Corriere 29.9.17
I paradossi di Corbyn l’ostinato
di Paolo Mieli
Grande
festa a Brighton per Jeremy Corbyn che nelle elezioni dello scorso
giugno ha elevato il Partito laburista sopra la soglia del 40 per cento
guadagnando qualche decina di seggi a danno dei conservatori: una platea
esultante gli ha a lungo impedito di prendere la parola scandendo
slogan a lui inneggianti, salutandolo a pugno chiuso, cantando a
squarciagola «Red Flag», la versione inglese di «Bandiera Rossa».
Grande
lutto nelle stesse ore, a Berlino, per Martin Schulz che pochi giorni
fa ha portato la Spd al minimo storico: il 20% (nel 1998 Gerhard
Schröder aveva ottenuto il 40,9 % con venti milioni di voti, che adesso
sono rimasti solo nove). Schulz può consolarsi raccontandosi che Angela
Merkel, come lui, rispetto alle precedenti elezioni ha perso un quinto
del proprio elettorato. Facendo notare come anche nel resto dell’Europa
continentale — a eccezione dell’Italia e del Portogallo — i suoi
compagni d’Internazionale non se la passano bene. Ma in Italia dove pure
gli ultimi tre presidenti del Consiglio appartenevano al Partito
democratico, a dire il vero, abbiamo dal 2011 (cioè da ben sei anni)
«governi del presidente», sorretti — per necessità — da maggioranze
trasversali. E in Portogallo il primo ministro socialista (dal 2015),
l’ex sindaco di Lisbona Antonio Costa, da una parte è anch’egli un
leader di minoranza e, dall’altra, è bilanciato (dal 2016) da un
presidente della Repubblica di centrodestra, l’ex giornalista Marcelo
Rebelo de Sousa.
I n Spagna il partito di Pedro Sanchez dopo
essersi dissanguato in più turni elettorali consecutivi si è visto
costretto a sostenere l’esecutivo guidato dal popolare Mariano Rajoy. In
Svezia il governo presieduto dal socialdemocratico Stefan Löfven non ha
in Parlamento una maggioranza autosufficiente. In Francia e in Grecia
sono al comando due personalità (Emmanuel Macron e Alexis Tsipras) che
in altri momenti storici avrebbero potuto essere socialiste ma che nelle
condizioni attuali hanno anzi contribuito a radere al suolo i partiti
socialisti veri e propri. Nei Paesi ex comunisti — a voler completare il
quadro — sono al governo qui e là dei socialisti per così dire atipici.
Molto atipici .
Questo sconsolante quadro è sicuramente
riconducibile alla crisi economica dell’ultimo decennio. Crisi che a
ogni evidenza ha danneggiato anche i partiti centristi e della destra
moderata, ma ha letteralmente travolto le formazioni socialdemocratiche.
Le quali hanno perso il loro elettorato di riferimento, non vengono più
percepite come partiti degli operai, dei contadini o più in generale
del popolo e si vedono costrette a coniugare improvvisate e maldigerite
«culture di governo» con un disordinato inseguimento dei «perdenti della
globalizzazione». Impresa assai ardua, anche perché su quest’ultimo
terreno sono costrette a competere con partiti antisistema meglio
attrezzati di loro, quantomeno sul piano della propaganda.
Il
partito socialdemocratico tedesco ha, in più, un avversario che ormai
può essere considerato definitivo: Die Linke (La sinistra). Nata su
iniziativa di un importante leader fuoruscito con rabbia dalla Spd,
Oskar Lafontaine, Die Linke — che ha persino preso sede in un palazzo
intitolato al leader della rivolta spartachista del 1919, Karl
Liebknecht — ottenne, al battesimo nelle urne del 2005, un ragguardevole
8,7%. L’atto di fondazione con il nome Die Linke avvenne in seguito,
nel 2007. Nel giugno del 2008 la formazione scissionista dall’Spd
conquistò in Sassonia il 18,7. Nel 2009 ottenne più del 20% di nuovo in
Sassonia, nella Saar e in Turingia (qui addirittura il 27,4). Sempre in
Turingia nel 2014 ha confermato il precedente successo ed è riuscita a
imporre un proprio presidente, Bodo Ramelow, sostenuto da Spd e Verdi.
