Corriere 7.9.17
Francesco celebra la pace in Colombia Il volo cambia rotta per la tempesta
L’arrivo del Papa a Bogotá. Domani l’incontro alla croce che ricorda tutte le vittime
di Gian Guido Vecchi
BOGOTÁ (Colombia) «Demos el primer paso», facciamo il primo passo. L’immagine di profilo del Papa in cammino si mostra già nei manifesti lungo il percorso che dall’aeroporto lo conduce alla nunziatura di Bogotá. Quindici chilometri, centinaia di migliaia di fedeli lungo le strade e lo slogan del viaggio cui qualcuno ha aggiunto la conclusione implicita, «hacia la reconciliación», verso la riconciliazione. Francesco è arrivato ieri quando in Italia era già notte, nel pomeriggio colombiano, accolto dal presidente Juan Manuel Santos. A causa dell’uragano Irma, prima della partenza si è deciso di cambiare rotta e l’aereo del Papa, anziché Porto Rico, ha sorvolato più a sud le Barbados e Trinidad e Tobago. «Questo è un viaggio un po’ speciale, per aiutare la Colombia ad andare avanti nel suo cammino di pace», spiegava in volo ai giornalisti. «Vi chiedo una preghiera per questo. E anche per il Venezuela, che sorvoleremo, perché si possa fare il dialogo e il Paese trovi una bella stabilità, nel dialogo con tutti».
Bergoglio aveva promesso che sarebbe andato in Colombia quando la pace fosse stata «blindata». L’accordo firmato l’anno scorso tra il governo e le Farc, le forze armate rivoluzionarie, ha posto fine a 54 anni di una guerra che si stima abbia causato 260 mila morti, più di 60 mila dispersi e sette milioni di sfollati e rifugiati. Ma la pace è fragile, le ferite ancora aperte. Da oggi e fino a domenica il Papa si sposterà da Bogotá a Villavicencio, Medellín e Cartagena per sostenere una «reconciliación» assai difficile, come ha dimostrato il referendum popolare che bocciò il primo testo dell’accordo. Famiglie decimate, beni trafugati, violenze, torture. «La pace è quella che la Colombia cerca e per il cui conseguimento lavora da molto tempo», ha detto Francesco in un videomessaggio ai colombiani registrato alla vigilia della partenza. «Una pace stabile, duratura, perché possiamo vederci e trattarci come fratelli, non come nemici». Il Vaticano ha seguito da vicino, con discrezione, i tre anni di trattativa a Cuba. Alla firma dell’accordo di pace, l’anno scorso, era presente il Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin: «La missione fondamentale della Chiesa, in questo momento, è quella di favorire la riconciliazione», ha spiegato il cardinale. Oggi (giovedì) pomeriggio, a tarda sera in Italia, alla messa nel parco Simón Bolivár sono attesi almeno settecentomila fedeli. Prima, gli incontri con il presidente, le autorità, i vescovi. A Villavicencio, venerdì, l’appuntamento più atteso: il «grande incontro per la riconciliazione nazionale», davanti ad una Croce che ricorda il numero di vittime di sequestri, assassini e mine antiuomo, con la partecipazione di vittime ed ex guerriglieri. Sabato, a Medellín, l’incontro con seminaristi e religiosi, la visita ad una casa famiglia dove sono ricoverati diversi bambini con malattie gravi; ed infine, domenica, la messa a Cartagena e la visita alla casa di san Pietro Claver, il gesuita spagnolo del Seicento che difese i diritti degli schiavi: una giornata dedicata ai diritti umani. Nel telegramma inviato al presidente del Venezuela Nicolás Maduro, com’è consuetudine per i Paesi sorvolati dal volo papale, Francesco prega perché, «tutti, nella nazione, possano promuovere percorsi di solidarietà, giustizia e concordia». Le parole che dirà in Colombia saranno anche il segno di una preoccupazione più ampia per il pianeta diviso dalla «terza guerra mondiale a pezzi». La settimana scorsa, in un’udienza ai leader religiosi coreani, il Papa ha invitato ad «incarnare uno stile nonviolento, di pace, con parole che si differenzino dalla narrativa della paura e gesti che si oppongano alla retorica dell’odio».
Corriere 7.9.17
Morto il cardinale Caffarra, tra i critici di Francesco
Alla guida della diocesi di Bologna fino al 2015, non condivideva le aperture ai divorziati risposati
di Luigi Accattoli
CITTÀ DEL VATICANO È morto ieri il cardinale Carlo Caffarra: 79 anni, parmense di nascita, arcivescovo di Bologna dal 2004 al 2015. Era uno dei quattro cardinali che avevano criticato il documento di papa Bergoglio «Amoris laetitia», ritenendolo in contrasto con la dottrina cattolica sul matrimonio. Soffriva da anni di gravi malanni intestinali che si erano aggravati nei giorni scorsi.
Tra i quattro cardinali critici del Papa, Caffarra aveva un ruolo di portavoce che aveva svolto con interviste e scrivendo a nome degli altri una lettera al Papa, lo scorso 25 aprile, con la quale chiedeva un incontro. Ma come Francesco non aveva risposto alla lettera collettiva inviata dai quattro un anno addietro, così pare che non abbia risposto neanche al rilancio caffarriano.
Ora i quattro cardinali dei «dubia» (così avevano definito, in latino, le cinque obiezioni che avevano mosso al Papa) sono ridotti a due: il tedesco Brandmüller e lo statunitense Burke, essendo già morto in luglio il tedesco Meisner.
Per chi frequentava Caffarra, persona timida e lontana da atteggiamenti di battaglia, il ruolo di capofila dei critici del Papa da lui assunto negli ultimi tre anni è stato una sorpresa. Si ribellava vivacemente a chi segnalava quel ruolo: «Sono nato papista, sono vissuto da papista e voglio morire da papista», disse in un’intervista.
Molti erano i segni del suo progressivo avvicinamento al mondo tradizionalista, a partire dal linguaggio dei rari interventi pubblici, mirato ultimamente a denunciare la «gravità» del tempo attuale. Il 16 settembre avrebbe dovuto pre-siedere una celebrazione nella Basilica Vaticana per il decennale della liberalizzazione della messa in latino e secondo il vecchio rito.
Nella reazione critica alle aperture di Francesco ai divorziati risposati era guidato dall’ammirazione per le posizioni tenute in quella materia da Papa Wojtyla, che aveva anche contribuito a definire e divulgare. Giovanni Paolo II nel 1980 l’aveva chiamato a fondare e presiedere il «Pontificio Istituto per gli studi su matrimonio e famiglia». Incarico che aveva lasciato nel 1995, andando arcivescovo a Ferrara.
Repubblica 7.9.17
Un mondo di tabù
Esce la raccolta degli articoli con cui Massimo Recalcati ha affrontato su “Repubblica” il senso del limite Tra mitologia e contemporaneità
di Valeria Parrella
Partiamo da noi. L’unico modo per leggere pienamente il libro di Recalcati – o per lo meno il più fruttuoso – è quello di disporsi con animo libero davanti ai brevi capitoli. Ognuno tre pagine, ognuno racconta e celebra – o demistifica – uno dei tabù del mondo. Uno cioè di quegli argomenti, di quelle pulsioni limite per cui – a guardarli davvero – si penzola un poco di qua e un poco di là. È quasi la cifra costituente del tabù, questa: quella di essere l’interfaccia tra il lecito e l’illecito, il possibile e l’impossibile, il desiderato e il ripugnante. Quindi, ci hanno detto i greci, è il segno della hybris: quell’ambito di passaggio
in cui si decide fino a dove si può spingere l’umano e – che è più importante – che tipo di esseri umani siamo o vogliamo essere. Massimo Recalcati è psicoanalista lacaniano e la psicoanalisi – e la psicologia – sono sempre la disciplina del quasi: se ammettessero certezze, fallirebbero immantinente, perché l’unica soluzione è tollerare la mancanza di certezze. All’origine dei tabù che Recalcati ha collezionato settimana per settimana sulle pagine di questo quotidiano (ora raccolti nel saggio pubblicato da Einaudi) c’è spesso il terrore che provoca la mancanza del “certo”. L’avaro non può perdere la cassetta di verghiana memoria, così come il feticista che, terrorizzato dalla possibilità di avere a che fare con un soggetto libero (per esempio di andarsene…), preferisce al suo posto un oggetto. Una parte di quell’Altro, una scarpa, un piede.
Ma i tabù più sorprendenti del racconto di Recalcati sono quelli così tanto contemporanei, e nuovi, e vivi, che non li avremmo certo individuati come tabù. O meglio: nuovi sono i modi di crearne e dunque di infrangerli, infatti il presupposto da cui origina il libro è che l’epoca contemporanea, quella che l’illuminismo liberò dal giogo della superstizione, crolla miseramente in un nuovo giogo, quello della “libertà a ogni costo”, ignorando che se rifiuti ogni limite ti rovesci nel suo contrario. Il tabù della morte, per esempio, che Sofocle fece valicare ad Antigone, qui è valicato dall’anoressica che proprio come Antigone mostra che la vita è fatta d’altro che dell’esistenza, la vita umana è fatta come la capinera di Verga e come il passo di Matteo “non di solo pane vive l’uomo”. Come reclama Simone Weil cercando la possibilità dell’esistenza nella “grazia dell’attenzione”.
Ancora, nessuno può fare a meno dell’Altro ma è quello che tenta di fare Caino, salvo poi scoprire che l’Altro è se stesso, in un inevitabile gioco di doppio che rimanda a Dorian Gray e al signor Hyde (in inglese: nascosto), versione notturna del povero Jekyll (Hegel per primo teorizzò l’opposizione irriducibile tra la legge diurna e universale – quella della città – e quella notturna – del sé e del legame famigliare). E da lì a Narciso il passo è breve, lo specchio da cui Lacan trae il mito della nascita del sé sta là. Narciso in questo senso è “il” tabù ipermoderno, che trasforma l’Io in un idolo pagano. Con la sua forma più nociva che è quella passiva, cioè non dell’altèro che dice “io so- no e valgo più di te”, ma del frustrato, invidioso, nascosto, che odia le vite capaci di realizzarsi in nome dell’umiltà. Pare di scorrere una pagina di Twitter, no?
Il rifiuto dell’Io non più molteplice e teneramente confuso, che ognuno di noi può scorgere in sé, ma piuttosto di un Io di piombo, è quello che Recalcati attribuisce al terrorista, che siccome agisce nella convinzione della verità assoluta non ha nessun senso di colpa. E se il discorso torna alla verità e alla colpa, torna al limite: è quello che ci racconta il più famoso dei miti utilizzati da Freud, Edipo, colui che non accetta di non sapere, che dovrà accecarsi quando avrà visto perché pretende di vedere fino in fondo. “quanta verità può sopportare un uomo?” si chiede Edipo. E secoli dopo Dylan Thomas invocherà: ”oh, make me a mask”.
Di tutto il discorso, però, quello che davvero funziona è quando si salta su dalla sedia perché si è scorto qualcosa che ci appartiene: qualcosa dentro di noi ha risuonato. Quando viene voglia di brandire il libro e farlo leggere al marito, alla sorella, mandarne stralci a un’amica per dire “tu sei così, vedi?” (Edipo quando indaga sulla pestilenza a Tebe esclude se stesso dall’indagine…). In qualche modo il Recalcati saggista non ha saputo rinunziare al Recalcati terapeuta, e ha scelto un espediente narrativo che ci avviluppa in un lungo consolante abbraccio: qualcosa di ciascun tabù siamo, o sappiamo, o abbiamo rischiato di essere, o finalmente ci guarda.
Partiamo da noi: è la frase scelta in esergo che ce lo chiede, in cui Pier Paolo Pasolini ci arringa con la più bella delle persone in cui l’italiano possa esprimersi, quella che rischia maggiormente di perdersi nei tabù: la prima plurale. A lui, che di tutto questo aveva scorto i rischi, a lui è dedicato il libro, alla sua parte corsara.
il manifesto 7.9.17
Non possiamo essere pedine di questo gioco al massacro
Commenti. Se l’emigrazione è così massiccia vuol dire che le minacce alla vita sono insostenibili in gran parte del pianeta. Significa che la politica deve cambiare. Anche a sinistra
di Tomaso Montanari
L’articolo 10 della Costituzione prescrive che gli stranieri che non possono esercitare le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» hanno diritto ad essere accolti nel nostro Paese, in quanto «persone» titolari, ai sensi del nostro articolo 2 della Costituzione, di diritti inviolabili a prescindere dalla loro nazionalità o Paese di provenienza.
Non è una vaga, utopica aspirazione, ma il cuore del progetto della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (non solo dei cittadini italiani, nda), sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
È per questo che in Italia esiste un «diritto costituzionalmente garantito» all’asilo: non si può decidere se applicare o meno questa norma, dobbiamo chiederne noi l’attuazione, insieme a quella di tutti i principi che qualificano la nostra democrazia, e che ad oggi restano in gran parte inattuati.
Eppure, in queste drammatiche settimane estive, lo Stato italiano – attraverso il suo governo, e segnatamente il suo ministro dell’Interno – non solo non ha attuato questo principio fondamentale ma ha decisivamente scoraggiato le organizzazioni non governative che soccorrevano in mare i migranti, e ha preso accordi con le autorità di Paesi in cui non sono garantite le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», affinché i loro cittadini e i migranti che ne attraversino i territori non possano fuggirne: cioè non possano aspirare, come noi tutti, a una vita libera e dignitosa.
Siamo di fronte a un grave tradimento della nostra Carta fondamentale e dei Trattati e documenti internazionali che riconoscono e tutelano i diritti delle persone e dei richiedenti asilo. Crediamo che di fronte alle masse che lasciano la propria casa in cerca di diritti, di vita e di futuro la risposta dell’Occidente non possa essere la chiusura e il tradimento dei principi su cui si fondano le nostre democrazie.
Il fenomeno migratorio non si fermerà di fronte al nostro egoismo. Anzi, rischierà di degenerare in uno scontro di civiltà, già abilmente fomentato da chi coltiva la guerra come forma di lucro e dominio sui popoli, a prezzo del sangue dei più deboli e innocenti.
Non possiamo, non dobbiamo, essere pedine di questo gioco al massacro. Abbiamo un orizzonte diverso, che guarda al mondo come casa di tutti e alla globalizzazione dei diritti, come fine dell’azione politica internazionale di chi crede davvero nella democrazia e nell’universalità dei diritti fondamentali.
Tutti i Paesi più ricchi, a partire dall’Italia, devono garantire non solo l’accoglienza promessa delle Carte, ma impegnarsi in una strategia condivisa a livello sovranazionale che crei e garantisca ovunque le condizioni di eguaglianza e giustizia sociale la cui assenza è la vera e prima causa della grande migrazione in atto.
E anche sulla natura e le dimensioni di questo fenomeno la Sinistra ha, innanzi tutto, il dovere di dire la verità: le migrazioni sono processi fisiologici e costanti in un mondo globalizzato, diventano massicce quando le minacce alla vita delle persone diventano intollerabili, quando una parte del mondo vive in condizioni disumane, o non vive affatto, e una piccola parte di privilegiati vive con le risorse di tutti.
Ecco: questo egoismo rischia di trasformarsi in un detonatore. Dobbiamo disinnescarlo. Anche perché sui migranti si sta costruendo l’ennesima menzogna mediatica, che devia l’attenzione dalle emergenze reali della politica, dalle cause reali dei nostri problemi. Insomma: prima si è provato a dire che era colpa della Costituzione. Sappiamo come è finita, il 4 dicembre scorso. Ma ora i mali del Paese, le nostre vite precarie, il taglio orizzontale di diritti e futuro: tutto è colpa dei migranti! Fumo negli occhi di una politica che non sa cambiare e non vuole rimettere al centro le persone, ma spera di «neutralizzarle» mettendo poveri contro poveri, disperati contro disperati. Non ci siamo cascati il 4 dicembre, non ci cascheremo adesso.
Anche perché la piccola parte di migranti che sbarca sulle nostre coste rappresenta solo l’1% del flusso migratorio globale. Fra questi, solo una piccola parte aspira a fermarsi in Italia: non sono un’invasione, né un’ondata oceanica. Non rappresentano affatto una minaccia, semmai una grande opportunità: umana, culturale e anche economica.
