Corriere 7.9.17
Un colonialismo solidale per l’Africa
di Goffredo Buccini
Il
calo degli sbarchi, in un’estate che si annunciava segnata da flussi
migratori almeno in potenza devastanti è, ovviamente, un’ottima notizia
(vi corrisponde, peraltro, il calo delle morti in mare). Ma si tira
dietro illusioni pericolose, da rimuovere in fretta, nel discorso
pubblico tra noi e i nostri partner europei. La prima, e la maggiore, è
che tutto sia risolto, che l’emergenza sia ormai lontana e al più si
tratterà di gestire l’ordinario. Non è così.
L’attivismo di Marco
Minniti, forse il primo da molto tempo ad affrontare la questione tutta
intera anziché rifugiarsi in fumisterie dilatorie, ha certo fruttato nel
breve periodo. I numeri impressionano: i migranti sono il 51 per cento
in meno rispetto a luglio e addirittura l’85 per cento in meno rispetto
all’agosto 2016. Si può discutere sull’apertura di credito concessa alla
guardia costiera libica, cui è difficile attribuire standard, diciamo,
europei. Si può e si deve discutere sulla natura dei 34 «campi» dove,
tra Tripoli e Sebha, i libici ammassano a migliaia i profughi,
trattandoli né più e né meno come faceva Gheddafi quando era finanziato
dal governo Berlusconi con gran sdegno del Pd allora all’opposizione.
Ma
è innegabile che una svolta (da coniugare opportunamente con
l’annunciato Piano per l’integrazione) ci sia stata. E che non abbia
torto il ministro degli Interni spiegando come un trend di 12 mila
sbarchi in 48 ore (accadeva appena lo scorso giugno) avrebbe potuto
mettere a repentaglio la nostra democrazia già percorsa da gravi
tensioni xenofobe.
Tuttavia, proprio in queste ore, la Spagna vede
quadruplicare gli arrivi dal Marocco (ancora pochi in termini assoluti
ma segno chiaro di tendenza) e si va delineando una nuova rotta diretta
via Mar Nero tra Turchia e Romania. Chiusa una via, continuano a
riaprirsene altre in un gioco feroce di cui i trafficanti, decisi a
difendere il volume d’affari, sono i maggiori player e i migranti le
eterne vittime. La battaglia sulle Ong era dunque un cerotto sopra una
diga crepata. Dall’altro lato della diga c’è un’intera umanità dolente
che non potrà essere fermata a lungo in mezzo al mare o nel deserto,
qualsiasi strategia si adotti: perché fugge da morte sicura verso una
morte soltanto probabile.
Testimoni oculari raccontano che Al
Sisi, durante la famosa visita italiana al Cairo del 3 febbraio 2016
(giorno in cui fu ritrovato il corpo di Giulio Regeni), si permise con
la delegazione dell’allora ministra Guidi toni sprezzanti al di là di
qualsiasi galateo, rammentandoci la possibilità di scaricare sulle
nostre coste uno tsunami di centinaia di migliaia di disperati solo
allentando un po’ la guardia. Desertificazione e siccità sono del resto
più forti di qualsiasi milizia. La carestia, solo in Sud Sudan, Corno
d’Africa e nel bacino del lago Ciad, ha spinto alla fame trenta milioni
di persone; e solo in Somalia, nel 2011, ha causato 260 mila morti, in
maggioranza bambini.
In un mondo globalizzato pensare di mettere
sotto vetro questo magma è ben peggio di un’illusione sovranista: è
demenza politica. Ma la vera risposta sta in Africa, non nel
Mediterraneo. Tutti lo sanno, ma è difficile e rischioso dirlo
chiaramente. Comincia a dirlo Macron. Lo ha detto al nostro Federico
Fubini il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. La
soluzione è internazionale e può richiedere anche un impegno militare:
quando pensiamo a campi Onu in Libia, è difficile prescindere da una
forza di deterrenza che li protegga. Sono l’Europa e più ancora le
Nazioni Unite a dover rispondere presto (davvero presto) alla grande
questione umanitaria aperta dalla detenzione dei migranti: addebitarla a
Minniti, come fanno la sinistra radicale ed esponenti anche illustri
del mondo del volontariato, sembra davvero un errore di bersaglio.
A
lungo termine, tuttavia, anche i campi Onu andranno superati. L’ultima
illusione sarebbe recintarvi un continente in fuga. Toccherà all’Europa,
quando e se avrà un orizzonte geopolitico e un esercito comuni,
riportare in Africa maestri e ingegneri, medici e soldati. Collaborando
con quei pochi Paesi africani dove un’entità statuale esiste davvero e
smettendo di buttare soldi nelle tasche di qualche tirannello (l’ultimo
della serie, Issoufou in Niger) perché ci faccia da buttafuori vessando
la propria gente. Il percorso sconfina nell’utopia. Ma la storia sa
sorprenderci, talvolta: era utopia, cent’anni fa, anche l’idea che
Germania e Francia smettessero ciclicamente di spararsi addosso. Serve
visione, un nation rebuilding che insegni il futuro a milioni di giovani
africani. Dopo il colonialismo, una decolonizzazione vile e piena di
sensi di colpa e il feroce neocolonialismo economico delle
multinazionali, forse il XXI secolo dovrebbe inventarsi il «colonialismo
solidale». Non per bontà, ci mancherebbe. Ma perché aiutando loro,
aiuteremmo parecchio noi stessi.