Corriere 7.9.17
Farsi male (ancora) a sinistra
di Paolo Mieli
Un
risultato, comunque, in Sicilia la sinistra radicale l’ha ottenuto:
Cinque stelle, centrodestra, Pd hanno scelto il loro candidato; gli
ultrasinistri sono lì che si dedicano alle consuete dispute cifrate
attorno alla presentazione — peraltro ancora non del tutto certa — di
Claudio Fava. Il quale Fava, essendo accreditato di percentuali assai
modeste, in ogni caso non correrebbe certo per la presidenza della
Regione. E — a quanto è dato di sapere — non godrebbe nemmeno del
consenso di tutte le forze collocate a sinistra del Pd. Il suo unico
apporto alla competizione (forse neanche necessario) sarebbe quello di
garantire la sconfitta del candidato del Pd e di Leoluca Orlando, il
rettore palermitano Fabrizio Micari. Ha un senso tutto ciò? Sì.
Purtroppo, sì. Ed è probabile che qualcosa del genere si riproporrà
anche al momento delle prossime elezioni politiche. Da circa un anno,
dal momento cioè in cui i sondaggi unanimi hanno annunciato unanimi
quale sarebbe stato l’esito del referendum del 4 dicembre, nel Paese è
ripreso a soffiare il vento del proporzionale che impone alla politica
tre regole assai diverse da quelle che hanno dettato legge nell’ultimo
venticinquennio. Prima regola: le elezioni sono pressoché ininfluenti
rispetto alla determinazione di maggioranze di governo. Seconda regola:
esse stabiliscono esclusivamente la consistenza di partiti e movimenti.
Terza regola (conseguenza della precedente): in una competizione
elettorale la cosa che più conta è recar nocumento ai partiti collocati
ai propri confini.
A meno dell’eventualità che con tali partiti
confinanti ci si possa successivamente alleare per dar vita al futuro
esecutivo (come era nella Prima repubblica tra la Dc e i partiti laici
minori). I Cinque Stelle non hanno di questi problemi perché di queste
alleanze non vogliono neanche sentir parlare. Silvio Berlusconi ha fin
qui giocato la sua partita in modo davvero eccellente dal momento che
pur soffrendo di evidente (e ricambiata) avversione nei confronti di
Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ha saputo accantonare gran parte dei
motivi di contrasto. Nel centrosinistra invece le cose sono tuttora
assai complicate, soprattutto a sinistra del Pd. Qui, per il futuro,
convivono (si fa per dire) due opzioni: la prima è quella che fa capo a
Giuliano Pisapia e che consiste nel dar vita ad un raggruppamento molto,
molto, molto diverso dal Pd, che ottenga il maggior numero di voti per
poi avere un adeguato peso in una coalizione di governo, la quale non
può che avere come principale interlocutore lo stesso Pd; la seconda,
che ha come riferimento Bersani e D’Alema, è quella che mira ad arrecare
al Pd il maggior danno possibile nella speranza di scalzarne il leader
per poi eventualmente riprendere il dialogo con i suoi successori. Chi
fa sua questa seconda opzione non contempla una realistica prospettiva
di governo (se non, forse, come supporto ad una maggioranza grillina):
gli aderenti a Mdp e consimili si accingono a prender parte alle
elezioni per riportare in Parlamento alcune personalità che non
avrebbero (o già non hanno) trovato collocazione nelle liste renziane,
personalità che, una volta entrate in una delle due Camere, darebbero
quotidiana, vivace testimonianza della propria identità. Lo ha ben
spiegato con la consueta franchezza (in un’intervista a Il fatto
quotidiano ) Tomaso Montanari — leader della formazione più
intransigente di tutte — rinfacciando a Pisapia di non aver occultato la
sua volontà di costruire una coalizione «vincente»: come se il suo
fine, insinuava lo storico dell’arte, fosse «il potere, il governo» da
raggiungere «con qualsiasi mezzo» (cosa che ad ogni evidenza Pisapia non
ha mai neanche adombrato). «Io non dico che bisogna voler perdere»,
aggiungeva Montanari, «ma la vittoria non può essere un fine in sé,
conta quello che vuoi fare».