Il nostro Paese, in drammatica crisi demografica, ha bisogno di nuovi italiani. Le nostre antiche città aspettano nuovi cittadini. E la perfino timida legge sullo ius soli in discussione in Parlamento è davvero il minimo che si possa fare per costruire questa nuova Italia.
Ecco: stiamo lavorando a un progetto condiviso che permetta a questo Paese di risollevarsi e ripartire, in cui ci sia lavoro vero per tutti, non elemosine e precarietà per pochi. Chi non si ponga in questa prospettiva, chi non ambisca a creare le condizioni per un «Nuovo Inizio» democratico, sociale ed economico, non ha capito qual è il compito fondamentale della politica che vogliono gli italiani.
Ancora una volta: è di questi nodi cruciali che dobbiamo e vogliamo discutere, non della sterile alchimia di sigle e leader.
Continuiamo a credere nella formula che abbiamo proposto al Brancaccio il 18 giugno scorso: ci vuole una sola lista a sinistra del Partito Democratico – un partito la cui involuzione a destra è apparsa, proprio sui temi dell’immigrazione, palese.
Crediamo che anche la situazione della Sicilia confermi questa lettura: mentre il Pd guarda a destra, la sinistra cerca l’unità e la forza per proporre alternative radicali allo stato delle cose.
Si apre un autunno cruciale: proseguono le assemblee regionali, si moltiplicano quelle in città di ogni dimensioni, si preparano quelle tematiche fissate per il fine settimana a cavallo tra settembre e ottobre. Il loro formato è quello che abbiamo sperimentato da giugno in poi: aperto a tutti (associazioni, partiti, singoli cittadini) e senza dirigenze, egemonie o portavoce autonominati.
Decideremo poi insieme, e democraticamente, in una grande assemblea nazionale che sarà indetta alla fine del lavoro sul programma, il tipo di organizzazione che vorremo darci.
Tutto questo è importante: ma è solo un mezzo, uno strumento per metterci in grado di dare il nostro contributo all’attuazione della Costituzione. Il primo traguardo da cui ripartire per costruire un nuovo orizzonte di democrazia partecipata e di cittadini liberi.
Corriere 7.9.17
Farsi male (ancora) a sinistra
di Paolo Mieli
Un risultato, comunque, in Sicilia la sinistra radicale l’ha ottenuto: Cinque stelle, centrodestra, Pd hanno scelto il loro candidato; gli ultrasinistri sono lì che si dedicano alle consuete dispute cifrate attorno alla presentazione — peraltro ancora non del tutto certa — di Claudio Fava. Il quale Fava, essendo accreditato di percentuali assai modeste, in ogni caso non correrebbe certo per la presidenza della Regione. E — a quanto è dato di sapere — non godrebbe nemmeno del consenso di tutte le forze collocate a sinistra del Pd. Il suo unico apporto alla competizione (forse neanche necessario) sarebbe quello di garantire la sconfitta del candidato del Pd e di Leoluca Orlando, il rettore palermitano Fabrizio Micari. Ha un senso tutto ciò? Sì. Purtroppo, sì. Ed è probabile che qualcosa del genere si riproporrà anche al momento delle prossime elezioni politiche. Da circa un anno, dal momento cioè in cui i sondaggi unanimi hanno annunciato unanimi quale sarebbe stato l’esito del referendum del 4 dicembre, nel Paese è ripreso a soffiare il vento del proporzionale che impone alla politica tre regole assai diverse da quelle che hanno dettato legge nell’ultimo venticinquennio. Prima regola: le elezioni sono pressoché ininfluenti rispetto alla determinazione di maggioranze di governo. Seconda regola: esse stabiliscono esclusivamente la consistenza di partiti e movimenti. Terza regola (conseguenza della precedente): in una competizione elettorale la cosa che più conta è recar nocumento ai partiti collocati ai propri confini.
A meno dell’eventualità che con tali partiti confinanti ci si possa successivamente alleare per dar vita al futuro esecutivo (come era nella Prima repubblica tra la Dc e i partiti laici minori). I Cinque Stelle non hanno di questi problemi perché di queste alleanze non vogliono neanche sentir parlare. Silvio Berlusconi ha fin qui giocato la sua partita in modo davvero eccellente dal momento che pur soffrendo di evidente (e ricambiata) avversione nei confronti di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ha saputo accantonare gran parte dei motivi di contrasto. Nel centrosinistra invece le cose sono tuttora assai complicate, soprattutto a sinistra del Pd. Qui, per il futuro, convivono (si fa per dire) due opzioni: la prima è quella che fa capo a Giuliano Pisapia e che consiste nel dar vita ad un raggruppamento molto, molto, molto diverso dal Pd, che ottenga il maggior numero di voti per poi avere un adeguato peso in una coalizione di governo, la quale non può che avere come principale interlocutore lo stesso Pd; la seconda, che ha come riferimento Bersani e D’Alema, è quella che mira ad arrecare al Pd il maggior danno possibile nella speranza di scalzarne il leader per poi eventualmente riprendere il dialogo con i suoi successori. Chi fa sua questa seconda opzione non contempla una realistica prospettiva di governo (se non, forse, come supporto ad una maggioranza grillina): gli aderenti a Mdp e consimili si accingono a prender parte alle elezioni per riportare in Parlamento alcune personalità che non avrebbero (o già non hanno) trovato collocazione nelle liste renziane, personalità che, una volta entrate in una delle due Camere, darebbero quotidiana, vivace testimonianza della propria identità. Lo ha ben spiegato con la consueta franchezza (in un’intervista a Il fatto quotidiano ) Tomaso Montanari — leader della formazione più intransigente di tutte — rinfacciando a Pisapia di non aver occultato la sua volontà di costruire una coalizione «vincente»: come se il suo fine, insinuava lo storico dell’arte, fosse «il potere, il governo» da raggiungere «con qualsiasi mezzo» (cosa che ad ogni evidenza Pisapia non ha mai neanche adombrato). «Io non dico che bisogna voler perdere», aggiungeva Montanari, «ma la vittoria non può essere un fine in sé, conta quello che vuoi fare».
Ma è vero questo? In politica contano, sì, le intenzioni, «quello che vuoi fare», ma non è ininfluente la capacità di costruire qualcosa che ti metta in condizioni di farle, quelle cose. Anche soltanto in parte. E dovrebbe essere considerato disdicevole che, per eccesso di «purezza», tu contribuisca alla vittoria di forze che quelle cose non le faranno mai. Nessuna. Anzi, ne faranno di contrarie. Con il rischio di arrivare ad un punto che, dopo le ultime elezioni presidenziali statunitensi, un celebre giurista di Yale, Stephen L. Carter, commentando la defezione di alcuni seguaci oltranzisti di Bernie Sanders dal voto per Hillary Clinton, ha descritto in questi termini. Abbiamo di fronte anni nel deserto, ha detto, «l’esilio dei democratici rischia di essere lungo». Troppi anche tra i miei amici sono diventati «esperti di condanna, derisione e scherno». Erano molto bravi a spiegare il motivo per cui «nessuno potrebbe mai avversare le loro posizioni politiche se non per i più vili dei motivi». La sinistra, ha sostenuto il giurista, enunciava le proprie posizioni con zelante solennità quasi suggerendo «che i propri punti di vista siano la Sacra Scrittura» e chi dissente debba essere «confinato nelle tenebre». La sinistra americana a lui è parsa «piena di arroganza» e «la hybris nella letteratura classica preannuncia sempre una caduta». I liberal di oggi, concludeva Carter, dovrebbero riscoprire le virtù del liberalismo vincente dagli anni Cinquanta agli anni Settanta che includevano tolleranza per il dissenso, uno sforzo per evitare di «ridurre problemi seri a ricerche dell’applauso facile» e fondamentalmente un atteggiamento di umiltà nel governare. Voleva forse dire che i liberal di un tempo non credevano nel profondo di avere ragione? No, voleva ricordare come quei liberal accettassero «che la loro nazione fosse un luogo diverso, che gli avversari avessero il diritto di dire la loro, che il governo non dovesse cercare di fare tutto in una volta e che la politica dovesse essere frutto di un lavoro condiviso». Il che, almeno in parte, è vero.
Inutile star qui a precisare quante e quali siano le differenze tra la sinistra italiana e quella americana costretta un anno fa ad assistere esterrefatta alla vittoria di Donald Trump (del che ancora non si è riavuta). Qualcosa però ci dice che il pur importante tema della collaborazione con Angelino Alfano — accettabile a Palermo ma non nel resto della Sicilia e, per carità, mai un domani in tutta Italia — non valga lo spettacolo di incertezza e litigiosità offerto dai nemici dell’ex primo cittadino di Milano. Il quale, ormai è chiaro, non è un attore adatto alla commedia politica così come va in scena di questi tempi. Ha un passato di garantista che lo rende antipatico a molti suoi futuri compagni d’avventura, è tormentato dai dubbi delle persone intelligenti, dalle incertezze e dai ripensamenti di chi non è mai stato un politico di professione. Qualsiasi amico sincero lo avrebbe sconsigliato in partenza di avventurarsi nel campo minato dove si è andato a ficcare. Ma adesso, in vista delle elezioni politiche, quel che resta fuori dal Pd deve scegliere: o si unisce attorno all’ex sindaco accettando che possa metter becco in materia di alleanze e candidature (ed è quest’ultima la vera materia del contendere) o non troverà più qualcuno capace di prenderne, credibilmente, il posto. Con il che dovrebbe poi procedere in ordine sparso. E, diciamocelo, non sarebbe una pagina degna di passare ai libri di storia quella che racconta come degli ex big della Dc e del Pci, ex ministri, ex presidenti del Consiglio (o aspiranti tali), non essendo riusciti ad eliminare Matteo
il manifesto 7.9.17
Macaluso: «La sinistra è al suo momento più basso. La Sicilia lo dimostra»
intervista di Alfredo Marsala
PALERMO «Siamo di fronte a qualcosa di molto grave, non solo per la sinistra ma per l’intero Paese, che sta andando verso lo sfascio. E in Sicilia tutto questo si sta manifestando in modo netto. E’ uno dei momenti più bassi della crisi del sistema politico italiano e della storia della sinistra». E’ pessimista, Emanuele Macaluso, storico segretario del Pci in Sicilia, analizzando la situazione politica e il quadro delle alleanze che si è determinato nell’isola per il voto del 5 novembre.
Non pensa che la sinistra unita, almeno in Sicilia, attorno a Fava sia una novità?
Identificare tutta la sinistra con i piccoli partiti Mdp e Sinistra italiana è la conferma che la sinistra è ridotta a questo: siamo di fronte a un problema drammatico. La sinistra in Italia e in Sicilia ha sempre avuto partiti di massa con gruppi dirigenti e con la partecipazione di intellettuali e operai: questa è storia. Mdp e Si sono piccole formazioni identitarie, per me tutto questo è un segnale evidente di una crisi di fondo.
Come giudica l’accordo tra Pd e Ap in sostegno del candidato Fabrizio Micari?
Non è una iniziativa del Pd, qui la mano è di Leoluca Orlando che si muove come un partito. Cento anni fa c’era il partito di Vittorio Emanuele Orlando, ora c’è quello di Leoluca Orlando che ha vinto a Palermo, col Pd che lo ha sostenuto ma in condizioni di debolezza; è stato Orlando a proporre Micari, il Pd, che non è un partito ma un agglomerato, si è limitato a sostenerlo. Si definiscono di centrosinistra solo perché ci sono il Pd e Alfano, ma è tutto un agglomerato. Sono segnali dello sfascio politico, questo è il mio giudizio e la mia amarezza. Qualcosa di pesante e grave per la Sicilia.
Chi vede meglio Micari o Claudio Fava?
In Sicilia le elezioni sono ormai segnate: è chiaro che Claudio Fava, bravo compagno e brava persona, non può diventare presidente della Regione e non ha chance neppure Micari, che non conosco e mi dicono sia persona degna, anche se senza esperienza politica.
Vinceranno i 5stelle?
Non vedo bene neppure i grillini, un gruppo raccogliticcio. Ho quasi la certezza che vincerà la destra, che si è organizzata in modo cinico. Gianfranco Miccichè diceva che Forza Italia non avrebbe mai sostenuto un fascista alla Regione come Nello Musumeci e invece Berlusconi fa sapere che andrà in Sicilia per fare campagna elettorale comprando addirittura un palazzo: è una vergogna.
Destra, sinistra, centro inneggiano alla «discontinuità» con il governo Crocetta. Anche lei ritiene che il governatore sia la causa di tutti i mali?
Conosco la famiglia Crocetta da tanti anni, una famiglia di comunisti, su questo non c’è dubbio. La sua identità politica non è certamente assimilabile a quella di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo (cosa che invece incredibilmente sostengono sia Fava sia Prc, ndr). Crocetta è una brava persona, ma non è stato messo in condizione di governare e non sarà ricordato per le cose che ha fatto. Cinque anni fa si candidò come Crocetta, anche allora il Pd aderì alla candidatura.
Insomma, il problema è il sistema?
Siamo di fronte alla rottura del sistema dei partiti, la partecipazione e il volontariato politico sono vicini allo zero. Tutto questo non interessa a nessuno, quando tutti dovrebbero preoccuparsi proprio di questo aspetto, perché i giovani che fanno politica sono davvero pochi.
Qual è il rimedio?
Servono forze che facciano battaglie politiche vere e di massa, non ce ne sono più da trent’anni per aumentare la cultura politica.
«Un bracciante siciliano aveva una cultura politica più alta di quella che oggi può avere un dirigente del Pd»
Un bracciante siciliano aveva una cultura politica più alta di quella che oggi può avere un dirigente del Pd. Il popolo non è preparato come un tempo, è più vulnerabile perché non ci sono partiti che facciano battaglie per una cultura di massa.
Ritiene che il progetto di Pisapia possa rappresentare la svolta?
Aveva cominciato bene, dicendo che bisognava fare il centrosinistra per radunare le forze che sono fuori dal Pd e che non hanno una casa politica. Mi sembrava un approccio positivo, anche perché aveva detto che a lui non interessa candidarsi ma dare un senso alla sua battaglia: unire il Pd alla sinistra per dare al partito democratico un ruolo che non riesce ad avere. Non so se questo disegno può andare avanti. In Sicilia non è avvenuto, non credo che nazionalmente il progetto di Pisapia sia recuperabile.
il manifesto 7.9.17
Pisapia e Mdp fissano il «big match»
Sinistra. Martedì 12 incontro per stabilire se e come andare avanti «Insieme». Tra i punti da chiarire, il rapporto con il governo e il perimentro della coalizione
di Daniela Preziosi
C’è chi lo definisce il big match e la formula è un tantino enfatica, ma in effetti stavolta l’aria è ’o la va o la spacca’. Dopo il confronto ruvido fra Pisapia e Speranza due giorni fa, martedì 12 settembre gli stati maggiori di Campo progressista e Mdp si incontreranno per decidere se Insieme andrà avanti sul serio oppure il matrimonio non s’ha da fare. Ci saranno i big di una parte e dell’altra, ovviamente Pisapia e Bersani, ma anche Speranza, Rossi, Ferrara, Smeriglio, Tabacci, e altri. Ci sarà anche Massimo D’Alema, che per una volta dovrà rinunciare alla civetteria di definirsi «un semplice militante di Mdp» e tentare la ricucitura con quello che davanti ai ’suoi’ pisani qualche giorno fa ha definito con ironia «l’ineffabile avvocato Pisapia» dichiarandosene «un seguace, quando dice ’mai con Alfano’».
Finito il tempo delle vacanze – invidiabilmente lunghe, quelle dell’avvocato -, finito il tempo delle battute, ora evidentemente è arrivato quello del realismo. Per tutti i personaggi della telenovela estiva dei promessi sposi della sinistra.
