Corriere 29.9.17
Perché difendo l’Università: ha solo bisogno di risorse e fiducia
di Carlo Rovelli
Recenti
denunce di episodi di corruzione hanno gettato un’ombra sull’Università
italiana. È un’ombra che alimenta un sentimento di sfiducia verso
l’Università diffuso in alcuni settori del nostro Paese, e risuona con
lamentele sentite molte volte: fuga dei cervelli, parzialità nel
reclutamento, numero eccessivo di università o corsi di laurea . Forse
l’Università italiana è malata? Ha bisogno di tutela, cura o
ridimensionamento? Mi sembra che ci siano alcuni equivoci riguardo
all’Università, e una percezione incorretta della situazione reale.
L’Università
italiana è, e resta, una delle migliori del mondo, custodisce
competenze uniche, che non esistono altrove, continua ad educare una
delle popolazioni più colte, intellettualmente brillanti e vivaci del
pianeta. Non è priva di difetti, ma è fra le migliori del mondo. Certo,
non abbiamo Cambridge o Harvard, ma non abbiamo neanche il brutale
elitarismo sociale che le nutre, per fortuna. Non abbiamo le «grandes
écoles» francesi, ma molte delle altre università francesi sembrano
terzo mondo rispetto alle nostre. Qualcuno si lamenta che abbiamo troppi
laureati? Fra i Paesi avanzati siamo il Paese che ne ha percentualmente
meno. Qualcuno si lamenta che abbiamo troppe università? L’Inghilterra
ne ha molte più di noi.
La riduzione delle risorse
Vivo da
molti anni in università estere, e da questa prospettiva i problemi
dell’Università italiana mi sembrano altri. Il primo è che il periodo di
difficoltà economica che il Paese ha attraversato ha portato diversi
governi a decidere per un ridimensionamento drastico delle risorse che
il Paese investe nell’educazione. Gli investimenti a lungo termine sono i
primi che nei momenti difficili vengono tagliati, io direi
incautamente. La prima malattia di cui soffre l’università italiana è la
riduzione delle risorse. Non ha bisogno di ridimensionamento: ha
bisogno di risorse.
La sfiducia nella cultura
Il secondo
problema di cui soffre l’Università è la perdita di fiducia. In primo
luogo da parte della politica. Invece di vedere nella cultura e
nell’intelligenza di cui l’Università è depositaria una risorsa cruciale
a cui fare appello, come succede nei Paesi che funzionano meglio, una
parte della classe polita ha cominciato a sentirla come fastidiosa
sorgente di critica. La sfiducia nella cultura è il primo risultato di
ogni scivolamento verso il populismo. L’università italiana non ha
bisogno di tutela, ha bisogno di fiducia.
Reclutamento e ricambio
La
grande idea che fonda l’Università risale al Medioevo: una singola
istituzione che custodisce la cultura, continua a farla crescere, e la
trasmette alle nuove generazioni facendone la base dell’educazione di
una parte più possibile ampia della popolazione. Come tutte le
istituzioni, l’Università è fatta da persone ed è la qualità di queste
che conta. La chiave della sua efficacia è la spinosa questione del
reclutamento e del ricambio. Ovunque nel mondo, fiorisce quando riesce a
reclutare i giovani migliori, stranieri e nazionali, e sa fare scelte
oculate e lungimiranti sulle direzioni verso cui rinnovarsi. L’attuale
situazione di strozzamento rende questo difficilissimo e genera
comportamenti difensivi e talvolta miopi. Ma il punto essenziale è che i
tentativi di rimedio, a mio giudizio, stanno andando nella direzione
sbagliata: aggiungere regole, moltiplicare automatismi e vincoli,
togliendo responsabilità e fiducia a chi decide, come se l’eccellenza
fosse qualcosa che si potesse riconoscere con algoritmi.
Norme devastanti
Una
norma recentemente introdotta dal ministero richiede un numero minimo
di pubblicazioni e citazioni per essere assunti in posizioni
universitarie, senza possibilità di deroga. L’effetto è devastante: un
collega italiano che guida uno degli esperimenti internazionali più
importanti del mondo mi scrive recentemente disperato perché, in un
campo come il suo dove il numero di pubblicazioni e citazioni è
strutturalmente basso, la norma gli impedisce di fatto il reclutamento
dei giovani più brillanti che lavorano sull’esperimento. L’intenzione
della norma era quella di evitare assunzioni immeritate, il risultato è
bloccare assunzioni meritatissime, e spingere i giovani a pubblicare
tanto e male, anziché poco e bene. La norma è state recentemente
criticata in una lettera indirizzata al ministro firmata da numerosi
premi Nobel da tutto il mondo. Non sorprende, in fondo a ben guardare si
tratta di una norma che impedirebbe di fatto all’università italiana di
assumere diversi vincitori del Nobel.
La libertà dei singoli
La
soluzione a mio giudizio va nella direzione opposta: non moltiplicare
automatismi e paletti, ma dare fiducia alla capacità dei singoli di
scegliere; valutare poi successi e insuccessi a posteriori, premiando i
successi. Questo avviene nei sistemi universitari migliori del mondo e
questo è il modo in cui l’Università ha dato il meglio di sé nel passato
anche in Italia. La grande scuola di Fisica di Roma, per esempio, uno
dei vanti dell’università italiana, è esistita perché Edoardo Amaldi ha
saputo riconoscere straordinari giovani talenti attorno a sé, e guidare
con lungimiranza la politica scientifica della fisica italiana. Aveva
risorse, fiducia, e la possibilità di assumere responsabilità in prima
persona. Così si è fatta una grande università, piena di intelligenza e
di profondità culturale a cui tutto il Paese attinge.
La possibilità di scegliere
Le
scelte di politica scientifica non sono facili, ci si sbaglia nelle
valutazioni e il futuro è difficile da prevedere. Ma qualcuno deve
poterle farle, disponendo di risorse e di possibilità di scelta.
Scegliere implica anche scontentare. Io non sono stato contento quando
l’Università italiana ha scelto ripetutamente di fare a meno di me; ma
generare anche scontentezza è inevitabile. Io sono impegnato in una
direzione di ricerca che comporta alto rischio, e comprendo la ripetuta
esitazione ad investire in questa direzione. Se quella scelta sia stata
una buona o cattiva non sta a me giudicare, ma da parte mia non ho certo
perso stima e rispetto, sia scientifico che umano, per gli scienziati
italiani che ne sono stati coinvolti. Conosco le difficoltà nel gestire
la complessità della politica scientifica e mi sono trovato poi nella
vita a dover io decidere carriere degli altri: so quanto sia difficile.
L’ultima cosa che vorrei è che esperienze come la mia fossero prese ad
argomento per alimentare la sfiducia verso l’università italiana.
L’università
italiana non ha bisogna né di sfiducia, né di tutela, né di
ridimensionamento, per superare le attuali difficoltà. Ha bisogno di
risorse e di fiducia.