Ma è vero questo? In politica
contano, sì, le intenzioni, «quello che vuoi fare», ma non è ininfluente
la capacità di costruire qualcosa che ti metta in condizioni di farle,
quelle cose. Anche soltanto in parte. E dovrebbe essere considerato
disdicevole che, per eccesso di «purezza», tu contribuisca alla vittoria
di forze che quelle cose non le faranno mai. Nessuna. Anzi, ne faranno
di contrarie. Con il rischio di arrivare ad un punto che, dopo le ultime
elezioni presidenziali statunitensi, un celebre giurista di Yale,
Stephen L. Carter, commentando la defezione di alcuni seguaci
oltranzisti di Bernie Sanders dal voto per Hillary Clinton, ha descritto
in questi termini. Abbiamo di fronte anni nel deserto, ha detto,
«l’esilio dei democratici rischia di essere lungo». Troppi anche tra i
miei amici sono diventati «esperti di condanna, derisione e scherno».
Erano molto bravi a spiegare il motivo per cui «nessuno potrebbe mai
avversare le loro posizioni politiche se non per i più vili dei motivi».
La sinistra, ha sostenuto il giurista, enunciava le proprie posizioni
con zelante solennità quasi suggerendo «che i propri punti di vista
siano la Sacra Scrittura» e chi dissente debba essere «confinato nelle
tenebre». La sinistra americana a lui è parsa «piena di arroganza» e «la
hybris nella letteratura classica preannuncia sempre una caduta». I
liberal di oggi, concludeva Carter, dovrebbero riscoprire le virtù del
liberalismo vincente dagli anni Cinquanta agli anni Settanta che
includevano tolleranza per il dissenso, uno sforzo per evitare di
«ridurre problemi seri a ricerche dell’applauso facile» e
fondamentalmente un atteggiamento di umiltà nel governare. Voleva forse
dire che i liberal di un tempo non credevano nel profondo di avere
ragione? No, voleva ricordare come quei liberal accettassero «che la
loro nazione fosse un luogo diverso, che gli avversari avessero il
diritto di dire la loro, che il governo non dovesse cercare di fare
tutto in una volta e che la politica dovesse essere frutto di un lavoro
condiviso». Il che, almeno in parte, è vero.
Inutile star qui a
precisare quante e quali siano le differenze tra la sinistra italiana e
quella americana costretta un anno fa ad assistere esterrefatta alla
vittoria di Donald Trump (del che ancora non si è riavuta). Qualcosa
però ci dice che il pur importante tema della collaborazione con
Angelino Alfano — accettabile a Palermo ma non nel resto della Sicilia
e, per carità, mai un domani in tutta Italia — non valga lo spettacolo
di incertezza e litigiosità offerto dai nemici dell’ex primo cittadino
di Milano. Il quale, ormai è chiaro, non è un attore adatto alla
commedia politica così come va in scena di questi tempi. Ha un passato
di garantista che lo rende antipatico a molti suoi futuri compagni
d’avventura, è tormentato dai dubbi delle persone intelligenti, dalle
incertezze e dai ripensamenti di chi non è mai stato un politico di
professione. Qualsiasi amico sincero lo avrebbe sconsigliato in partenza
di avventurarsi nel campo minato dove si è andato a ficcare. Ma adesso,
in vista delle elezioni politiche, quel che resta fuori dal Pd deve
scegliere: o si unisce attorno all’ex sindaco accettando che possa
metter becco in materia di alleanze e candidature (ed è quest’ultima la
vera materia del contendere) o non troverà più qualcuno capace di
prenderne, credibilmente, il posto. Con il che dovrebbe poi procedere in
ordine sparso. E, diciamocelo, non sarebbe una pagina degna di passare
ai libri di storia quella che racconta come degli ex big della Dc e del
Pci, ex ministri, ex presidenti del Consiglio (o aspiranti tali), non
essendo riusciti ad eliminare Matteo