A parlare dell’incontro ieri è stato Bersani, padre nobile della Ditta ex Pd che più di tutti si è speso per evitare rotture anche nei momenti di maggiore attrito. E ce ne sono stati molti negli ultimi tempi, paradossalmente dopo quel primo luglio che doveva essere il battesimo di Insieme e invece si è trasformato nell’inizio ufficiale delle ostilità reciproche. Ora i due movimenti della sinistra hanno preso atto che in Sicilia non sosterranno lo stesso nome. Pisapia tenterà un chiarimento con il candidato del Pd Micari, chiedendo garanzie sulla trasparenza delle candidature e soprattutto di scaricare l’alleato Alfano. Se riceverà un no, com’è quasi scritto, l’avvocato milanese non si impegnerà alle regionali dell’isola (ma i suoi si candideranno nella lista civica di Leoluca Orlando). Mdp invece sosterrà Claudio Fava, come ieri Bersani ha ribadito a Lorenzo Guerini (Pd) in un incontro (casuale) alla Camera. E lo farà con le sigle ’sorelle’ della sinistra radicale. Anche se in quella famiglia le cose si complicano: ieri Rifondazione comunista ha accusato Fava di rincorrere ancora i democratici.
Ma la Sicilia «non sarà un caso nazionale», assicurano adesso quelli di Mdp. E alle politiche «non c’è alternativa allo stare insieme», fanno sapere. Le stesse parole che ripete il gruppo romano di Pisapia (più scettici i toni dei milanesi come Bruno Tabacci). Perché se il ritiro dell’ex sindaco segnerebbe la morte in culla per la rete di Campo progressista, dall’altra parte costringerebbe Mpd a una caccia improbabile e improvvisata di un altro leader. In queste ore c’è chi lancia il nome di Piero Grasso. Il presidente del senato. Ma finché sarà al suo posto di seconda carica dello stato è difficile che l’ex magistrato faccia un passo meno che istituzionale, forte anche del suo rapporto con il capo dello stato Mattarella. E anche dopo è difficile immaginarlo nei panni del ’federatore’ delle sinistre-sinistre, quelli che Mdp vorrebbe far vestire a Pisapia.
Insomma, per ora non si cambia cavallo, spiega Nico Stumpo (Mdp): «Con Giuliano Pisapia siamo al punto in cui ci eravamo lasciati a inizio agosto. Non c’è niente da cambiare né da aggiungere rispetto alla leadership». Insieme va avanti, giura, «e per metà settembre il nuovo progetto sarà pronto». Va avanti, sì, ma con juicio: il varo ufficiale, con l’assemblea costituente di Insieme – il nome è provvisorio, e anche questo non sarà problema di semplice risoluzione – annunciata per l’autunno però slitta: «Il 5 novembre si vota in Sicilia. E con i gruppi dirigenti impegnati nella campagna elettorale, l’assemblea costituente non si può fare», ragiona Stumpo. Sarà per questo, o meglio per lasciarsi alle spalle le elezioni siciliane comunque vadano, che non si annunciano un trionfo per le sinistre.
Il big match del 12 però dovrà affrontare, stavolta senza minuetti e dilazioni, i nodi delle differenze fra l’ex sindaco e gli ex pd: accettato ormai che il vero congresso del nuovo soggetto si terrà dopo il voto, e non prima come chiedeva Mdp (che però manterrà un’assemblea nazionale a ottobre), c’è da stabilire se comunque saranno varati subito i gruppi parlamentari di Insieme. Poi chiarire i paletti da avanzare a Gentiloni per votare la manovra, ovvero per confermare o meno l’appoggio al governo. E concordare un metodo per decidere il perimetro dell’alleanza per le politiche. Per evitare di replicare il pasticcio siciliano, e non procedere di nuovo in ordine sparso, di rottura in rottura verso lo scasso finale.
Repubblica 7.9.17
Speranza (Mdp)
“Caro Pisapia acceleriamo noi avanti anche da soli”
Il leader dei demoprogressisti: Giuliano stesso disse alt ad Alfano
di Carmelo Lopapa
ROMA. «Qui continuiamo a parlare di nomi, sigle, mentre siamo di fronte a un processo politico più grande di noi, di ciascuno di noi: c’è un popolo di sinistra disorientato che attende una risposta alla sua domanda. Allora basta perdere tempo, basta stop and go e politicismi, è il momento di correre». Roberto Speranza, coordinatore di Mdp, sostiene che con Giuliano Pisapia, Campo progressista e le altre anime della sinistra è il momento di stringere. E se poi l’ex sindaco di Milano dovesse rinunciare, allora «il progetto andrà avanti comunque perché la casa è più importante dei suoi inquilini».
Speranza, partiamo dai veti incrociati che rischiano di far perdere il centrosinistra in Sicilia? Fava contro Micari. Come ne venite fuori?
«La nostra posizione è di grande coerenza. Siamo rimasti al tavolo del centrosinistra finché non è apparso Alfano e con lui pezzi della destra. Chi ha rotto è Renzi che ha deciso di fare del leader di Ap il perno di una nuova coalizione, in Sicilia e poi magari alle politiche, di riesumare il progetto di Partito della nazione che pensavamo archiviato».
E quindi avete candidato Fava. Non è una scelta minoritaria finalizzata solo a far perdere il centrosinistra di Renzi?
«Fava è all’altezza della sfida in Sicilia e oggi dice: se salta l’accordo con Alfano si possono fare le primarie anche domani. Tocca al Pd decidere».
Pensa che Pisapia sia d’accordo con questo schema? Fuori Ap e primarie in Sicilia?
«Non tiro nessuno per la giacchetta. Ma da quel fronte abbiamo registrato sempre chiusure molto decise nei confronti di alleanze innaturali. Ognuno poi farà le proprie valutazioni».
Il 12 la riunione decisiva con Pisapia. Per andare dove?
«Io dico: basta stop and go, basta politicismo. Ora bisogna correre, offrire quell’alternativa che manca al Paese. Il Pd ha smarrito la strada, non e più in grado di rappresentare una larga fetta del popolo di centrosinistra e di intercettare la domanda di cambiamento. Il nuovo percorso dovrà necessariamente passare da un momento di partecipazione popolare. Non si decide nel chiuso di una stanza. Serve ad ottobre l’elezione di un’assemblea democratica».
Pisapia sembra disponibile a patto che non sia un soggetto costruito solo per picconare il Pd.
«Il Pd non sarà mai il mio nemico. Avrò sempre affetto per quella comunità di cui ho fatto parte. Ma è evidente che le politiche degli ultimi anni su lavoro, scuola, ambiente e fisco hanno disorientato la nostra gente. Serve un’alternativa progressista».
Il progetto andrebbe avanti anche se Pisapia facesse un passo indietro?
«Io mi auguro che il progetto coinvolga tutti. Detto questo, la casa è più importante dei suoi inquilini, il cantiere è più grande di ciascuno di noi. Andiamo avanti, speriamo con tutti, comunque con chi ci sta».
Puntate a far cadere Gentiloni con la manovra?
«Siamo stati sempre responsabili, l’unica fiducia non votata è stata quella sui voucher. A Gentiloni però diciamo fin d’ora che se immagina di fare politiche sostanzialmente di destra basate su regalie e bonus fiscali, allora i voti vanno chiesti alla destra e non a noi. Faremo proposte, su quelle ci misureremo».
Repubblica 7.9.17
Tabacci (Cp)
“Troppe scorie dalla scissione Giuliano paziente non all’infinito”
L’“ambasciatore” dell’ex sindaco: Pd e fuoriusciti voltino pagina
di Monica Rubino
ROMA. «Scorie della scissione mal digerita dal Pd». Per Bruno Tabacci è questa l’origine dei litigi fra Mdp e Giuliano Pisapia. Già assessore al Bilancio nella giunta arancione e ora braccio destro del leader di Campo progressista, l’”ambasciatore” dell’ex sindaco di Milano ravvisa in quella frattura irrisolta la causa delle divisioni sul caso Sicilia fra le due anime di “Insieme”, il soggetto politico nato il primo luglio a Roma in piazza Santi Apostoli.
Tabacci, a che cosa si riferisce?
«A un colloquio piuttosto animato a cui ho assistito ieri alla Camera».
Fra chi?
«Fra Lorenzo Guerini, coordinatore della segreteria Pd, e Pier Luigi Bersani di Mdp. Io ero lì, li ascoltavo e ho capito la radice del problema».
E qual è?
«Entrambi si contrapponevano con elementi critici che derivano ancora dalle conseguenze della scissione. Quel “vulnus” politico non è stato superato ».
Il Pd deve farsene carico?
«Si, non si può far pagare la scissione né ai siciliani né al Paese: Pd e Mdp devono trovare il modo di dialogare, altrimenti il centrosinistra consegnerà l’Italia a Berlusconi, che è ritornato carico e competitivo».
La Sicilia tuttavia è un banco di prova per il centrosinistra. Pensa che Pisapia e bersaniani giungeranno a un’intesa?
«Nel momento in cui sono tutti d’accordo a dare a Leoluca Orlando l’incarico di individuare un candidato, per superare l’esperienza di Crocetta e replicare il modello vincente di Palermo, non capisco perché poi gridare allo scandalo quando ci si ritrova anche Angelino Alfano nell’alleanza. Evidentemente gli amici di Mdp non hanno buona memoria».
Perché?
«Perché tra le liste a sostegno del sindaco Orlando ce ne era una che si chiamava “Democratici e popolari” con Pd e Ap. Inoltre si dimentica che la Sicilia ha una lunga tradizione di trasversalismo».
Si riferisce al “milazzismo”?
«Si, negli anni Cinquanta a sostegno del presidente Dc Silvio Milazzo scese in campo una coalizione più che bipartisan, che andava dai missini ai comunisti».
Quindi per lei i centristi non sono un problema?
«Non sono un tifoso di Alfano, l’ho criticato più volte per il suo doppiogiochismo. Ma noi che ne vogliamo fare di queste aree di centro? Berlusconi sta mettendo insieme tutto il possibile e noi stiamo a guardare? Basta pretesti, si ragioni di politica concreta».
Che messaggio manda ai bersaniani?
«Stabiliamo una volta per tutte che non si può fare un centrosinistra senza il Pd. Questo Giuliano lo sa bene. Mdp non può ragionare come Nicola Fratoianni, che per carità stimo, ma che vuole fare una sinistra di testimonianza, con nessuna possibilità di andare al governo. Non si può restare appesi a posizioni ambigue».
Questi contrasti potrebbero esasperare Pisapia al punto da indurlo a lasciar perdere tutto?
«Lo conosco profondamente come un uomo solido e concreto, ma di certo le polemiche non lo aiutano. Non è uno che pianta grane, ma non vuole nemmeno farsi rinchiudere in un angolo. Se il progetto unitario per cui si è messo a disposizione dovesse diventare una cosa diversa, potrebbe perdere la pazienza. E allora sarebbe un’occasione mancata».
Corriere 7.9.17
Sicilia, il Pd blinda l’asse con Alfano Rapporti tesi tra Mdp e Pisapia
Guerini: tiriamo dritti. D’Alema: Giuliano forse non ha seguito, a rompere sono i dem
di Monica Guerzoni
ROMA Ma quale ticket, quali primarie. Matteo Renzi non ci pensa proprio ad azzerare i suoi piani in Sicilia. Il leader del Pd si è convinto di poter conquistare l’isola proprio con quelle «alleanze innaturali» che Giuliano Pisapia gli ha rimproverato. Determinato a non mollare Alfano, domani l’ex premier inizierà il suo forsennato tour in sei tappe, da Taormina a Marsala, per blindare la candidatura di Fabrizio Micari, stringendo mani e firmando copie di Avanti .
E avanti, proprio come il titolo del suo ultimo libro, Renzi intende andare anche in Sicilia. Lo conferma Lorenzo Guerini, che ieri si è trovato a dover riprendere in mano i fili delle trattative dopo l’ultimatum di Pisapia. L’ex sindaco ha chiesto ai dem di ripartire da zero per salvare il centrosinistra e non regalare la Sicilia a Grillo o alla destra, ma al Nazareno l’allarme rosso non è scattato. «Tiriamo dritti — conferma Guerini da un divanetto di Montecitorio, dove si è concesso una pausa per ricaricare il cellulare —. Micari è il nostro candidato, non c’è nessun tandem con Claudio Fava. Le primarie? Ma su, non ci sono i tempi. Lo sanno che si vota il 5 novembre?». Sì, ma se andate divisi rischiate di perdere. «Rischiamo di vincere — smentisce i “gufi” Guerini — correremo con cinque liste e ci sarà anche Alfano». Il ministro ieri ha incontrato Micari a Palermo e ha dato il via libera alla candidatura, ma Pisapia e Bersani hanno messo il veto su Alfano. «Noi abbiamo fatto la coalizione modello Palermo come ci era stato chiesto da Leoluca Orlando, loro punto di riferimento — chiarisce Guerini —. Abbiamo ottenuto il passo indietro da Crocetta, cos’altro possiamo fare?». Correre senza le bandiere di partito? «No, non esiste».
A ricucire il centrosinistra non è servito nemmeno l’incontro (casuale) in un corridoio di Montecitorio tra Guerini, Pier Luigi Bersani e Bruno Tabacci, vicino a Pisapia. Colloquio intenso, ma infruttuoso. «Come possiamo spiegare ai nostri che siamo usciti dal Pd per ritrovarci a braccetto con Alfano?», è il mantra dell’ex segretario.
Altrettanto inquieti restano i rapporti tra Mdp e Campo progressista. Bersaniani e dalemiani si interrogano sul perché il progetto unitario non decolli e sulla riluttanza di Pisapia nell’esercitare la leadership. «Quest’estate non ha battuto un colpo su lavoro, migranti, economia, condoni», lamentano in via Zanardelli. Nella sede di Mdp, ma sottovoce, si fa il nome di Pietro Grasso come sogno proibito se mai Pisapia dovesse sfilarsi.E a sera da Reggio Calabria D’Alema invita Pisapia a sintonizzarsi sulla Sicilia: «Forse non ha seguito tutti gli sviluppi, avrà modo di approfondire. È il Pd che ha rotto il centrosinistra siglando il patto con Alfano, non noi». E qui l’ex premier tira giù il sipario: «La vicenda è chiusa, mi sembra difficile recuperare».
il manifesto 7.9,17
Alfano dà l’ok a Micari. Che ora spera anche nel sì di Pisapia
Si erano visti in gran segreto a fine agosto in un resort immerso tra gli ulivi a Selinute, Angelino Alfano e Leoluca Orlando. Avevano sancito il ‘patto’ che Renzi aveva auspicato qualche mese prima mandando in avanscoperta Lorenzo Guerini e Graziano Delrio a trattare col sindaco per lanciare il «modello Palermo» alle regioni del 5 novembre. Persi per strada Mdp e Si che si sono sentiti traditi da Orlando, il «patto di Selinunte» è stato suggellato ieri sera a villa Igea, a Palermo, in un incontro svelato solo a cose fatte. Nella terrazza dell’hotel in riva al mare, Alfano ha ufficializzato il suo appoggio a Fabrizio Micari, con lui lo «stratega» Orlando e Dore Misuraca, l’uomo di Ap che ha tenuto i rapporti col sindaco.
«Con la conferma dell’appoggio di Ap il campo ora è abbastanza largo: il partito di Alfano si aggiunge a Pd, Megafono, lista dei territori di Leoluca Orlando e Sicilia Futura», gongola il rettore. Che auspica di incassare anche l’ok di Pisapia e ancora non dispera di recuperare i bersaniani. «Se si parla di programmi e si guarda a cosa c’è dall’altra parte penso che ci possano essere ancora margini per un’alleanza con la sinistra», sostiene Micari che domani farà la sua prima uscita pubblica, come candidato del centrosinistra, a fianco di Renzi, in tour per due giorni in Sicilia.
A preannunciare l’ok di Ap era stato in mattinata il sottosegretario e coordinatore del partito di Alfano in Sicilia, Giuseppe Castiglione. Che ha tentato di ridimensionare il rischio di fuga: «Il partito non solo non lascia ma raddoppia perché ci sono tanti dirigenti, militanti e semplici cittadini che si considerano lontani anni luce da Salvini e Meloni». Il primo a lasciare Ap è Pietro Alongi, deputato regionale in carica vicino da sempre a Renato Schifani, che passa con l’Udc di Cesa. Si guarda ora a un altro «big» dato in fuga: Ciccio Cascio, che con Castiglione si divide il coordinamento del partito nell’isola.
