato gratuitamente grazie a un accordo che sarà siglato tra la casa editrice Utet Grandi opere e l’Accademia della Crusca. Sarà la Crusca a farlo diventare elettronico, e se ne servirà per allestire anche il Vocabolario dinamico dell’italiano moderno (VoDIM). L’accordo sarà presentato martedì 12 a Firenze da Armando Torno e firmato da Marco Castelluzzo, presidente e amministratore delegato di Utet, e da Claudio Marazzini, presi-dente della Crusca.
Repubblica 9.9.17
Su La7 parte “Skroll”, la striscia quotidiana del vignettista della banda di Zoro
Il blob di Makkox senza politica “Con la nostra satira si ride troppo poco”
di Silvia Fumarola
ROMA POETICO, quando dedica a Paolo Villaggio una vignetta in cui Fantozzi arriva in Paradiso e chiede a “sua Eccellenza” di avere anche lui una nuvoletta. Che puntuale arriva, ma non soffice sotto i suoi piedi, nera e carica di pioggia, sulla sua testa. Ma sempre caustico con i politici, da Alfano a Renzi. Marco D’Ambrosio, in arte Makkox, chioma a cespuglio il disegnatore della banda di Gazebo («Lo scriva» dice con aria sorniona «che devo tutto a Zoro») da lunedì debutta su La7 alle 19.30 con Skroll. Sarà un Blob con immagini prese del web montate in una striscia quotidiana. «Non è facilissimo, lo so» dice subito «perché c’è tanta roba».
Makkox, cosa sceglierà?
«Le cose divertenti.Oggi viene tutto dalla rete e dai social. Instagram mi piace particolarmente perché è più visuale, più pop, più frivolo. Twitter è un social impegnato, Facebook è molto litigioso, Tumblr. è troppo raffinato. Instagram è il più giusto».
“Blob” segue un filo conduttore, lei come si regolerà?
«Segui Trump mentre sotto sbuca un gatto rosso che gli somiglia tantissimo: sublime. Leghi soluzioni umoristiche o satiriche, contrappunti nel flusso. Fare Skroll non vuol dire prendere cose della rete e e buttarle in tv chiave umoristica».
Non ci sarà la politica?
«No, in nessun modo. Twitter ormai è anche uno strumento politico. Quando voglio respirare e rendermi conto che il mondo è fatto di folli e scemenze, allora faccio scrollare Instagram. Sarà un filmato chiuso, ci diamo un orario se no non riusciamo ad andare in onda se parto dalle notizie del giorno».
Si possono creare link su tutto?
«Quando è morto Gastone Moschin ho reso omaggio ad Amici miei, subito dopo ho montato Bobo Vieri con i suoi amici di calcetto. Si somigliano tutti se li vedi in maniera satirica, con un senso malinconico. Poi le prove le mando al direttore Andrea Salerno».
Che consigli le ha dato?
«Mi ha detto solo: “Divertiti”. Spero che siano idee che divertono me e gli spettatori, vado a cercare cose che non hanno senso».
Un po’ strano visto che lei viene dalla satira politica: che è successo?
«Non ce la faccio più a sentire discorsi politici ridotti a litigi, piccole furberie retoriche. Sembra Il processo del lunedì sempre, dicono cose imbarazzanti. Ti viene da dire: ora basta».
Che pensa della satira di sinistra nei confronti della sinistra?
«È l’unica che puoi fare. Devi conoscere bene la materia, ci deve essere empatia. Più la conosci e più riesci a essere efficace. Fare satira militante è un po’ come fare il chirurgo, che conosce il corpo. Quando rido dei nerd protagonisti della serie Big bang theory, capisco che tra chi scrive qualcuno è come loro».
Per fare satira sulla destra vale lo stesso principio?
«Ho un nonno finanziere, conosco anche la destra. I miei genitori hanno votato Berlusconi e le litigate che abbiamo fatto non si contano. Ci vedevamo solo alle feste, non abitano più in Italia. Non li vedo ma gli voglio bene. La destra, per così dire, mi è familiare».
Il politico che le piace di più disegnare?
«Berlusconi.Per me Silvio è come Topolino, gli faccio fare qualunque cosa. Infatti spesso mi dicono: “Quando lo disegni lo fai diventare simpatico”. Ma che ci posso fare? A me ricorda mio zio, un po’ spavaldo, un po’ intrallazzone. Da quel mix esce il meglio, dipingere l’avversario in maniera odiosa è una roba fascia. Gasparri non l’bo mai disegnato, Alfano si è arrabbiato ma l’ho reso bello armonico... Sarà stato consigliato male, io lo so che in fondo ci vuole bene ».
C’è un limite alla cattiveria?
«Puoi essere impietoso ma crudele è un’altra cosa. Charlie Hebdo è cattivo, ed è solo un registro.Non sbeffeggia i morti, si fa sberleffo della morte. Qui in uno spot cade il meteorite che colpisce la mamma e fa scandalo. Abbiamo paura di ridere, manca l’educazione alla satira».
Dal 27 settembre riparte con Diego Bianchi e iI nuovo “Gazebo”su La7: come s’intitolerà?
«Quello è un segreto».