La Stampa TuttoScienze 6.9.17
Le nostre vite in balìa degli algoritmi
È ora di inventare nuove idee e nuove leggi
Le macchine ci osservano, ma questo rapporto senza precedenti non è privo di pericoli
di Nello Cristianini
A
13 anni passavo molto tempo al computer e questo non sarebbe strano se
non fosse stato il 1981. Il massimo che potevo fare con il mio ZX80 era
scrivere programmi di poche righe, giochi semplici o piccole formule
matematiche, che poi si perdevano quando lo spegnevo.
Giunto al
ginnasio, un vecchio salesiano del convento vicino mi dava ripetizioni
di greco. Si chiamava don Antonio e un giorno venne a sapere del mio
strano passatempo e mi chiese di poter vedere un computer, di cui aveva
tanto sentito parlare alla televisione. Così organizzammo una visita a
casa mia e, non appena vide la piccola scatolina bianca con la tastiera
blu, collegata a un televisore in bianco e nero, la guardò con aria
sospettosa.
Chiedigli: «Quando è nato Alessandro Magno?». Cercai
di spiegare che non era quello il modo di usare un computer, ma lui
insistette e mi fece scrivere la domanda per esteso. La risposta fu
inevitabile: «Syntax error». Deluso, don Antonio fece per andarsene,
quando gli proposi: «Se aspetta cinque minuti, posso programmarlo». Era
una cosa semplice. A qualsiasi domanda scritta rispondeva sempre: «356
avanti Cristo».
La reazione non fu quella che mi aspettavo. Vista
la risposta corretta, disse quasi arrabbiato: «Per forza adesso lo sa,
glielo hai detto tu. Lo saprebbe anche un bambino, adesso». Mentre
spiegavo che i computer non possono sapere cose che nessuno gli ha
detto, il prete si voltò concludendo: «Queste cose non saranno mai
meglio di noi».
Anni dopo, quando vidi Siri per la prima volta, fu
questa la mia prima domanda e la risposta giunse puntuale: «Alessandro
Magno è nato a Pellas nel 356 a.C.». Don Antonio era morto da decenni e
io ero diventato un ricercatore nel campo dell’Intelligenza Artificiale,
avevo lavorato in California e in Inghilterra, avevo scritto libri
importanti e capivo abbastanza bene come Siri avesse risposto a quella
domanda. Mi venne voglia di andare indietro nel tempo, anche per poco,
per spiegare a don Antonio quella meraviglia. Ma, se anche fosse stato
possibile, come sarebbe andata quella conversazione? Pensiamoci un
attimo.
«Tra circa tre anni qualcuno inventerà Windows che
consentirà a tutti di usare i computer; tra 13 anni tutti avranno un
computer e si inventerà un modo semplice di collegarli alle linee
telefoniche per scambiarsi informazioni; tra 15 anni migliaia di persone
collaboreranno per creare un’enciclopedia alla quale si può accedere
solo mediante questa rete di computer. E tra 25 anni tutto questo si
farà mediante computer potentissimi ed economici, contenuti nel
telefono, solo che i telefoni saranno collegati alla rete via radio e li
terremo in tasca. E tra 30 anni - usando metodi di statistica - dei
supercomputer riusciranno a comprendere le domande ed estrarre le
risposte appropriate. In particolare, la data di nascita di Alessandro
Magno, che qualcuno avrà già scritto nell’enciclopedia online».
Chi
mi avrebbe creduto, nel 1981? Un computer nel telefono che legge
un’enciclopedia accessibile via telematica e che comprende il
linguaggio? È stata un’evoluzione rapidissima, in una direzione
interamente improbabile. Avendo preso parte alla ricerca in «machine
learning» e Intelligenza Artificiale per oltre 20 anni, posso garantire
che tutti sono stati sorpresi dall’accelerazione degli ultimi anni.
La
chiave dell’Intelligenza Artificiale moderna è proprio nel «machine
learning», la mia disciplina, che crea algoritmi in grado di imparare
dagli esempi. Ma il vero ingrediente essenziale sono gli esempi stessi, i
dati. Le macchine intelligenti di oggi possono imparare a tradurre, a
trascrivere, a riconoscere i volti, a raccomandare i libri o a bloccare
email moleste, se hanno accesso a milioni di esempi. E qui la storia
dell’«AI» - l’«Artificial Intelligence» - si combina con la storia di
Internet e della convergenza che ha consentito tra servizi bancari,
telefonici, postali e di intrattenimento. È mediante questa
infrastruttura che le macchine intelligenti possono osservarci e
imparare a comportarsi: quali raccomandazioni sono appropriate, quali
lettere sono sgradite, quali pagamenti sono improbabili e quindi le
possibili frodi e avanti così.
E qui nascono anche i problemi
legati a questo spettacolare successo: il combustibile che consente agli
algoritmi intelligenti di funzionare è rappresentato da masse enormi di
dati e spesso questi sono dati personali. Solo lavorando a stretto
contatto con noi, e osservandoci continuamente, queste macchine possono
imparare. Questo è possibile perché i servizi online (motori di ricerca,
reti sociali, negozi) si propongono come mediatori di tutte le nostre
interazioni - osservandole da vicino - e ricordano tutto.
Questo
fatto apre la porta a un nuovo tipo di problemi, che abbiamo
incominciato a vedere. Da un lato ha reso possibile la sorveglianza di
massa, come abbiamo scoperto con il caso Snowden, su una scala che
sarebbe stata impensabile prima. E dall’altro ha creato opportunità
commerciali: lo scorso anno la compagnia assicuratrice Admiral ha
proposto di usare quello che scriviamo su Facebook per inferire aspetti
della nostra personalità e poi calcolare se abbiamo diritto a uno
sconto; la compagnia Cambridge Analytica ha usato le stesse informazioni
per scegliere i più efficaci messaggi elettorali per convincere ciascun
utente; notizie false sono state diffuse durante le elezioni americane
da algoritmi che possono capire se una storia diventerà popolare, ma non
se è vera; sempre negli Stati Uniti degli algoritmi vengono usati per
decidere quali detenuti possono essere rilasciati, per esempio con il
sistema «Compas» usato in Wisconsin. Tutto grazie al «machine learning» e
ai dati.
Questo è avvenuto così rapidamente che non abbiamo fatto
in tempo a maturare dei concetti etici, culturali e legali. Ci sono
molte domande a cui dovremmo rispondere prima di poter usare con fiducia
queste nuove tecnologie. Che cosa facciamo se un algoritmo ci nega la
libertà su cauzione, o un mutuo, o l’ammissione a una scuola? E che cosa
facciamo se l’opinione pubblica viene influenzata da algoritmi che
decidono che notizie leggiamo?
La risposta non è chiara, ma dovrà
venire da tutti, non solo dagli ingegneri, ed è giunto il momento di
coinvolgere studiosi di ogni disciplina. Qui, almeno, don Antonio
avrebbe saputo dire la sua, da buon classicista: qualunque soluzione
troviamo dovrà mettere l’Uomo al centro di questi nuovi meccanismi.