Intanto a scuotere i partiti è un sondaggio di Demopolis che dà Giancarlo Cancelleri dei 5stelle al 35%, Nello Musumeci al 34% e Micari al 22%. Per il sottosegretario Davide Faraone «il sondaggio dovrebbe far riflettere le persone responsabili della sinistra, perché conferma che la frammentazione rischia di consegnare la Regione alla destra o ai cinquestelle». Ma Claudio Fava, che domani sarà a Messina con Massimo D’Alema per una iniziativa di Mdp, va per la sua strada. «Se da quella parte fossero disposti a ricostruire un perimetro concreto e omogeneo di centro-sinistra, cioè fuori Alfano e in discontinuità rispetto a Crocetta, ho detto che sarei anche disposto a primarie con Micari», insiste il candidato della sinistra.
Parole che non sono piaciute però al Prc-Se. «Fava chiarisca che la lista che si sta costruendo è alternativa alle destre, al M5S e al Pd indipendentemente da Alfano», reagiscono Mimmo Cosentino, segretario regionale Prc-Se, e Raffaele Tecce, responsabile nazionale enti locali del partito.
Repubblica 7.9.17
Caso Sicilia e alleanze.
Il progetto comune tra Campo progressista e Mdp a rischio per le divergenze nell’isola. L’appello unitario a vuoto: no di Micari alle primarie con Fava. Due interviste sulle chance di ricucitura
A Palermo il capo di Ap incontra il candidato del centrosinistra
Il muro del rettore “Non parlo a Fava” E arriva D’Alema
di Emanuele Lauria
PALERMO. Un incontro lungo un’ora, sulla terrazza di Villa Igiea, il grand hotel con vista sul molo dell’Acquasanta. Così il ministro Angelino Alfano e il rettore Fabrizio Micari chiudono un accordo che nei fatti delimita il campo della coalizione di centrosinistra in Sicilia: con il Pd, la lista di Leoluca Orlando e altri movimenti di area (fra i quali il Megafono del governatore uscente Rosario Crocetta), c’è dunque Alternativa popolare. Porte chiuse, nei fatti, alla sinistra. Micari si dice ancora “fiducioso” sull’allargamento a Si e Mdp ma non risponde neppure a una mail con l’invito a incontrarsi che Claudio Fava, il candidato di questi due partiti, gli aveva inviato. «Sono ancora qui con il telefono in mano», dice il deputato bersaniano in serata. Ma Micari fa sapere che quel cellulare non squillerà: «Sinceramente - afferma il rettore dell’Università di Palermo - non saprei cosa dire a Fava che mi manda una richiesta di confonto corredandola con la condizione di lasciare Alfano e fare le primarie. Non mi sembra sia un metodo accettabile». A questo punto, ognuno per la propria strada: Fava aprirà oggi la campagna elettorale con D’Alema nel Messinese, Micari domani e sabato al fianco di Matteo Renzi nel tour isolano dell’ex premier.
D’altronde, un incontro a Montecitorio fra Lorenzo Guerini e Pierluigi Bersani, alla presenza di Bruno Tabacci, ha confermato ieri la distanza fra il Pd e Mpd. Il braccio destro di Renzi ha chiesto all’ex segretario i motivi della rottura con Micari e l’abbandono del “modello Palermo”, che li aveva visti sostenere insieme Leoluca Orlando. Bersani ha contestato nuovamente al Pd la scelta di tenere in coalizione gli alfaniani. Adesso rimane da verificare la posizione di Giuliano Pisapia, che aveva lanciato un appello a unire le forze, proponendo Fava in tandem con Micari. Anche alla luce di un altro punto dell’accordo stretto ieri a Palermo fra il rettore e Alfano: quello di designare come vicepresidente l’eurodeputato di Ap Giovanni La Via. Micari afferma di non aver sentito Pisapia. Ma di essere “rassicurato” - questo il termine usato - dalle dichiarazioni in suo sostegno fatte martedì.
il manifesto 7.7.17
Chiariamoci su Ue, lavoro e democrazia
Sinistra. Un confronto sabato 9 settembre a Roma
Non v’è dubbio che la sinistra, ovunque, non solo in Italia, viva l’esaurimento di un lungo ciclo storico.
Il drammatico arretramento delle esperienze nate dal movimento operaio non può essere disgiunto dalla fine del socialismo reale e il conseguente dilagare del «capitalismo scatenato» (Andrew Glyn). Dopo l’89, la sinistra è rimasta orfana di un progetto di regolazione progressiva del capitalismo. Dai noi, la marginalità della sinistra, culturale prima che politica e elettorale, è più evidente poiché siamo in un Paese smarrito, dove nessuno schieramento politico riesce a proporre una guida credibile. Di conseguenza, il disagio di gran parte della popolazione si esprime con una disaffezione alla politica e l’affidamento a formazioni dalle dubbie credenziali democratiche e di governo.
Questo disagio va compreso, raccolto e guidato in direzioni progressive.
C’è bisogno di rigenerare una sinistra riformatrice, ancorata al lavoro e all’ambiente, in grado di battersi contro la deriva oligarchica di un potere abbacinato dal miraggio di una «democrazia senza popolo» e l’impoverimento di ceti popolari e classi medie.
Una ricostruzione della sinistra si impone, dunque. A tal fine, prima dell’estate, a Roma, al Teatro Brancaccio e a Piazza SS Apostoli, vi sono stati passaggi importanti. Vogliamo contribuire, sul terreno della cultura politica e del progetto, alla ricostruzione unitaria della sinistra.
La necessità di confrontarsi sui programmi trova formale condivisione. Tuttavia, prima dei programmi, per evitare una inutile lista della spesa che accontenti tutti senza affrontare alcun nodo vero, è utile chiarire il giudizio su alcuni temi di fondo: ruolo dello Stato, globalizzazione e mobilità internazionale del capitale e del lavoro, migrazioni e sicurezza, moneta e integrazione europea. Siamo consapevoli che tale discussione, elusa nel passato, sia ancora più difficile a ridosso di una competizione elettorale.
Eppure, essa ci pare possa distinguere una proposta politica convincente da una improbabile ammucchiata elettoralistica. Anche perché, spesso, la sinistra si ferma agli obiettivi programmatici (lavoro, uguaglianza, inclusione, riconversione ecologica, ecc.), enunciabili con facilità, mentre elude il ben più difficile compito di individuare gli strumenti per realizzarli.
Le indicazioni programmatiche della Costituzione e, in particolare, all’articolo 3 («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…») sono una bussola imprescindibile, ma vanno articolate in obiettivi e policies.
Il disegno di politiche adeguate a realizzare questi obiettivi richiede, oltre alla rigenerazione morale della sinistra, una elaborazione politica e intellettuale collettiva di grande spessore.
Non si può non prendere le mosse da un giudizio storico-politico sul passato.
La crisi profonda in cui versa il paese non può essere messa tutta sulle spalle di Renzi o della destra. È chiamato in causa anche il centro–sinistra che, in una fase di dissoluzione prima morale poi elettorale dei partiti di governo e di smarrimento post ’89 della sinistra storica, da Andreatta e Ciampi fino ai governi dell’Ulivo, ha cercato nel «vincolo esterno» dell’Ue e dell’euro-zona le condizioni di tenuta dell’unità politica della nazione e la via per disciplinare il conflitto sociale e minimizzare l’intervento pubblico.
Anche in Italia, come ovunque al di là e al di qua dell’Atlantico, il centrosinistra ha scommesso nei frutti di lungo periodo del liberismo economico veicolato dalla Ue e dalla moneta unica.
Oggi, è evidente: la scommessa è stata largamente persa e si è ritorta contro.
Dobbiamo ripartire. L’obiettivo della piena e buona occupazione è centrale e distintivo della sinistra per attuare la democrazia costituzionale, anche perché inscindibile dall’autorealizzazione delle persona nel lavoro, come sempre affermato da Bruno Trentin, e dalla redistribuzione del reddito verso il lavoro, elemento di giustizia e di sostegno alla domanda aggregata.
La sfida è un progetto di riconquista di soggettività sociale e politica del lavoro per declinare in senso progressivo l’interesse nazionale, inteso come tutela delle istituzioni e delle risorse economiche e sociali necessarie a garantire il perseguimento degli obiettivi indicati dalla nostra costituzione, in un orizzonte di cooperazione europea e internazionale.
Tale progetto è la condizione per dare respiro e prospettiva ai singoli conflitti per non rimanere esperienza nobile, ma di pura testimonianza.
Soprattutto, qui e ora, è la condizione per una solida e credibile unità a sinistra del Pd.
Intorno al nodo «Unione Europea, lavoro, democrazia» proponiamo a donne e uomini della cultura, della cittadinanza attiva e dei movimenti e della rappresentanza sociale un confronto programmatico con i protagonisti delle iniziative del Brancaccio e di SS Apostoli.
Ci vediamo sabato 9 settembre al Campidoglio, Sala della Protomoteca (10 -17).
Sergio Cesaratto, Stefano Fassina, Leonardo Paggi, Michele Prospero, Antonella Stirati
Corriere 7.9.17
«Minniti sbirro» L’estremismo (e l’autogol) di Gino Strada
di Marco Imarisio
Sbirro è un termine dispregiativo che indica i poliziotti. Gino Strada è una persona che fa un lavoro encomiabile. Al netto delle dispute ideologiche, questi due enunciati sono, o sarebbero, difficili da contestare. Due verità. Anche per questo è un vero peccato che il fondatore di Emergency abbia usato quel termine riferendosi alla formazione culturale del ministro dell’Interno Marco Minniti, per altro al termine della presentazione dell’ennesima buona iniziativa della sua associazione. Non è la sua prima scivolata nell’estremismo verbale, caratteristica che in passato gli ha alienato la simpatia dovuta alla sua attività encomiabile. Questa volta è peggio, non solo perché dietro il ricorso a quell’aggettivo si intravedono tracce di una cultura dell’antagonismo radicale che ha fatto non pochi danni in epoche lontane e si spera irripetibili. Ognuno nel suo privato può coltivare ed esercitare il pregiudizio su chi la pensa diversamente da lui, sono problemi personali. Gino Strada dovrebbe però sapere, meglio di ogni altro perché anche Emergency è stata spesso al centro di attacchi violenti e ingiustificati, che le parole pesano ancora di più in un’epoca come questa, dove il disprezzo esibito, l’insulto becero da social sembra diventato ormai linguaggio corrente, approdo linguistico di certa politica e certi media. Tanto più quando si parla di migranti, del loro dramma epocale diventato ormai materiale da curva Sud, da ultras di opposte fazioni. Non sono più solo parole. La forma è diventata sostanza, purtroppo. E bisogna farci attenzione, o almeno dovrebbe chi ricopre un ruolo pubblico, chi ha voce per manifestare il proprio dissenso. Non è un caso che quello «sbirri» abbia inghiottito e oscurato il resto del discorso di Strada, che comprendeva dure critiche all’operato del ministro dell’Interno. È ormai un effetto collaterale che va messo in conto, quando si scivola nell’estremismo dialettico. Non è certo questione di tutela della reputazione del ministro Minniti, che per altro di questi tempi può contare su legioni di elogiatori e sostenitori. Ma anche quello «sbirri» contribuisce a impedire una discussione decente e civile sulla questione più importante del nostro tempo. E invece ce ne sarebbe un gran bisogno.
Repubblica 7.9.17
Minniti-Haftar e la linea italiana per “contenere” i francesi in Libia
di Carlo Bonini
ROMA. E’ il fermo immagine di uno snodo cruciale della partita che l’Italia gioca nel quadrante libico e della sfida diplomatica sull’asse Roma-Parigi la stretta di mano a Bengasi tra il ministro dell’Interno Marco Minniti e il generale Khalifa Haftar, comandante della “Libyan National Army”, la milizia che controlla la parte orientale del Paese. Un incontro dell’inizio della settimana scorsa, durato tre ore e rimasto segreto per quasi dieci giorni, fino a quando non ne è stata data notizia dalla stampa libica. Due – riferisce a Repubblica una qualificata fonte di governo – i temi della discussione. Il primo: disinnescare l’escalation di violenza verbale che aveva accompagnato in agosto la nostra missione navale a Tripoli (con la minaccia da parte della milizia di Haftar di reagire con i missili alla violazione della sovranità). Il secondo e più importante: convincere Haftar che, pure nel solco di un rapporto privilegiato con il governo di Tripoli di Fajez al Serraj, l’Italia non immagina alcuna stabilizzazione della Libia che non passi per un accordo con il Generale e la sua milizia.
Gli argomenti di Minniti – riferisce ancora la nostra fonte – avrebbero trovato un Haftar non solo disponibile all’ascolto, ma pronto a un’apertura di credito verso Roma, che si dovrebbe misurare in un impegno della milizia a contenere, lungo la fascia costiera e i 1.000 chilometri di frontiera con l’Egitto, i flussi migratori dal sud del continente africano. A maggior ragione ora che i rapporti tra Roma e il Cairo (cui Haftar è legato) hanno ritrovato la loro normalità diplomatica. Ma quella foto di Bengasi dice qualcosa di più. Soprattutto alla luce del fatto che, dopo Haftar, Minniti ha incontrato lunedì scorso ad Algeri il premier e il ministro dell’Interno algerini. Racconta che, a distanza di cinque settimane dal vertice del 23 luglio al castello di La Celle-saint-Cloud, quando il Presidente francese Emmanuel Macron aveva benedetto l’accordo per il cessate il fuoco tra Serraj e Haftar, l’Italia ritorna al centro della partita libica spegnendo il tentativo di Parigi di farsi protagonista dell’ultimo, decisivo tratto di strada, che dovrebbe portare alla stabilizzazione della Libia: il voto nella primavera 2018. Dopo il vertice di Parigi del 28 agosto con cui l’iniziativa solitaria di Macron era stata “diluita” consegnando a Italia, Spagna, Germania e Francia il compito di implementare il piano proposto dall’Italia per la stabilizzazione della Libia e il contenimento dei flussi migratori dall’Africa sub-sahariana (Niger e Ciad), Roma ora riprende anche a tessere il filo delle iniziative bilaterali. Che, di fatto, la collocano come interlocutrice dei Paesi che fanno da perimetro, geografico e strategico, al governo di Tripoli. La Cirenaica di Haftar, l’Algeria, il Ciad, il Niger. E che confermano che per Palazzo Chigi il destino della Libia è in cima all’agenda della sicurezza nazionale. Per ragioni che hanno a che fare con i flussi migratori e con le fonti di approvvigionamento energetico. Quelle che animano la silenziosa sfida con Parigi.
Corriere 7.9.17
Raggi: la Marcia su Roma non deve ripetersi
Bufera sulla manifestazione annunciata per il 28 ottobre da Forza Nuova. Il Pd: «Il Viminale la vieti»
di Andrea Arzilli
ROMA Sulla «marcia dei patrioti» di Forza Nuova prevista per il 28 ottobre a Roma, stesso giorno di quella fascista del 1922 condotta da Benito Mussolini, ormai è bufera. Dopo il centrosinistra che chiede al ministro dell’Interno Marco Minniti di vietarla, arriva anche il secco no di Virginia Raggi: «La Marcia su Roma non può e non deve ripetersi», il tweet della sindaca di Roma ripreso, commentato, talvolta criticato da centinaia di followers di diverse aree politiche. Mentre la Questura della Capitale precisa che «non è stato ancora formalizzato alcun preavviso».
Il messaggio di Raggi è arrivato dopo una giornata di silenzi da parte dei partiti del centrodestra e di critiche durissime all’iniziativa da parte del Pd. «Si invitano i “camerati” di ogni parte d’Italia ad unirsi e marciare su Roma “contro la legge sullo ius soli”», in quella «che rischia di trasformarsi in una giornata tragica per il nostro Paese», hanno scritto 45 parlamentari dem in un’interrogazione presentata dal deputato Emanuele Fiano, promotore del ddl sull’apologia di fascismo, per chiedere «quali iniziative il ministro dell’Interno intende adottare per impedire che l’iniziativa si possa svolgere». «Una provocazione offensiva e pericolosa che va fermata», ha ribadito Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera. Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha ricordato come «la Marcia su Roma fu una tragedia. Rifarla oggi sarebbe, oltre che un insulto, una farsa ridicola». Mentre il deputato dem Marco Miccoli aggiunge: «Non si può tollerare l’ennesima provocazione da parte dei fascisti di Forza Nuova nei confronti della Capitale e della storia di questo Paese. La Marcia su Roma annunciata per il 28 ottobre deve essere impedita».
