Corriere 3.9.17
Chi sei, se non hai un’anima? La parola creativa di Ceronetti
Un «poeta della prosa» mette a nudo la vacuità del nostro tempo
di Mario Andrea Rigoni
L’
ultima pubblicazione di Guido Ceronetti non è propriamente un libro, ma
piuttosto una composita rapsodia di versi suoi, di traduzioni e di
citazioni incentrata sulla più essenziale, torturante, cieca e delusa
delle attese, personali e universali: l’attesa del Messia, del Messia
che non verrà e tuttavia resta, in quanto tale, l’unica fonte di vita e
di consolazione in un mondo degradato e sconvolto come quello di oggi
ma, in realtà, di sempre: donde la varietà delle espressioni che il
messianismo religioso o laico assume, si tratti dei testi sacri o di
Dante, di Marx o di Kafka, di Dostoevskij o di Beckett, come documenta
il volume Messia (Adelphi).
Ho sentito parlare per la prima volta
di Ceronetti da Elémire Zolla nel 1969, quando presentò insieme con
Carlo Diano, nella sede della Farmitalia a Padova, i primi numeri della
rivista «Conoscenza religiosa», alla quale anch’io avrei collaborato.
«Conoscenza
religiosa», edita da La Nuova Italia e diretta da Zolla, era una
rivista (diversissima dalle altre in circolazione, tutte variamente
afflitte dal morbo dell’accademia) nella quale un esoterico interesse
religioso e simbolico includeva squisite presenze letterarie: vi si
potevano leggere, di volta in volta, insieme con una conferenza di
Marcel Griaule o un articolo di Marius Schneider, una poesia di Auden o
di Borges, di Djuna Barnes o di Cristina Campo.
In quell’occasione
Zolla elogiò in privato, con espressioni di ammirata sorpresa, un poco
noto scrittore, appunto Ceronetti, di cui, nel quarto numero, si
pubblicava uno scritto intitolato Genesi, religione, luna
(successivamente raccolto in Difesa della luna e altri argomenti di
miseria terrestre , Rusconi 1971): un corrusco manifesto antiumanistico e
antimoderno, che prendeva spunto dall’«amara esplosione di stupidità
pura» rappresentata dal recente allunaggio dell’Apollo 11 per denunciare
l’estinzione definitiva del sacro e ricostituire, al di là di ogni
ortodossia teologica o metafisica, la sconvolgente e tragica scena
dell’apparizione sulla Terra dell’Adamo distruttore, quale Ceronetti
decifrava nei primi capitoli della Genesi e in altri testi biblici.
Benché
avesse già pubblicato traduzioni in versi di Marziale, dei Salmi , di
Catullo e dell’ Ecclesiaste , edite da Einaudi, Ceronetti era allora
proprio agli esordi della sua carriera. Ma in quello scritto vi erano
già in nuce molte delle sue caratteristiche: l’estensione indefinita del
campo di osservazione, dalla Genesi alla cronaca quotidiana; l’unione
di scavo filologico e illuminazione liberatrice; la visione dello
gnostico capovolto, non irretito da alcuna forma di «nero ottimismo» e
persuaso non meno di Leopardi o di Sade dell’enormità ed eternità del
male nel mondo; l’invenzione di un originalissimo tono da profeta,
tramato di lampeggianti metafore e accostamenti inauditi. Nessuna
pedanteria universitaria; nessuna superstizione erudita; nessuna
concessione al luogo comune.
Nel corso degli anni ho scambiato con
Ceronetti solo qualche lettera e qualche cartolina, ho avuto con lui
non più di uno o due fuggevoli incontri, ma non ho mai smesso
completamente di seguirlo e ogni volta che torno ai suoi libri, fra i
quali alcuni capolavori, come la raccolta di aforismi Il silenzio del
corpo (Adelphi), attingo sempre un fremito conoscitivo, una sorpresa
vitale, dato che egli discende, al pari degli scrittori che ama, che
cita e che commenta, da una tradizione non semplicemente filosofica o
letteraria, ma sapienziale .
Se anche non si volesse aderire alla
sua visione e ancora meno ad alcune sue manie, come quelle che Cioran
ventilava con divertita malizia in uno dei suoi Esercizi di ammirazione
(Adelphi), bisognerebbe pur sempre riconoscere e ammirare in Ceronetti
le doti di un superbo creatore di linguaggio — un merito che appartiene a
pochi.
Credo che Ceronetti, come capita spesso a coloro che
ambiscono al nome di poeta, tenga molto ai suoi propri versi, per i
quali sospetto che sarebbe magari capace di dare in cambio tutto il
resto. Ma non avrebbe alcun bisogno di cedere a questo frequente
abbaglio, dal momento che la poesia non conosce distinzione di mezzi ed
egli è già un grande poeta della prosa , anche se non sempre del verso ,
magia per la quale sembra meno predisposto, forse intralciato o
sopraffatto dalla violenza che la sua straripante ricchezza di
immaginazione e di pensiero esercita sulla felicità della pura forma.
Il
miracolo linguistico, intraducibile come tutti i miracoli, si nota
invece in qualsiasi altro momento e di qualunque cosa egli parli: e
Ceronetti parla di tutto, di letteratura, di storia, di medicina, di
cronaca (preferibilmente nera), di politica, di teatro, di cinema, di
viaggi, per il nostro conforto e la nostra delizia.
Sarebbe
tuttavia un imperdonabile errore e una grave perdita attribuire ai suoi
saggi e ai suoi aforismi un semplice carattere di novità e singolarità
espressiva. Ceronetti non sommuove solo le parole e le immagini e
neppure solo il cervello. Il suo merito ancora più grande è che, nel
contempo, ridà anima all’anima , la cosa più preziosa della vita, della
quale abbiamo smarrito, non che l’esperienza, forse anche il ricordo.
Chi sei, se non hai un’anima? Salvatore della lingua e salvatore
dell’anima: così vorrei salutare e onorare Ceronetti per i suoi gloriosi
novant’anni