Alle elezioni di domenica scorsa Die Linke ha ottenuto la metà dei voti
della Spd e nelle regioni dell’ex Germania dell’Est l’ha addirittura
abbondantemente scavalcata.
Da questa sintetica esposizione dello
stato della socialdemocrazia in Europa si può trarre una morale
semplice: i socialisti raccolgono voti là dove recuperano la loro anima
di sinistra. Soprattutto nelle situazioni in cui non sono compromessi
con esperienze di governo e, a maggior ragione, con esperienze avute in
condizioni di subalternità a partiti di centrodestra. Avanzano ancor
più, i partiti di sinistra, se si ripromettono esplicitamente di restare
in eterno all’opposizione, in un campionato dove si gioca per
contendere il voto di protesta a quei movimenti antisistema che da lungo
tempo hanno sfondato tra gli ex elettori dei partiti della sinistra
stessa. Crescono, insomma, se promettono (implicitamente e, talvolta,
esplicitamente) che al governo, a maggior ragione a guidare un governo,
non ci andranno mai più. E qui, con questa constatazione, potremmo
chiudere in discorso.
Ma c’è forse una morale meno semplice che si
può trarre dall’esperienza dei laburisti inglesi. Corbyn viene premiato
perché gli elettori del Labour Party gli riconoscono di esserne
diventato segretario sulla base di un voto degli iscritti, dopo un aspro
confronto con i parlamentari ma senza aver mai rotto con il partito.
Mai. Corbyn ha combattuto la sua battaglia dall’interno perfino quando
al comando c’era il leader più ammiccante al liberismo, Tony Blair, e le
sue posizioni erano tra le più radicali nell’intera sinistra europea.
Cioè addirittura quando le sue distanze dal segretario e primo ministro
laburista erano grandi come non se ne erano mai viste nella storia della
sinistra britannica e in quella del resto d’Europa. Ed è rimasto dentro
il partito — lo ha raccontato più volte — perché ha sempre avuto in
spregio le battaglie simboliche, le esperienze politiche limitate a
un’autocompiaciuta declamazione. Il suo orizzonte, come quello di tutti i
laburisti inglesi e degli autentici socialdemocratici dell’intera
Europa, è sempre stato un altro. Anche nel discorso che, dopo le
infinite feste, è riuscito a tenere al congresso di Brighton, ha detto
esplicitamente di avere come meta il numero 10 di Downing Street, là
dove intende prendere la residenza nei panni di primo ministro. Da solo o
a capo di una coalizione nella quale, beninteso, sarà lui ad avere in
mano il bastone del comando. Ed è forse questa, solo questa la
motivazione che può portare alle urne decine di milioni di elettori. Se
Corbyn lasciasse intendere, come ha fatto Schulz nel corso dell’ultima
campagna elettorale, che dopo il voto potrebbe accomodarsi a fare il
secondo di Theresa May (o di chiunque altro ne prendesse posto),
dovrebbe nel contempo dire addio a ogni effetto di trascinamento delle
sue parole e, con ogni probabilità, vedrebbe nascere alla sinistra del
proprio partito qualche nuovo gruppo in grado di insidiarne il possibile
primato .
Corbyn si mostra consapevole del fatto che alle
prossime elezioni dovrà presentarsi con un’agenda di governo. Con
messaggi indirizzati sì ai dannati della globalizzazione ma capaci di
offrire loro (e anche alla maggioranza degli inglesi che vivono in
condizioni meno disperate) una prospettiva di guida della Gran Bretagna.
Il paradosso di Corbyn è di essere credibile nell’offrire tale
prospettiva proprio perché il suo passato — le idee di sempre, certo, ma
anche l’essere rimasto a difenderle all’interno del proprio partito —
rappresenta una garanzia contro ogni possibilità di cedimento e
soprattutto di subalternità. È un leader forte perché è credibile in un
Paese, la Gran Bretagna, che è forse l’ultimo d’Europa a essere rimasto
sostanzialmente bipartitico, in cui le Grandi Coalizioni si fanno solo
in tempo di guerra.