Duri i commenti dei partiti di sinistra, da SI a MdP fino Pippo Civati, deputato e segretario di Possibile, che ha chiesto di «sciogliere Forza Nuova». Il tutto nonostante il leader di Fn, Roberto Fiore, definisca la manifestazione «non filo-fascista o nostalgica, ma patriottica. Il Viminale farebbe un errore a vietarla. Non è contro il ministro Minniti, ma contro Soros», il finanziere Usa accusato di «organizzare l’invasione di migranti nel Sud Europa». Su Facebook Forza Nuova apre però una raccolta fondi per il 28 ottobre con foto del Foro Italico sullo sfondo, chiaro riferimento storico.
Intanto il questore di Roma Guido Marino ha vietato la «passeggiata per la sicurezza» organizzata da Fn per domani sera al Tiburtino III, il quartiere dove alcuni giorni fa un eritreo è stato accoltellato da un’italiana durante una lite accanto al centro della Croce Rossa. «Motivi di ordine pubblico e concomitanza di altri eventi», ha motivato la Questura.
La Stampa 7.9.17
Al Senato un piano per affossare il taglio dei vitalizi
Una modifica e la legge morirà alla Camera
di Andrea Carugati
Nessuno, ai piani alti del Pd in Senato, dirà mai che la legge sui vitalizi non deve essere approvata. L’idea che circola, al netto del fermo no di Ugo Sposetti, è modificarla a palazzo Madama, magari sulla scorta delle obiezioni di autorevoli costituzionalisti. E poi lasciare che si inabissi alla Camera per il game over della legislatura.
L’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato inizierà a lavorarci il 12 settembre. Con grande probabilità sarà nominato relatore il presidente della commissione Salvo Torrisi, di Ap, che fu eletto presidente nell’aprile scorso con una santa alleanza di tutte le opposizioni contro il Pd.
Una scelta che scatenò una durissima reazione dei dem, e che fu criticata anche da Angelino Alfano, che invitò invano il suo senatore alle dimissioni. Torrisi assicura che dirigerà i lavori «con imparzialità» e non entra nel merito della legge, ma è noto che Ap a luglio alla Camera ha votato contro denunciando «l’incostituzionalità» della norma.
Dal 12 settembre partiranno le audizioni degli esperti in commissione: costituzionalisti e giuslavoristi cui sarà chiesto se vi siano profili di incostituzionalità nella norma che applica il taglio dei vitalizi retroattivamente agli ex parlamentari. Dubbi che il capogruppo Pd Luigi Zanda vuole spazzare via prima di ogni altra valutazione nel merito. Lo stesso giorno si riunirà la conferenza dei capigruppo del Senato che potrebbe decidere quando calendarizzare il provvedimento per l’Aula. Il 1 agosto il Pd votò contro la richiesta del M5S di una procedura d’urgenza. Ieri alla Camera i grillini hanno affermato che prima di poter collaborare sulla nuova legge elettorale il Pd deve dare un segnale approvando i vitalizi in Senato. «Se il Pd lo farà - è la sfida pentastellata - per noi sarà il segnale che può riuscire a gestire i franchi tiratori». Ma c’è di più. Durante il tour in Sicilia Alessandro Di Battista ha detto che «se bloccheranno i vitalizi siamo pronti a occupare le commissioni in Senato».
Una minaccia che non spaventa i dem. Anche tra i meno ostili alla legge l’idea prevalente è che «occorre comunque fare le modifiche necessarie». «Non approveremo una legge pasticciata e scritta male», spiega un autorevole senatore Pd. «Vogliamo una legge non punitiva per la politica».
Tra gli esperti ci sono state finora opinioni diverse: l’ex presidente della Consulta Giuseppe Tesauro è stato molto critico, sostenendo che «una legge non può intervenire in materie di competenza dei regolamenti parlamentari, perché altrimenti verrebbe violata l’indipendenza costituzionale garantita a ciascuna Camera». Un altro ex presidente come Valerio Onida ha invece spiegato che «nessun diritto acquisito è intoccabile, purché si resti nei limiti della ragionevolezza». «Esamineremo il testo con attenzione», ribadisce Zanda. Consapevole che, se saltasse il principio di retroattività, la legge sarebbe svuotata di significato.
Repubblica 7.9.17
Scuola, l’eterno concorso e le cattedre vuote
Orali ancora in corso dopo 19 mesi. Bocciati record, ma per chi ce l’ha fatta spesso il posto rimane un miraggio
di Corrado Zunino
ROMA. Il concorsone per diventare professore o maestro — 63.712 cattedre messe a bando e quasi il triplo, 165.578, i candidati — è in rampa di lancio per diventare un nuovo atto pubblico infinito. Sono trascorsi diciannove mesi da quando è stato bandito — 23 febbraio 2016 — e non si vede la fine. La sua fase ortodossa, scritto e orale, si è conclusa da poche settimane. In Sicilia in questi giorni, con una strage di aspiranti docenti delle materne: le sopravvissute allo scritto non hanno retto la lezione simulata. Ma il concorso a cattedre — oltre al numero enorme dei partecipanti e alla mancanza di un filtro attraverso la prova selettiva — sta diventando lungo in modo sfiancante perché quasi ogni giorno al ministero dell’Istruzione approda una raccomandata che ricorda la sentenza di un giudice: riaprite le graduatorie dei partecipanti. Ecco, bisogna organizzare una “prova suppletiva” e infilarci dentro un diplomato magistrale inizialmente escluso, o un insegnante tecnico pratico (diplomati che fanno assistenza nei laboratori degli istituti professionali). Il ministero chiedeva la laurea (e l’abilitazione) per insegnare, per Tar e tribunali civili non sono fondamentali. Ha fatto ricorso anche chi, per un errore del sistema informatico pubblico, è stato dimenticato o inserito in una classe di concorso non richiesta. Cifre ufficiali sulle prove suppletive il Miur non ne ha: aveva promesso di chiuderle a giugno, ad agosto ha iniziato un censimento delle cause perse. I sindacati parlano di altri diecimila candidati. Porterebbero il totale dei partecipanti al concorsone a quota 175mila.
A Napoli sono ancora in corso gli orali di “strumenti musicali”. In Sicilia “strumenti” e “laboratori”. Lombardia, Lazio, Campania, tutte indietro. A complicare le cose arrivano le diverse decisioni degli Uffici scolastici regionali. Il sindacato Anief denuncia: «In alcune Regioni non hanno tenuto conto dei candidati suppletivi, in altre hanno pubblicato le graduatorie nuove ma non li hanno messi in ruolo, in altre ancora li hanno assunti».
Uno dei problemi del concorso 2016 è che dopo la vittoria non arriva — come s’immaginerebbe automatico — l’assunzione. Per la scuola dell’infanzia e la primaria a metà settembre entrerà un vincitore su dieci (le cattedre previste in questa classe sono 17.299). In Puglia, infanzia sostegno, ci sono 18 posti a fronte di 118 selezionati. Il Miur assicura che saranno tutti assunti in tre anni, ma con queste disponibilità si rischia una coda di un decennio. E tra 23 mesi le stesse graduatorie non saranno più valide.
Il concorso della Buona scuola di Renzi-Giannini, infine, non è riuscito a riempire le lacune in materie storicamente non studiate dagli aspiranti prof: matematica, chimica, informatica, spagnolo. Sono 17mila le cattedre che si daranno in supplenza per mancanza di un candidato naturale preparato. Sul sostegno è un disastro: mancano undicimila docenti.
Nel 2018 si riparte dai concorsi: saranno tre, più limitati, “transitori”, per sistemare i precari. A febbraio il primo bando, riservato a chi è già nelle graduatorie di istituto.
Repubblica 7.9.17
C’è chi ha rinunciato ai figli in attesa della chiamata e chi a 66 anni ancora sogna di spuntare il contratto
Le 150mila vite sospese dei vincitori non assunti nell’Italia degli esami che non finiscono mai
di Antonio Fraschilla
UN concorso pubblico può cambiare una vita. Perché garantisce il posto fisso tanto agognato, certo, ma in alcuni casi perché tiene appesa quella vita a un filo per decenni. Nel Paese delle selezioni pubbliche che costano cento milioni di euro al mese accade che chi vince un concorso, e festeggia magari l’assunzione, alla fine non venga mai chiamato in servizio. Ne sanno qualcosa i cento restauratori siciliani che da diciassette anni attendono l’assunzione dopo aver vinto la selezione bandita nel lontano Duemila, oppure i 400 vincitori del concorsone dell’Inail varato dieci anni fa. E con loro i tanti che hanno partecipato alle selezioni degli anni scorsi del ministero dell’Interno per la qualifiche di poliziotto o vigile del fuoco. Ci sono vincitori di concorso che oggi hanno quasi settant’anni e ancora sperano di avere un lavoro per qualche mese prima della pensione. «Storie di tradimenti di Stato», dice Alessio Mercanti, che ha fondato il movimento dei “vincitori non assunti” ed è arrivato a contare 156mila persone che hanno passato una selezione pubblica e non sono stati mai chiamati al lavoro.
Roberta oggi ha 38 anni, non si è sposata ma è da sempre fidanzata con lo stesso compagno. Dieci fa ha vinto la selezione dell’Inail, ma da allora non ha più ricevuto notizie. «Questo concorso ha messo tra parentesi la mia vita — racconta — perché non sapendo in quale sede sarei stata chiamata, non mi sono sposata e non ho figli». Da dieci anni attende invano: «Ricordo che appena pubblicato il bando, nel 2007 — dice — arrivarono in pochi giorni 120mila domande. Solo in 1.200 siamo arrivati agli scritti e alla fine io sono entrata in graduatoria tra i primi 400 che dovevano essere assunti subito. Dopo tre anni è arrivata la graduatoria definitiva. Ma ecco che il governo Monti blocca le assunzioni non facendo salvi i concorsi già conclusi. Adesso mi hanno detto che entro fine anno potrei essere chiamata in servizio. Io sono fortunata, perché comunque ero tra le più giovani partecipanti al concorso. Molte persone entrate in graduatoria sono andate in pensione senza mettere mai piede all’Inail». Roberta ha tentato anche il concorso di Roma Capitale del 2010 per assistente amministrativo. Concorso, manco a dirlo, mai concluso.
In Sicilia 97 restauratori si sono visti recapitare qualche settimana fa un decreto che li dichiara “vincitori” della selezione per titoli bandita dall’assessorato dei Beni culturali. Quando è avvenuta la selezione? Diciassette anni fa. Ma la beffa non finisce qui: la Regione Siciliana da un lato ha chiuso un concorso quasi vent’anni dopo, dall’altro nello stesso decreto che fissa la graduatoria scrive in poche righe: «Considerata la vigenza del divieto delle assunzioni stabilito nel 2016 il decreto non costituisce in alcun modo atto da cui discende diritto all’assunzione ». Anche perché nel frattempo la Sicilia ha cancellato dagli organici questa figura, nonostante un patrimonio culturale che sta cadendo a pezzi. Serafina Melone, restauratrice che ha lavorato nella Cappella Sistina e sugli stucchi del Serpotta, non si dà per vinta: «Ho 66 anni, ho avuto una mia vita professionale, ma adesso voglio essere assunta dalla Regione per un fatto di principio e di giustizia — dice — come le tante persone che come me sono in graduatoria». Tra queste c’è anche Stefania Occhipinti, che aveva 28 anni quando ha partecipato alla selezione e oggi ne ha 43: «Nel 2006, dopo sei anni dalla selezione, hanno pubblicato la prima graduatoria e io e mio marito finalmente abbiamo pensato di avere una stabilità — dice — Forse il fatto che mia figlia sia nata un anno dopo non è casuale. Ma sono stata un’illusa. Attendendo questa chiamata non mi sono trasferita altrove, sono rimasta in Sicilia».
Da Milano a Palermo, storie di concorsi infiniti e che non sono comunque conclusi: grazie alla battaglia del comitato “vincitori non assunti”, una norma nella Finanziaria ha prorogato le graduatorie statali dei concorsi fino a dicembre. «Ma nel frattempo hanno bloccato le assunzioni per fare spazio ai dipendenti delle ex Province — dice Mercanti — nello Stato e nella politica la mano destra non sa cosa fa la sinistra».
Il Fatto 7.9.17
Rai, Orfeo scopre le carte (false): la tv pubblica fa fuori la Gabanelli
Proposta inaccettabile: condirettore di RaiNews e capo di un sito inutile. Campo Dall’Orto le voleva dare tutto il settore digitale ma il progetto è stato prima frenato e poi completamente bloccato
di Gianluca Roselli
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/orfeo-scopre-le-carte-false-la-rai-fa-fuori-la-gabanelli/
Repubblica 7.9.17
Il gioco dei ricatti
di Andrea Bonanni
SEMPRE più frammentata, sempre più sotto attacco, l’Europa sta faticosamente e dolorosamente imparando a rispondere ai ricatti e alle minacce che sono ormai troppo frequentemente la cifra di chi vuole discutere con Bruxelles. Ieri la Corte di Giustizia del Lussemburgo ha respinto il ricorso presentato da alcuni governi dell’Est contro la redistribuzione dei richiedenti asilo.
DOPO essersi rivolti ai giudici europei, Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia hanno immediatamente respinto la sentenza, visto che non dava loro soddisfazione. In questo modo il solco che già da tempo attraversa la Ue si approfondisce ancora di più. Non solo i governi del gruppo di Visegrad si rifiutano di mostrare solidarietà sulla questione dei rifugiati. Non solo respingono una decisione condivisa da tutte le istituzioni comunitarie. Ora disconoscono anche le sentenze della Corte di Lussemburgo, contrapponendo apertamente la loro sovranità nazionale a quella europea.
Lo scontro si alza di livello. Per una volta, però, Bruxelles non si è fatta intimidire e ha annunciato che chiuderà la procedura di infrazione mandando i quattro ribelli davanti ai giudici. La Corte di Giustizia, essendosi di fatto già pronunciata, non potrà che imporre multe salatissime per ogni giorno di inosservanza della norma sulla redistribuzione dei rifugiati. Se le multe poi non dovessero bastare, i Paesi dell’Est Europa rischiano di vedersi tagliati nel prossimo bilancio i fondi europei che finora hanno finanziato il loro sviluppo economico. E, se anche questa sanzione non li indurrà alla ragione, si porrà finalmente il problema della loro permanenza nella Ue, visto che è impossibile restare in Europa senza riconoscere l’autorità delle sue istituzioni e il primato del suo diritto.
Ma questa non è l’unica sfida lanciata a Bruxelles. Dopo aver sopportato forse troppo a lungo le minacce di Erdogan e il suo attacco alle fondamenta della democrazia in Turchia, Angela Merkel e Emmanuel Macron cominciano a pensare di chiudere anche formalmente i negoziati per l’adesione di Ankara alla Ue. Le trattative, di fatto, languono da anni. Ma una sospensione formale darebbe concretezza alla condanna per le tentazioni autoritarie di Erdogan che finora è stata espressa solo a parole. E il despota turco ha reagito da par suo, accusando di nazismo i governi europei.
Certo, nella ritrovata durezza della Cancelliera pesa molto la campagna elettorale che in Germania è arrivata alla sua fase più accesa. Ma è un fatto che, finalmente, anche su questo fronte l’Europa sembra ritrovare un po’ di quel coraggio e di quella dignità che aveva opportunisticamente messo da parte per fermare il flusso dei profughi siriani attraverso la Turchia. Ma che ne pensano Paesi come la Grecia, che potrebbe nuovamente trovarsi sommersa di richiedenti asilo, come accadde due anni fa?
