sabato 2 settembre 2017

Corriere 2.9.17
Lo scontro per l’egemonia sarà tra Stati Uniti e Cina
di Paolo Valentino

Il codice di condotta e perfino il vocabolario appartengono interamente alla Guerra fredda. La chiusura di tre uffici consolari russi negli Stati Uniti (fra i quali quello di San Francisco) decisa dalla Casa Bianca, è un altro episodio nella faida delle ritorsioni diplomatiche tra Mosca e Washington, una risposta studiata e proporzionata al taglio di 755 persone nello staff diplomatico americano in Russia, ordinato dal Cremlino in luglio.
Abbandonata ogni prospettiva di un grand bargain , frutto dell’empatia reciproca tra i due leader (confermata meno di due mesi fa al G20 di Amburgo) e della comune visione di un mondo gestito da uomini forti, Trump e Putin si preparano, loro malgrado, a una stagione di conflittualità permanente.
La percezione di una nuova Guerra fredda è infatti destinata a rafforzarsi a partire dalla metà di settembre, quando Mosca inizierà la più grande manovra militare degli ultimi 30 anni sui suoi confini europei. Denominata Zapad, Occidente in russo, proprio come quelle che l’Armata Rossa conduceva ai tempi dell’Urss, l’esercitazione coinvolgerà non meno di 18 mila soldati tra Russia, Bielorussia e Kaliningrad. Nonostante il Cremlino ne sottolinei il carattere difensivo, Zapad si configura come un impressionante spiegamento di capacità operativa, osservato con preoccupazione dai comandi dell’Alleanza Atlantica.
C’è un fondo di verità ma anche una suggestione ingannevole nell’evocare l’immagine di un ritorno al gelo tra Mosca e Washington, all’epoca in cui l’equazione strategica divideva l’intero pianeta tra «noi» e «loro».
Il confronto tra Russia e Stati Uniti è sicuramente denso di pericoli. Paradossalmente proprio perché non esistono più, o sono stati ridimensionati, quei meccanismi di trasparenza, controllo e gestione delle crisi, che per mezzo secolo impedirono alle tensioni tra i due blocchi il superamento dei livelli di guardia e spesso contribuirono a recuperare il dialogo. Ogni crisi, durante la Guerra fredda, portava sempre a un rilancio dei rapporti tra Cremlino e Casa Bianca, a un vertice, a un nuovo negoziato. Dall’arresto a Mosca di Nick Daniloff, corrispondente di Newsweek , nacque nel 1986 il summit di Reykjavik tra Reagan e Gorbaciov, che aprì la strada agli accordi sui missili nucleari. Oggi di tutto ciò non v’è traccia e invece di un vertice tra Trump e Putin, nei prossimi mesi probabilmente vedremo solo nuove ritorsioni.
Eppure la Guerra fredda non tornerà. Putin è un leader autoritario, al quale prendere le misure, ma non ha ambizioni egemoniche universali sorrette da un’ideologia come i leader dell’Urss. Soprattutto, il mondo non è più bipolare e una nuova Superpotenza già rivendica il suo posto negli equilibri globali.
In realtà ciò che rende improprio parlare di nuova Guerra fredda tra Mosca e Washington è proprio la marginalità del loro scontro. Detto altrimenti, non è in questa mini-replica della Storia che si giocano la partita decisiva dei futuri equilibri mondiali e in ultima analisi le grandi questioni della pace e della guerra.
È la penisola coreana, oggi, il teatro del conflitto che può sconvolgere il mondo. È lì che le pulsioni alla Dottor Stranamore di Kim Jong-un rischiano di far precipitare il vero scontro in fieri per l’egemonia mondiale, quello tra Stati Uniti e Cina. È quella che Graham Allison chiama la «trappola di Tucidide», nella quale, come nelle Guerre del Peloponneso tra Atene e Sparta, una potenza in ascesa e una affermata spesso cadono anche senza volerlo. Lo ha capito Vladimir Putin, tattico di talento anche in assenza di strategia, che si è già invitato al tavolo: la prossima settimana incontrerà a Vladivostok il presidente sudcoreano Moon Jae-in. E intanto fa sapere che «Russia e Cina hanno creato una tabella di marcia per la soluzione della crisi nella penisola coreana». Da Washington c’è solo il silenzio assordante di un tweet di Donald Trump: «Non è più il tempo di nego-ziare». L’America è non pervenuta.