E i ricatti non si esauriscono sul fronte orientale. Dalla Gran Bretagna piove su Bruxelles la minaccia di una brusca restrizione del diritto dei cittadini comunitari di stabilirsi in Gran Bretagna dopo il 2019, quando la Brexit diverrà effettiva. L’avvertimento è arrivato sotto forma di un presunto “piano” del governo inglese opportunamente fatto trapelare al Guardian. I negoziati tra Londra e Bruxelles stanno andando a rilento. La prima fase, che deve stabilire le condizioni per la separazione, difficilmente potrà concludersi entro ottobre come previsto. E quindi la seconda fase, che definirà i nuovi rapporti commerciali e legali tra il Regno Unito e la Ue, partirà in ritardo. Lo spettro di un mancato accordo entro i due anni previsti per definire la Brexit si fa sempre più concreto. E il governo della signora May, chiaramente in difficoltà, comincia a lanciare minacce neppure troppo velate. Ma, anche in questo caso, l’Europa non sembra disposta a piegarsi alle pressioni britanniche. E la fuga di notizie ha avuto come unico risultato di sollevare un’ondata di proteste in Gran Bretagna, dove l’apporto degli immigrati comunitari è considerato vitale per sostenere l’economia.
Il quadro delle frammentazioni europee è completato dalla Catalogna, che sfida la Spagna convocando un referendum sull’indipendenza vietato dal governo di Madrid. La mossa, in sé, non è diretta contro l’Europa. Anzi. Ma la destabilizzazione della Spagna, che con l’Italia, la Germania e la Francia forma il quartetto di punta della nuova leadership europea, potrebbe avere gravi conseguenze. Anche su questo fronte, però, la Ue finora non ha ceduto alle pressioni di Madrid per rintuzzare l’indipendentismo catalano. In passato, la Commissione di Manuel Barroso lo aveva fatto. Ora Bruxelles pare orientata a non prendere posizione. Anche qui, la logica delle minacce, dei ricatti e dei diktat sembra aver perso la presa che aveva su una Europa che, dopo anni di debolezza, è alla ricerca di una ritrovata dignità.
Corriere 7.9.17
La Corte Ue boccia i Paesi dell’Est: ospitate i migranti
Uno schiaffo all’Est sui rifugiati: rispettare le quote
La sentenza: giusti i ricollocamenti dei rifugiati
La Corte di Giustizia europea respinge i ricorsi di Ungheria e Slovacchia
di I. C.
BRUXELLES La Corte europea di giustizia di Lussemburgo ha respinto il ricorso di Ungheria e Slovacchia, presentato per vedere approvato il loro rifiuto di accogliere le quote di rifugiati provenienti da Italia e Grecia decise dai governi Ue a maggioranza. Per gli eurogiudici questa soluzione temporanea «contribuisce effettivamente e in modo proporzionato a far sì che Grecia e Italia possano far fronte alle conseguenze della crisi migratoria del 2015», che provocò «una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di migranti».
Il governo ungherese di Viktor Orbán, già sottoposto dalla Commissione europea a una procedura d’infrazione per non aver accettato le quote di rifugiati (con Polonia e Repubblica Ceca), ha definito la sentenza «irresponsabile, pericolosa e inaccettabile». Anche il premier slovacco Robert Fico, che ha accolto un numero minimo di rifugiati per evitare la procedura d’infrazione, ha contestato il verdetto, pur promettendo di rispettarlo. Il commissario Ue per l’Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, dopo una riunione della Commissione europea a Bruxelles incentrata sull’emergenza migranti, ha espresso soddisfazione per la decisione della Corte Ue. Ha sostenuto che dovrebbe ora convincere Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca a «mostrare piena solidarietà» sui rifugiati. In caso contrario ha ventilato il ricorso alla Corte di giustizia per la definizione delle multe previste dalla procedura d’infrazione. Il verdetto degli eurogiudici lo ha considerato utile anche per rilanciare la riforma del Trattato di Dublino, che assegna i rifugiati al primo Paese di arrivo (penalizzando Italia e Grecia), e ha annunciato una proposta «entro fine anno».
Avramopoulos ha indicato in 27.695 i rifugiati ricollocati nei Paesi Ue dalla Grecia (19.244 soprattutto siriani) e dall’Italia (8.451 in gran parte eritrei) sui 120 mila (o 160 mila) previsti. Il meccanismo temporaneo non sarà però esteso dopo la scadenza del 26 settembre prossimo e verrà applicato solo a quanti hanno già ottenuto lo specifico status (circa 7 mila dall’Italia e circa 5 mila dalla Grecia). L’emergenza nel Mediterraneo sembra essersi arrestata. Secondo il commissario greco gli sbarchi sulle coste italiane sono diminuiti dell’81% in agosto e del 66% in luglio rispetto allo stesso periodo del 2016, grazie anche al «lavoro positivo fatto lungo la rotta del Mediterraneo centrale con tutti i partner coinvolti, inclusi i governi di Libia e Niger». In Grecia la flessione è indicata nel 97% dopo l’accordo Ue-Turchia. Oltre 11 mila migranti sono stati convinti dall’Organizzazione internazionale per l’immigrazione a tornare volontariamente nei Paesi di origine dalla Libia e dal Niger.
«Grazie alla cooperazione con le agenzie dell’Onu e con i nostri partner africani abbiamo raggiunto alcuni risultati iniziali incoraggianti per le nostre priorità — ha commentato la vicepresidente della Commissione europea e responsabile Esteri dei governi Ue Federica Mogherini —. Stiamo mettendo a punto un sistema per gestire in modo congiunto e sostenibile, nel pieno rispetto dei diritti umani, una situazione che richiede un solido partenariato, una condivisione delle responsabilità, solidarietà e un impegno costante».
I. C.
Corriere 7.9.17
Dublino e sanzioni Ora cosa succede ?
di Ivo Caizzi
BRUXELLES La Commissione europea spera che la sentenza della Corte europea di giustizia sulle quote obbligatorie per il ricollocamento dei rifugiati dall’Italia e dalla Grecia possa convincere l’Ungheria e gli altri Paesi dell’Est, finora ostinatamente contrari, a condividere i principi comunitari di unità e di solidarietà su questo argomento molto delicato in politica interna. I primi tentativi di riapertura del dialogo con le capitali est-europee sono già partiti a livello istituzionale e politico. Per convincere il premier ungherese Viktor Orbán, capofila degli oppositori dell’Est, starebbe operando riservatamente un tentativo di mediazione anche il suo euro-partito dei popolari europei (Ppe), presieduto dal francese Joseph Daul e guidato a Bruxelles dall’eurodeputato tedesco Manfred Weber.
Procedure d’infrazione
Dopo aver preso atto delle prime dichiarazioni negative provenienti soprattutto da Budapest e da Varsavia, il commissario Ue per l’Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, ha anticipato che — in caso di mantenimento del rifiuto di accogliere i rifugiati — andranno avanti le specifiche procedure d’infrazione aperte nel giugno scorso dalla Commissione europea contro Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca.
In pratica il dossier passerebbe alla Corte europea di giustizia di Lussemburgo, che dovrebbe decidere le sanzioni contro i governi di Budapest, Varsavia e Praga: di fatto scontate dopo la decisione degli eurogiudici di respingere i ricorsi ungherese e slovacco.
La riforma del Trattato
Avramopoulos ha espresso la convinzione che la sentenza della Corte Ue di ieri possa anche rilanciare la riforma del Trattato di Dublino, che attualmente penalizza soprattutto Italia e Grecia perché assegna i profughi solo al primo Paese Ue di arrivo. Il governo di Roma ha ripetutamente chiesto di rivedere quell’accordo per trovare una soluzione strutturale all’eccessiva concentrazione di sbarchi sulle coste italiane. Ma negli ultimi Consigli dei capi di Stato e di governo il premier Paolo Gentiloni non ha trovato sufficienti consensi e si è scontrato con nette opposizioni (non solo di Paesi dell’Est). Avramopoulos ha ora annunciato una specifica proposta tecnica di riforma del Trattato di Dublino, che la sua Commissione europea dovrebbe rendere nota «entro fine anno».
Le frontiere interne
La ripartizione dei rifugiati tra i Paesi Ue e la forte riduzione negli sbarchi dal Mediterraneo dovrebbe eliminare nuove richieste di Germania, Austria, Svezia e Danimarca di estendere il ripristino dei controlli alle frontiere (in deroga all’accordo di Schengen di libera circolazione). Per Avramopoulos non è più «legalmente giustificabile» prolungare queste eccezioni concesse dopo l’esplosione dell’emergenza migranti. Ha poi annunciato che la Commissione europea «sta lavorando» a una proposta di modifica delle regole attuali.
L’obiettivo di Bruxelles, su sollecitazione di vari governi influenti, sarebbe di riconsiderare Schengen spostando l’attenzione sulle nuove esigenze imposte dalla lotta al terrorismo, che ormai si organizza e attacca su base internazionale. Le deroghe al principio di libera circolazione tra i Paesi membri potrebbero essere richieste qualora fosse necessario un maggiore controllo dei confini nazionali per evitare attentati dell’Isis come quelli verificatisi a Parigi e Bruxelles.
Repubblica 7.9.17
Le fratture dell’ Europa
Migranti, Turchia, Catalogna: i “no” che frenano il cammino della Ue
Alberto D’Argenio
BRUXELLES. La Corte di giustizia europea si pronuncia contro Ungheria e Slovacchia che chiedevano di bocciare la ripartizione dei richiedenti asilo sbarcati in Italia e in Grecia. La sentenza dà ragione alla Commissione di Bruxelles, che ha messo in piedi il sistema dei ricollocamenti, ma lascia aperta la ferita in seno all’Unione con i paesi del gruppo di Visegrad contrari a qualsiasi forma di solidarietà sui migranti. Tanto che la decisione arrivata ieri dai giudici del Lussemburgo apre la porta al deferimento in Corte di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, nel mirino di Bruxelles proprio per non avere accolto nemmeno un rifugiato violando gli obblighi del programma che prevede la redistribuzione tra partner europei di 120mila richiedenti asilo ospitati da Roma e Atene.
Ad oggi sono 27.695 i profughi ricollocati all’interno dell’Unione: 19.244 dalla Grecia e 8.451 dall’Italia. Sono in tutto 28.300 i richiedenti asilo (siriani ed eritrei) candidabili alla redistribuzione giunti in Italia nel 2016 e 2017, ma soltanto 11mila sono stati registrati: per questo la Commissione ha di nuovo sollecitato Roma ad «accelerare».
Mentre ad agosto gli sbarchi in Italia sono diminuiti dell’81 per cento grazie al lavoro in partnership con la Libia, il programma di ridistribuzione scade a fine mese e non sarà esteso: dunque nei prossimi mesi potranno essere smistati soltanto i richiedenti asilo sbarcati entro il 26 settembre fino all’eventuale, ormai difficile, esaurimento quote.
La sentenza ha comunque un valore politico forte perché rinforza la base legale delle riallocazioni e guarda al futuro, alla battaglia dei prossimi mesi: scaduto il programma di emergenza avviato due anni fa da Bruxelles, ora si attende la riforma delle regole sull’asilo del sistema di Dublino all’interno della quale la Commissione ha proposto un sistema permanente di redistribuzione da far scattare quando le capacità di accoglienza di un Paese sono sotto stress.
La riforma nelle prossime settimane sarà spinta dal Parlamento europeo, ma trova il blocco delle capitali dell’Est. Ma ora la cancelliera tedesca Angela Merkel si è schierata a favore del progetto e la pronuncia della Corte, per la quale il programma attuale è obbligatorio anche se non è stato approvato con un voto all’unanimità dei governi, apre la strada a un voto a maggioranza pure per la riforma di Dublino: un passo potenzialmente decisivo. Per questo ieri da Budapest, Varsavia e Praga è arrivata una raffica di bordate contro Bruxelles (soltanto la Slovacchia ha annunciato che si conformerà alla sentenza). Il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijarto, ha definito la decisione della Corte «politica e non giuridica ». La premier polacca Beata Szydlo ha fatto sapere che non cambierà posizione, mentre il leader ceco Milos Zeman ha detto che rinuncerà ai finanziamenti Ue – ritorsione già minacciata da Roma e Berlino e ribadita ieri dal sottosegretario Sandro Gozi – piuttosto che prendere i migranti. Lo scontro riprenderà vigore quando l’Europa si rimetterà in moto, dopo il voto tedesco del 24 settembre con la speranza di chiudere per fine anno.
Corriere 7.9.17
Un colonialismo solidale per l’Africa
di Goffredo Buccini
Il calo degli sbarchi, in un’estate che si annunciava segnata da flussi migratori almeno in potenza devastanti è, ovviamente, un’ottima notizia (vi corrisponde, peraltro, il calo delle morti in mare). Ma si tira dietro illusioni pericolose, da rimuovere in fretta, nel discorso pubblico tra noi e i nostri partner europei. La prima, e la maggiore, è che tutto sia risolto, che l’emergenza sia ormai lontana e al più si tratterà di gestire l’ordinario. Non è così.
L’attivismo di Marco Minniti, forse il primo da molto tempo ad affrontare la questione tutta intera anziché rifugiarsi in fumisterie dilatorie, ha certo fruttato nel breve periodo. I numeri impressionano: i migranti sono il 51 per cento in meno rispetto a luglio e addirittura l’85 per cento in meno rispetto all’agosto 2016. Si può discutere sull’apertura di credito concessa alla guardia costiera libica, cui è difficile attribuire standard, diciamo, europei. Si può e si deve discutere sulla natura dei 34 «campi» dove, tra Tripoli e Sebha, i libici ammassano a migliaia i profughi, trattandoli né più e né meno come faceva Gheddafi quando era finanziato dal governo Berlusconi con gran sdegno del Pd allora all’opposizione.
Ma è innegabile che una svolta (da coniugare opportunamente con l’annunciato Piano per l’integrazione) ci sia stata. E che non abbia torto il ministro degli Interni spiegando come un trend di 12 mila sbarchi in 48 ore (accadeva appena lo scorso giugno) avrebbe potuto mettere a repentaglio la nostra democrazia già percorsa da gravi tensioni xenofobe.
Tuttavia, proprio in queste ore, la Spagna vede quadruplicare gli arrivi dal Marocco (ancora pochi in termini assoluti ma segno chiaro di tendenza) e si va delineando una nuova rotta diretta via Mar Nero tra Turchia e Romania. Chiusa una via, continuano a riaprirsene altre in un gioco feroce di cui i trafficanti, decisi a difendere il volume d’affari, sono i maggiori player e i migranti le eterne vittime. La battaglia sulle Ong era dunque un cerotto sopra una diga crepata. Dall’altro lato della diga c’è un’intera umanità dolente che non potrà essere fermata a lungo in mezzo al mare o nel deserto, qualsiasi strategia si adotti: perché fugge da morte sicura verso una morte soltanto probabile.
Testimoni oculari raccontano che Al Sisi, durante la famosa visita italiana al Cairo del 3 febbraio 2016 (giorno in cui fu ritrovato il corpo di Giulio Regeni), si permise con la delegazione dell’allora ministra Guidi toni sprezzanti al di là di qualsiasi galateo, rammentandoci la possibilità di scaricare sulle nostre coste uno tsunami di centinaia di migliaia di disperati solo allentando un po’ la guardia. Desertificazione e siccità sono del resto più forti di qualsiasi milizia. La carestia, solo in Sud Sudan, Corno d’Africa e nel bacino del lago Ciad, ha spinto alla fame trenta milioni di persone; e solo in Somalia, nel 2011, ha causato 260 mila morti, in maggioranza bambini.
In un mondo globalizzato pensare di mettere sotto vetro questo magma è ben peggio di un’illusione sovranista: è demenza politica. Ma la vera risposta sta in Africa, non nel Mediterraneo. Tutti lo sanno, ma è difficile e rischioso dirlo chiaramente. Comincia a dirlo Macron. Lo ha detto al nostro Federico Fubini il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. La soluzione è internazionale e può richiedere anche un impegno militare: quando pensiamo a campi Onu in Libia, è difficile prescindere da una forza di deterrenza che li protegga. Sono l’Europa e più ancora le Nazioni Unite a dover rispondere presto (davvero presto) alla grande questione umanitaria aperta dalla detenzione dei migranti: addebitarla a Minniti, come fanno la sinistra radicale ed esponenti anche illustri del mondo del volontariato, sembra davvero un errore di bersaglio.
A lungo termine, tuttavia, anche i campi Onu andranno superati. L’ultima illusione sarebbe recintarvi un continente in fuga. Toccherà all’Europa, quando e se avrà un orizzonte geopolitico e un esercito comuni, riportare in Africa maestri e ingegneri, medici e soldati. Collaborando con quei pochi Paesi africani dove un’entità statuale esiste davvero e smettendo di buttare soldi nelle tasche di qualche tirannello (l’ultimo della serie, Issoufou in Niger) perché ci faccia da buttafuori vessando la propria gente. Il percorso sconfina nell’utopia. Ma la storia sa sorprenderci, talvolta: era utopia, cent’anni fa, anche l’idea che Germania e Francia smettessero ciclicamente di spararsi addosso. Serve visione, un nation rebuilding che insegni il futuro a milioni di giovani africani. Dopo il colonialismo, una decolonizzazione vile e piena di sensi di colpa e il feroce neocolonialismo economico delle multinazionali, forse il XXI secolo dovrebbe inventarsi il «colonialismo solidale». Non per bontà, ci mancherebbe. Ma perché aiutando loro, aiuteremmo parecchio noi stessi.
La Stampa 7.9.17
Vincono le pressioni internazionali
La Libia chiude i lager per migranti
Sono 7 i centri di detenzione che verranno smantellati Medici senza frontiere: profughi denutriti e vessati
di Francesco Grignetti
Sotto la pressione della comunità internazionale, delle agenzie Onu e dell’opinione pubblica di tutto il mondo, il governo libico riconosce che alcuni tra i centri di detenzione per immigrati clandestini sono sotto la soglia della vergogna e quindi annuncia la chiusura di 7 di questi centri. La decisione porta la firma di Mohammed Besher, responsabile dell’Agenzia per il contrasto all’immigrazione illegale.
I centri di detenzione da smantellare - veri e propri lager, come riportato da innumerevoli reportage giornalistici e da dossier di Ong - si trovano a Tripoli e nei centri minori di Sorman, al-Qalaa e al-Khums.
L’Agenzia guidata da Mohammed Besher ha spiegato che i centri in questione saranno chiusi perché si trovano in aree residenziali dove i residenti protestano per la loro presenza, ma soprattutto perchè allestiti in modo disordinato e «non rispettosi dei diritti umani». Le costruzioni stesse non seguivano lo standard legale, nati come fattorie o grandi magazzini erano stati trasformati in chissà quale periodo in prigioni. Non sono nemmeno di proprietà dello Stato libico, ma di privati (che evidentemente speculano su quest’uso improprio).
Hanno pesato le pressioni internazionali, nella decisione. L’ultima denuncia era arrivata venerdì scorso da parte di Medici senza frontiere. I suoi medici dal 2016 assistono i migranti detenuti, ma non ce la fanno più a vedere violenza, fame, ferite malcurate, razzismo. «I detenuti - ha riferito Sibylle Sang, consulente medico Msf - sono spogliati di qualsiasi dignità umana, soffrono di un cattivo trattamento e non hanno accesso alle cure mediche. Ogni giorno vediamo quanti danni inutili sono causati dalla detenzione di persone in queste condizioni».
I team medici di Msf trattano più di mille detenuti ogni mese per infezioni del tratto respiratorio, diarrea acuta, infestazioni di scabbia e pidocchi, infezioni del tratto urinario. «Molti centri di detenzione sono pericolosamente sovraccarichi. La quantità di spazio per detenuto è così limitata che le persone non sono in grado di allungarsi per la notte, e c’è poca luce naturale o ventilazione. Le carenze alimentari sono tali da causare malnutrizione acuta». Un universo violento e senza legge. Non c’è nemmeno un sistema di registrazione che permette di seguire la storia dei detenuti, dove vengono trasferiti, e per quanto tempo.
«È stata una decisione dovuta alle violazioni registrate da alcune organizzazioni internazionali», ha ammesso il portavoce dell’Agenzia, Milad al-Sa’idi, intervistato da Adnkronos International. «I centri da smantellare erano stati creati in modo caotico e non conformi al rispetto dei diritti umani». Ha ribadito, Sa’idi, che comunque la decisione va incontro anche alle proteste dei cittadini libici in quanto i centri «si trovano in aree residenziali non adatte a ospitare migranti».
I migranti che si trovano in questi centri saranno distribuiti in altri centri. Non manca, però, una certa recriminazione da parte libica, in quanto «ai centri di raccolta arrivano scarsi sostegni dall’estero e quello che fa l’Oim è solo dare sostegno diretto ai migranti». In effetti, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni opera sul versante dei rimpatri: ieri 110 immigrati clandestini sono stati riportati in Guinea, lunedì altri 99 in Burkina Faso.
La Stampa 7.9.17
La tribù bianca spinge Trump contro i Dreamers
I bianchi cristiani sono diventati per la prima volta minoranza negli Usa, e il 48% di loro dice che «le cose sono cambiate così tanto, che mi sento come uno straniero nel mio Paese». Sono dati contenuti negli ultimi studi del Public Religion Research Institute, che spiegano la scelta del presidente Trump di annullare il programma Daca di Obama, e in generale l’ondata anti immigrati che lo ha portato alla Casa Bianca. Secondo il Prri, i cittadini americani che si identificano come bianchi cristiani sono scesi al 43% del totale. Si sentono minacciati, e l’80% degli evangelici bianchi nel 2016 ha votato Donald perché prometteva di proteggerli. Il presidente deve conservare il sostegno di questa base, se vuole essere rieletto nel 2020, anche se in passato si era detto contrario all’espulsione dei «Dreamers», e ora accenna all’ipotesi di rivedere la decisione se il Congresso non passerà una legge per regolare lo status degli illegali portati negli Usa dai genitori quando erano bambini. I democratici invece puntano sul voto ispanico e gli Stati che governano, come New York, minacciano cause per impedire la cancellazione del Daca.
[pao. mas.]
Repubblica 7.9.17
L’intervista.
Il Pulitzer attacca Trump: “Pensa solo alla sua base xenofoba”
Finnegan: “I muri portano al disastro la società americana”
di Antonello Guerrera
William Finnegan, 65 anni, giornalista e scrittore americano È l’autore di “Giorni Selvaggi”, premio Pulitzer nel 2016
MENTRE è in atto una nuova guerra fredda, l’editto di Trump sui “dreamers” conferma che l’America sta diventando un “Cold New World”, un nuovo mondo freddo, sostiene William Finnegan. Così si chiama una vecchia opera dello scrittore e giornalista americano, 65 anni, Premio Pulitzer nel 2016 con il bellissimo romanzo “Giorni Selvaggi” (edito da 66thand2nd) e autore sul New Yorker di numerosi articoli e reportage su immigrazione e razzismo negli Stati Uniti. In “Cold New World - Crescere in un paese più difficile”, Finnegan raccontava ragazzi di quattro comunità difficili americane, tra cui gli alienati teenager di origine messicana della West Coast. Ora, dopo l’annuncio del ministro della Giustizia Jeff Sessions, anche i “dreamers”, (ex) ragazzi senza documenti ma col “sogno americano”, cresceranno in un paese più difficile. «Dopo questa decisione vergognosa», commenta Finnegan che domenica sarà al FestivalLetteratura di Mantova e il giorno dopo al Circolo dei Lettori di Torino, «gli Stati Uniti diventeranno sempre meno ospitali, in balia di Trump e della sua amministrazione arcaica, nazionalista e spietata, rigettando nell’illegalità centinaia di migliaia di persone».
Perché Trump ha fatto questa scelta, Finnegan?
«È una mossa simbolica, come quasi tutti i suoi vuoti proclami, per dare un segnale alla sua base xenofoba, per riaccendere il senso di “minaccia culturale” nel Paese. Perché in concreto è una decisione catastrofica, anche economicamente ».
Sessions dice che i Dreamers rubano posti di lavoro agli americani.
«Ma non è vero. Oggi la disoccupazione in America è molto bassa e il vuoto che lascerebbero i dreamers non sarà mai colmato perché molto spesso sono impieghi stagionali o non qualificati che moltissimi americani non farebbero mai. Non a caso tante aziende sono contro questo provvedimento. Senza immigrazione, l’economia Usa crollerebbe ».
Al di là dei numeri, quali saranno le conseguenze sociali?
«Un disastro. È questo il vero punto della questione. Rigettare nell’illegalità i “dreamers” avrà un impatto sociale e psicologico gravissimo su di loro e su molti altri giovani tuttora irregolari. Il “sogno” si è spezzato, molti non si sentiranno più cittadini, non potranno più studiare e dunque stare lontani dai guai della strada. Sessions ieri in conferenza stampa li ha definiti più volte “illegal aliens”, mica persone. Ciò dimostra quanto sia crudele e inumano. Stanno giocando col fuoco: ci potrebbero essere conseguenze esplosive nella società. Obama ha ordinato più espulsioni di tutti contro gli immigrati irregolari ma si valutava caso per caso, non si sparava nel mucchio come ora».
Cosa succederà adesso?
«Il partito repubblicano di Trump è spaccato ma la corrente più “soft” e pro business sull’immigrazione, vedi John McCain, quasi sicuramente non riuscirà ad allearsi con i democratici per salvare queste 800mila persone approvando una legge al Congresso. Temono la reazione della parte più conservatrice. Insomma, tra sei mesi, una marea di persone sarà nei guai e a rischio espulsione, nonostante la maggioranza del paese sia con loro. Ma del resto, cosa ci si può aspettare da un codardo come Trump, che grazia lo sceriffo razzista Joe Arpaio mentre per scaricare i dreamers manda in tv Sessions, senza metterci neanche la faccia?».
Corriere 7.9.17
Massacri in Birmania Suu Kyi: solo falsità «Toglietele il Nobel»
Su Twitter attacchi all’ex dissidente diventata leader
L’Onu e Malala: fermate le violenze contro i Rohingya
di Alessandra Muglia
La Signora ha rotto il silenzio. Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace e paladina dei diritti umani che ha guidato la transizione (ancora incompleta) della Birmania da dittatura militare a democrazia, ha bollato come «fake news» le notizie sulla feroce repressione della minoranza musulmana Rohingya in corso nel suo Paese a maggioranza buddhista. Un milione di persone di origine bengalese da anni senza cittadinanza, per lo più confinate in campi-ghetto, senza accesso a lavoro, scuola e sanità, nella regione più povera, il Rakhine.
«C’è un enorme iceberg di disinformazione creato per generare problemi tra le diverse comunità e promuovere gli interessi dei terroristi» ha dichiarato la leader birmana, «stanata» dal presidente turco, che l’ha contattata al telefono per sollecitare una soluzione alla crisi umanitaria da lui definita più volte «genocidio». Un’accusa respinta: «Il governo sta difendendo i diritti di tutti gli abitanti» ha reagito Aung San Suu Kyi in questo suo primo intervento dall’inizio della nuova ondata di repressione nella regione del Rakhine. Gli attacchi sferrati lo scorso 25 agosto contro caserme della polizia da parte di miliziani islamici hanno innescato la rappresaglia dei militari birmani e un fiume di rifugiati. Secondo l’Onu, che parla di «pulizia etnica», in oltre 123 mila avrebbero cercato rifugio in Bangladesh soltanto nelle ultime due settimane. Il governo si ostina a ripetere che sta combattendo i terroristi nel Rakhine, una regione sigillata, off limits per giornalisti e operatori umanitari. Ma Human Rights Watch ha diffuso foto satellitari, che mostrano interi villaggi bruciati, e denunce di abusi e rastrellamenti. I generali puntano il dito sui miliziani islamici ma diversi media hanno raccolto testimonianze di civili riusciti ad attraversare il fiume Naf, al confine fra Bangladesh e Birmania, in fuga dalle pallottole e dagli abusi dell’esercito.
La Signora ha rotto il silenzio ma resta «negazionista» sull’emergenza umanitaria. Con Erdogan ha reagito alle foto false dei massacri twittate dal vice premier turco (poi cancellate) ma resta silente sulle evidenze dei massacri esibite da fonti attendibili. E non spende una parola in risposta agli appelli rivolti in questi giorni dal segretario generale dell’Onu António Guterres («Il governo cambi la sua politica e riconosca diritti alla minoranza musulmana») o dal premio Nobel per la pace Malala («basta tacere sulla pulizia etnica»).
Cresce la preoccupazione internazionale per l’escalation di violenza e il deteriorarsi della situazione, con migliaia di Rohingya intrappolati al confine, e cresce il fronte di chi chiede che Suu Kyi restituisca il Nobel. Su Twitter imperversa l’hashtag #TakeNobelBackFromSuuKyi . È indegna di questo premio, tuona sul Guardian George Monbiot. Se lei non può controllare le forze armate, c’è un potere di cui dispone in abbondanza e che non usa: la propria voce.
Corriere 7.9.17
Modì, il verdetto del super esperto «Almeno tre dei dipinti sono falsi»
dal nostro inviato Andrea Pasqualetto
Il caso delle 21 opere sequestrate a Genova. Lo scontro internazionale tra i big dell’arte
GENOVA Tre esperti d’arte che accusano, due che si difendono. E, in mezzo, le opere attribuite ad Amedeo Modigliani e finite sotto sequestro perché sospettate di falso. L’indagine della Procura di Genova sulla mostra di Palazzo Ducale, chiusa il 16 luglio scorso e funestata dalla clamorosa scelta di mettere i sigilli a 21 delle 70 opere in esposizione, si profila sempre più come un intrigo internazionale. Sotto inchiesta sono finiti Joseph Gutmann, mercante d’arte ungherese e prestatore di 11 dei quadri sequestrati, Massimo Vitta Zelman, presidente della società organizzatrice Mondo Mostre Skira, e Rudy Chiappini, curatore della mostra di Genova.
A sostenere l’accusa di falso un paio agguerritissimi esperti dell’opera di Modigliani come il francese Marc Restellini, collaboratore per molti anni dell’Istituto Wildenstein di Parigi e direttore della Pinacoteca della capitale transalpina, e il collezionista e studioso Carlo Pepi, fondatore e già direttore della Casa Natale Amedeo Modigliani e membro degli «Archivi legali Amedeo Modigliani». Con loro, incaricata dagli investigatori del Ministero dei Beni culturali a dare un parere sulle opere sospette, la storica dell’arte Maristella Margozzi che lavora al Mibact. Giudizio decisivo, il suo, quando è stato disposto il sequestro.
Spunta il documento finora cardine dell’inchiesta, cioè la relazione Margozzi che raccoglie i pareri del terzetto, dipinto per dipinto. In sintesi, tre sono le opere bollate da tutti come false: la «Cariatide Rossa», che arriva a Genova da un collezionista privato di San Francisco; il «Nudo disteso», prestato da un collezionista svizzero; e il «Ritratto di Maria» di una collezionista privata americana, transitato attraverso Global art exhibitions. «In questi casi la contraffazione è abbastanza evidente — conclude l’esperta —. Le opere sembrano copiate». Per altri tre dipinti, che vengono attribuiti alla collaborazione fra Modigliani e l’amico e pittore Moise Kisling, risulta invece falsa la «firma» dell’artista livornese. «Concordo pienamente con Pepi e Restellini: nessun intervento di Modì». Poi ce ne sono 9 «fortemente dubbie». Fra le «indiziate» pure il «Ritratto di Hanka Sborowska», sottoposto a tutela statale con un vincolo che risale al 1972. «Tuttavia, nutro qualche perplessità anche su questo», sospetta Margozzi. Sui restanti dipinti, i pareri non sono univoci e dunque permangono dei dubbi. Una cosa è però certa: se davvero si tratta di falsi, significa che molte mostre su Modigliani dove erano stati esposti sono da considerarsi truffaldine: Pisa, Torino, Roma, Milano, Venezia, Seul eccetera. Confermando così l’amara coche uno dei più grandi e amati pittori del Novecento è anche il più falsificato. In gioco ci sono valori immensi, che potrebbero lievitare in vista del 2020, centenario della sua morte. Sarà un anno di eventi e denari, ragione per la quale sull’indagine sta gravando una certa tensione. Dietro le quinte, aleggia il fantasma di Christian Gregori Parisot, ex presidente degli Archivi Modigliani, collaboratore della figlia dell’artista Jeanne. Un vecchio «maestro» di Restellini che ha conosciuto nel 2013 l’onta delle manette per una vicenda di falsi. I due, da qualche anno, hanno incrociato le spade.
«Inizialmente Gutmann si serviva di Parisot per legittimare opere di Modigliani — ha dichiarato Restellini agli inquirenti —. Quando è stato arrestato, Guttmann l’ha rimpiazzato con Rudy Chiappini». Sentito da chi indaga, Chiappini ha respinto le accuse: «Tutti i quadri esposti a Genova sono stati cercati da noi perché ne conoscevamo la storia. Ricordo che Modigliani dipingeva spesso due quadri aventi lo stesso soggetto con particolari dissimili. Non si tratta di falsi ma di opere distinte». Nel frattempo il procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio ha disposto una consulenza incaricando altri tre esperti, che concluderanno il lavoro più avanti.
Oggi è previsto un primo confronto davanti al Tribunale del Riesame di Genova, al quale gli avvocati Massimo Boggio e Cesare Dal Maso hanno chiesto il dissequestro della maggior parte delle opere d’arte. L’impressione è che la guerra su Modì sia solo ai primi colpi di cannone.
La Stampa 7.9.17
Ti disprezzo Obeida, vile mandante
In 152 giorni tu hai scavato l’abisso
Io, tenuto prigioniero per cinque mesi da un uomo che non ho mai visto Mio malgrado sono legato a lui da qualcosa che non è mai irreale: il Dolore
di Domenico Quirico
Avrei voluto raccontarvi la storia di un uomo, un libanese di nome Obeida al-Hujeiri, figlio di Moustafa detto Abou Takieh: ma non la so. Come per tutti il suo passato è fatto di parole. Come tutti ha una storia che, adesso, soprattutto adesso, forse non ama, una storia che divide con innumerevoli sconosciuti, le cui sofferenze o gesti di odio si susseguono senza mai scomparire del tutto come in un gioco di specchi in cui la stessa immagine si ripete all’infinito. Ora che è rinchiuso in una prigione libanese e uomini duri, duri come lui quando interrogava, gli chiedono ragione di almeno venti delitti, forse tenterà di mutilarla, di truccarla quella storia, di trascinarla nel fango e arricchirla di bugie da quattro soldi.
Per salvarsi, uscirne: forse. Ma una cosa sembra che l’abbia confessata: ed è la ragione che lega la sua storia alla mia, dove mi ha fatto entrare a forza, di colpo, una sera di aprile di quattro anni fa.
Perché Obeida al-Hujeiri, figlio di una grande famiglia feudale libanese, padrone di terre di villaggi e di uomini, fiancheggiatore della Armata siriana libera e poi della lercia jihad di Al-Qaeda, e di Isis, è l’uomo che ha organizzato quattro anni fa il mio rapimento.
Più si avanza nel tempo più ci si accorge che ci si crede liberati da tutto e in realtà non lo si è da niente. Una parte dei miei carcerieri di allora sono morti, ho visto le foto terribili dei cadaveri, i volti e i corpi devastati: mi è rimasto lo strano rimpianto di non aver potuto parlare con loro, non più da vittima a prigioniero, di porre loro domande e non il contrario. Ma quelli erano i manovali, gli operai del delitto.
Obeida no! Non vorrei guardarlo negli occhi e misurare l’abisso che quei 152 giorni di prigionia hanno scavato tra noi. Perché è lui il colpevole di avermi portato, per cinque mesi, all’estremo delle notti, dove non c’è più nessuno, nient’altro che i minuti che passano. Ciascuno dei quali fa finta di tenerci compagnia per poi fuggire, una diserzione dopo l’altra, un tradimento dopo l’altro. Ci lega, lui lo ha voluto, qualcosa che purtroppo non è mai irreale, il Dolore, che è una sfida a una finzione universale, la sola sensazione provvista di un contenuto, se non di un senso.
Allora chi sei Obeida? Perché in un giorno di aprile, mentre la ribellione siriana sembrava ancora piena di imprese rischiose e riuscite, hai fissato il tuo sguardo su di me, hai pensato che avrei potuto essere utile per le tue trame spietate, i tuoi affari loschi, i tuoi commerci falsamente rivoluzionari? Chi per primo ti ha sussurrato il mio nome, e le possibilità criminali che ti offriva il mio strano mestiere di andare dove non si dovrebbe andare, a fare domande, a guardare? Ah! delle cose su di te le so, me le hanno raccontate: che il tuo dominio erano le terre di confine tra Siria e Libano, il crinale della montagna aperto sul caos, la regione del Qalamoun dove la rivolta contro Bashar, il ritiro dell’esercito sbandato dai ribelli, stagnava un vuoto pieno di trafficanti idealisti e banditi, fermento delle cose crudeli che sembrano il fondo della storia di questa parte del mondo.
Quello era il tuo mondo, Obeida, di capobanda, feudatario, politicante libanese, in contatto con i burattinai sunniti in Arabia Saudita e Qatar. Gli affari politici e non, sequestri, incursioni, armi, li facevi con l’Armata siriana libera che controllava nel 2013 oltre confine Kara e Yabrud e Al-Qusayr. La rivoluzione già si annacquava nel sudicio del malaffare, affondava alla svelta e senza rimpianti nel trogloditismo fanatico. Al-Nusra, il nome siriano di Al-Qaeda, che cresceva di forza, era il tuo nuovo socio, e complice, che predicava che dobbiamo metterci sotto il bastone degli organizzatori del mondo, dei pedanti della barbarie. Anche questo mi lasci, il rimpianto di non essermi sbagliato come tutti gli altri, la rabbia di aver visto giusto in questa deriva. Questa è la miseria segreta di chi è disingannato. Ersal era la tua città, libanese, ma occupata dai jihadisti che tu avevi guidato.
Sono passato da Ersal, in quell’aprile, per traversare il confine su sentieri di montagna sfiorando frutteti di meli in fiore. Terra di nessuno, opaca, violenta, zeppa di sudici misteri, uomini armati e profughi con l’aria di sospetto e di tranquillo destino. E tu già tenevi in mano il mio destino, guidavi, senza che io lo sapessi, i miei passi verso l’agguato, ad Al-Qusayr dove avrei trovato i manovali dell’Armata siriana libera che tu avevi scelto e assoldato.
Oggi che siamo separati, in me sussistono pezzi interi della tua opera interrotta. Regna ancora su quello che sopravvive nel mio essere, del tuo tenace lavoro. Delle zone intere restano sotto la tua influenza e al tuo richiamo si destano. Ti disprezzo Obeida, se davvero sei tu il mio sequestratore. Il disprezzo è più che l’odio. Colui che ispira odio resta umano, l’odio ha le sue regole, i suoi motivi, le sue armonie. Talvolta crea, determina, sprona. Il disprezzo no. Si disprezzano solo i vili.
il manifesto 7.9.17
La linea di montaggio delle torture nell’Egitto dei «casi isolati»
Il Cairo. Il rapporto di Human Rights Watch: «Crimini contro l’umanità. Le autorità egiziane hanno ricostituito e ampliato gli strumenti repressivi dell’epoca Mubarak. Al-Sisi ha dato ai servizi luce verde». Fonti egiziane: a settembre al-Sisi incontrerà Gentiloni all’Onu
di Chiara Cruciati
Il primo ministro italiano Paolo Gentiloni incontrerà il presidente egiziano al-Sisi a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, che si aprirà al Palazzo di Vetro di New York il 12 settembre.
Lo rivela l’agenzia indipendente egiziana Mada Masr (la stessa che aveva preannunciato il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo entro settembre), citando fonti diplomatiche egiziane. Il meeting sarebbe già stato organizzato dai due governi.
Gentiloni vedrà AL-SISI negli stessi giorni in cui Cantini si insedierà nella palazzina di Garden City, nella capitale egiziana, e Hesham Badr nella sede diplomatica egiziana nel parco di Villa Ada a Roma. Tutto normale, come in questi giorni sottolineano svariati parlamentari egiziani.
Lo stesso portavoce del ministero degli esteri, Ahmed Abu Zeid, all’indomani dell’annuncio della Farnesina del 14 agosto, aveva sintetizzato così quanto appena accaduto: «Ora le relazioni sono tornate alla normalità».
Non che il richiamo dell’ambasciatore Massari le avesse stravolte. Ma ora i rapporti sono stati ufficialmente ricuciti nonostante un bilancio fallimentare sul piano della cooperazione da parte della procura generale del Cairo.
Illuminanti le dichiarazioni raccolte da Mada Masr: «Abbiamo ricevuto l’esplicita promessa politica che i diversi sospetti implicati nel caso saranno perseguiti con integrità entro un periodo di tempo che non sarà particolarmente breve», dice un funzionario italiano anonimo all’agenzia (tra i 405 siti offline da maggio in Egitto per ordine del governo, tra l’altro).
Promesse politiche, tempi lunghi: dice più un anonimo funzionario che l’audizione di due giorni fa del ministro degli esteri Alfano. A cui andrebbe consegnato l’ultimo rapporto di Human Rights Watch per ricordargli quanto ripetuto da anni: l’Egitto non è un paese sicuro. In primis per gli egiziani, dimenticati tra miseria dilagante e repressione strutturale, assenza di diritti politici e di informazione libera.
Il rapporto di 63 pagine uscito ieri, «Torture e sicurezza nazionale nell’Egitto di al-Sisi», raccoglie le testimonianze di 19 ex detenuti nelle carceri egiziane tra il 2014 e il 2016 e dei familiari di un ventesimo, oltre ai rapporti di ong locali, tra cui Ecrf (consulente della famiglia Regeni) che identifica almeno 30 morti di tortura in caserme e centri di detenzione tra agosto 2013 e dicembre 2015 e altre 14 vittime nel 2016.
«La polizia e i funzionari della Sicurezza Nazionale usano regolarmente la tortura – si legge nel rapporto – durante i loro interrogatori per costringere presunti dissidenti a confessare o divulgare informazioni. Le autorità egiziane hanno ricostituito e ampliato gli strumenti repressivi che caratterizzarono l’epoca Mubarak». Fino a creare «una catena di montaggio» che coinvolge i vari dipartimenti della sicurezza.
Seguono i racconti degli ex prigionieri. Come quello di Khaled, 29 anni: «Mi hanno dato scariche elettriche sulla testa, i testicoli e le ascelle. Mi tiravano acqua bollente. Ogni volta che perdevo conoscenza, me la lanciavano addosso».
Per sei giorni, fino a quando ha accettato di leggere, ripreso da una videocamera, una confessione preparata nella quale affermava di aver dato fuoco ad auto della polizia su ordine della Fratellanza Musulmana.
La conclusione è secca: arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture sistematiche sono una violazione grave del diritto umanitario internazionale e «costituiscono un crimine contro l’umanità».
L’associazione si rivolge allo stesso al-Sisi chiedendo la nomina di un procuratore speciale presso il ministero della giustizia che si occupi di indagare le denunce e perseguire i responsabili.
Ma, consapevole che una tale macchina repressiva non è frutto di «mele marce», Hrw fa appello alle Nazioni Unite e agli Stati membri perché «indaghino e, nel caso, perseguano nelle proprie corti i funzionari dei servizi egiziani che commettono torture».
«Il presidente al-Sisi ha dato luce verde a polizia e servizi ad usare la tortura ogni volta che vogliono», è il commento del direttore di Hrw Medio Oriente, Joe Stork. Quel presidente che lo statunitense Trump ha definito «un uomo fantastico» e l’ex premier italiano Renzi «un grande leader, l’unica speranza per l’Egitto».
Lo disse nel luglio 2015, a due anni esatti dal golpe e dopo 24 mesi di denunce di ong egiziane e resoconti su quanto accadeva nel paese, raccontati con costanza anche dal nostro giornale. Nessun caso isolato, né per Giulio né per Khaled.
La Stampa 7.9.17
Italia-Cina La via del cinema
Accordo tra Pechino e il sindaco di Venezia Coproduzioni e un’Accademia a San Servolo
di Michela Tamburrino
Seicento milioni di euro tanto per incominciare, un’isola recuperata e progetti faraonici da realizzare. Sulle vie della seta ecco che i cinesi inaugurano le vie del cinema che chissà quante altre strade percorribili possono spalancare. Dopo aver fatto shopping pesante nel Principato di Monaco, ora i nuovi imprenditori dell’audiovisivo e new media guardano a una città che storicamente è nel loro cuore, fin dai tempi di Marco Polo. E non solo per ragioni nostalgiche. Il cinema potrebbe essere un ottimo cavallo di Troia per più profondi investimenti. Ecco allora che il gruppo Everbright Limited, di proprietà del governo con il core business nell’industria ma forte di una linea di lavoro che guarda all’arte, assieme alla Shanghai Film Art Academy, ha firmato un accordo col sindaco di Venezia finalizzato a promuovere la cooperazione nel settore della cinematografia e degli audiovisivi a partire dalla formazione di giovani talenti.
Il progetto
Scrittori, registi, produttori che saranno scelti ecumenicamente, metà cinesi e metà italiani. L’Academy cinese, che ha già un accordo con New York e con la casa di produzione di Steven Spielberg, si sbilancia sul quinquennio e progetta di sistemare uffici e zone logistiche nell’isola di San Servolo messa a disposizione da Venezia, che lì ha anche la sede della Venice International University. Dunque la realizzazione di Exclusive Master, l’organizzazione della settimana del cinema italiano a Shanghai e la settimana del cinema cinese a Venezia, la promozione di coproduzioni italo-cinesi. Il facilitatore e l’ispiratore di tutta l’operazione è stato Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente e docente presso l’università di Tongji a Shanghai e di Tsinghua a Pechino.
Questo è quanto scritto nero su bianco ed è quanto il presidente della Repubblica Popolare cinese Xi Jinping ha illustrato a Pechino, presente la comunità internazionale che ha applaudito «One Belt One Road». Ne è soddisfattissimo il professor Yu Kang Chun, il ragazzo d’oro della produzione cinese che è stato insignito come Best producer non a caso al Festival della tv di Montecarlo e che ha un filo diretto con Hollywood. «Finanziamo questo accordo perché crediamo fortemente nella collaborazione tra i due Paesi. Con noi collabora anche il fondo Alibaba (l’enorme piattaforma di commercio on line, l’Amazon d’Oriente fondato da Jack Ma) con il 25% di capitale nell’Academy. Per noi Venezia è il mito, ogni cinese sogna di visitare almeno una volta nella vita questa città incredibile. Marco Polo inventò l’internazionalizzazione della Cina e l’amicizia non è mai venuta meno. Il sindaco Brugnaro ci ha aperto i cantieri di Porto Marghera, un’immensa area industriale poco sfruttata, perché lì si possano insediare gli studios. Un canale per altre forme di collaborazione, noi lo vediamo come il Porto del Nord, un hub che sia una porta per il commercio. Magari intervenendo sulla ferrovia per rendere velocissimo il collegamento Venezia-Milano. E speriamo che il polo d’attrazione stimoli gli investitori italiani e spingersi in Cina».
Il made in Italy, soprattutto quello d’antan ha sui cinesi una presa che va oltre l’immaginabile. «Moda, vino, cibo e film romantici - s’infervora Song Jin distributore e produttore proprietario della Lixingzhishang Film che si porta a casa circa 200 milioni di dollari l’anno - noi cerchiamo l’ottimismo e per le vostre commedie ci sarebbe un mercato enorme». Lo dicono off record ma per loro il cinema italiano è un’industria assistita che non viene promossa a dovere. Anche i documentari sull’Italia vanno benissimo. Qualche mese fa quello sulla Galleria degli Uffizi è stato programmato al cinema: tutto esaurito.
I preferiti
Ma chi vi piace tra gli autori italiani? E tra gli artisti? I nomi non li conoscono ma grazie al cellulare fanno vedere i volti di coloro che hanno sistemato in archivio tra i preferiti: Sergio Castellitto, Federico Moccia e qui si sdilinquiscono in complimenti, naturalmente l’inossidabile Monica Bellucci e fa piacere pensare che considerano Giuseppe De Santis tra i padri nobili del neorealismo, il più grande rivoluzionario della storia della cinematografia tout court. Che genere di film prediligete? «Quelli che fanno i soldi - arrossisce l’interprete cino-inglese, perché la delegazione parla esclusivamente il mandarino -. Ma anche i film d’arte e la musica classica. L’opera italiana è la nostra preferita». Per esempio? O sole mio.
Tra loro c’è la 38enne Dong Zhou, presidente dell’Asia New Media Film che si occupa di distribuire in rete i maggiori film mondiali. Zhou viene dalla moda e assicura che «la strada del futuro è il cinema on line».